Il teatro alla Spezia: assenze, scarti e e alcune modeste provocazioni

Note a margine del convegno sui Teatri Minori a Genova, palazzo Ducale, gennaio 2011.

Pubblicato il 19/02/2011 / di / ateatro n. 132

Intervengo al convegno genovese organizzato dall’’Associazione teatrale Lunaria di Daniela Ardini come studiosa di teatro e come organizzatrice di eventi teatrali nella provincia della Spezia. Per il convegno ho incontrato due rappresentanti del teatro minore spezzino di cui porto una piccola ma significativa testimonianza: la compagnia degli Scarti e la compagnia degli Evasi. Il loro nome è tutto un programma: sono i prigionieri che vogliono evadere dalla città e dalle sue logiche, sono gli scarti, gli esclusi, i rifiuti di produzione che nessun centro di smaltimento vuole accogliere. Neanche qua alla Spezia dove, solenne, si erge la famosa discarica di Pitelli, nota come “la collina dei veleni”, vero simbolo della città.
La prima cosa che mi preme dire è che la criticità evidenziata nella nostra provincia e non da ora, è la scarsa propensione a investire e a programmare una cultura altra e giovanile: è una lamentazione che è stata espressa a più riprese dalle associazioni culturali spezzine su cui le istituzioni culturali sono intervenute in maniera minima, privilegiando una programmazione standard, assai polverosa e di scarso appeal che non corrisponde alla vivacità dell’ “aria che tira”, al fermento artistico che ci circonda. Una nube di vecchiume circonda la città rendendola ancora più grigia di quello che non sia.
Per cambiare le cose, dicono le associazioni, occorrerebbe un tavolo di concertazione comune, una progettualità aperta ai diversi gruppi e settori della cultura, articolata, rappresentativa e attivamente partecipata. Gli incontri con i rappresentanti delle istituzioni in passato non hanno prodotto nulla di significativo, nulla è cambiato. Uno strumento utile e democratico da adottare subito sarebbero sicuramente i bandi pubblici per le direzioni artistiche (selezionabili queste, solo da progetti pluriannuali) e le commissioni collegiali con tecnici competenti (selezionabili solo attraverso curriculum non secondo le solite discrezionalità o affiliazioni politiche), magari allargate anche ai giovani, per scegliere proposte e progetti secondo criteri di assegnazione rigorosi e trasparenti.
Nello specifico va detto che alla Spezia – fatto salvo la Dialma Ruggiero, uno spazio decentrato e sfortunato che accoglie molte attività ma senza un’identità specifica – esiste unicamente il Teatro Civico che ospita 900 posti; non è un teatro di produzione, non ospita teatro di ricerca e non fa residenze, questa è la nota dolente più volte sottolineata in alcune delle occasioni di confronto con le istituzioni; inoltre è un funzionario comunale e non qualche vivace compagnia teatrale che fa la programmazione del Teatro la quale, di conseguenza, è tipicamente d’agenzia, molto tradizionale, addirittura polverosa, inutilissima e priva di un tema comune, di un’idea portante: ci viene proposto così il “teatro mortale” contrapposto al “teatro vivente” di cui parlava Peter Brook, che ha certamente il suo pubblico di amatori, di abbonati perfetto forse solo se si guarda ad una certa fascia di età, decisamente elevata, del pubblico. Ma chi l’ha detto che i giovani non amano andare a teatro? E che il teatro di ricerca spaventa e allontana quel pubblico non teatralmente o tecnologicamente alfabetizzato?
Per il resto dell’anno il Teatro Civico è di norma chiuso e questo è un altro dato negativo: si potrebbe usare per fare formazione anche nelle professioni tecniche non solo artistiche della scena, creando sinergie e convenzioni con le università, con le accademie, con i Conservatori, con gli istituti d’arte.

Un Progetto pilota di collaborazione tra strutture di alta formazione artistica regionale è stato ideato da docenti di musica e di teatro del DAMS di Imperia e del Conservatorio della Spezia che ha portato alla realizzazione di uno spettacolo multimediale musicale interpretato dagli studenti delle rispettive istituzioni.

Il Teatro Civico, così importante e centralissimo, è in realtà lontano anni luce da chi il teatro lo fa davvero, appunto i protagonisti di quel teatro minore sempre alla disperata e ossessiva ricerca di una sede, e lontano anche da quelli che sono gli ambiti della sperimentazione più attuale. Mentre si investe moltissimo per il teatro maggiore, che è un teatro già di per sé ricco, costoso, elitario, non si investono i proventi derivanti da queste programmazioni nel teatro minore che è costantemente in crisi finanziaria e che possiamo identificare con quel teatro di ricerca che lavora sui contenuti, sulle nuove drammaturgie, sui nuovi materiali tecnologici, su tematiche di impegno politico e sociale. Pensiamo al modello virtuoso dei teatri della Toscana (la Fondazione Toscana Spettacolo), ad alcuni felici esempi di vicini Festival di qualità (Lunatica in Lunigiana diretto da Marina Babboni) ma anche alla vivacità di teatri genovesi dove una compagnia residente anima il teatro, lo fa vivere con i laboratori e lo rende luogo aperto alla città.
Il teatro minore è un teatro di qualità, è l’altro teatro che potrebbe affiancarsi al teatro commerciale, formando un pubblico: penso alle ottime sperimentazioni di quel teatro che usa le modalità delle innovazioni tecnologiche tra installazioni e videoproiezioni, e che riesce a parlare a tutto il pubblico anche a quello giovane perché in grado di comunicare diversamente. Questo “teatro altro” è slegato da logiche di mercato e per sopravvivere deve essere necessariamente supportato non solo economicamente ma anche da tutta una rete che in armonia con le forze cittadine e provinciali, lavori a definire un progetto di identità culturale. Sarebbe infatti auspicabile -e in Liguria se ne parla da vent’anni-, provare a mettere in piedi i singoli pezzi di un circuito, un network che darebbe linfa vitale a chi non può permettersi di far uscire il proprio lavoro dal territorio provinciale. Una logica (e una politica) di “sistema” ricordava Oliviero Ponte di Pino in un intervento delle Buone Pratiche, rafforzerebbe sicuramente le proposte minimizzando gli sforzi, creando effetti virtuosi sulle singole iniziative.
In fondo quel teatro di ricerca “altro”, che noi amiamo, alla Spezia non viene promosso se non incidentalmente, anche se in minima parte c’è, esiste, sia pur sommerso, non essendoci un censimento delle attività e dei luoghi; è un teatro invisibile per mancanza di riconoscimenti e di aiuti istituzionali, in costante negoziazione di spazi e fondi. Se ne fanno portavoce alcuni gruppi: la Compagnia degli Evasi e la compagnia degli Scarti. Nonostante i grandi sforzi e i buoni risultati, -gli Evasi preparano spettacoli su tematiche storiche di impegno civile (27 produzioni in otto anni di vita, replicate 180 volte) e dirigono un Festival a Castelnuovo, Teatrika con ottima partecipazione di pubblico, mentre i giovanissimi e numerosi componenti degli Scarti hanno appena realizzato uno spettacolo politico degno di visibilità nazionale, Ubu rex- entrambi continuano a fare spettacoli in totale autoproduzione. Tutti gli incassi ottenuti vengono reinvestiti sulle nuove produzioni per i ben noti “costi vivi” del teatro: scene, costumi, attrezzature, manutenzioni, furgone, tecnici…e poi si tassano per rimborsare le giornate di lavoro perse a coloro che fanno dell’altro. Provano in luoghi di fortuna, garage o seminterrati, in sale parrocchiali perché i centri culturali comunali hanno prezzi troppo alti per chi ne ha bisogno per lunghi periodi. Queste compagnie mi piacciono perché puntano sulla serietà del lavoro teatrale e sulla necessità di raccontare alcuni temi urgenti anche quando hanno poche economie da gestire. Loro sono quelli, sicuramente troppi nel teatro di oggi, che devono fare sistematicamente della povertà virtù, ma non hanno nulla da invidiare a coloro che pur non avendo questi problemi economici, investono tutto in pubblicità per coprire l’assenza di idee.
Mi piace citare l’intervento di Andrea Cerri, degli Scarti apparso oggi sulla cronaca locale in cui si ribadisce l’indipendenza dei loro progetti ma anche l’impossibilità ad avere come vorrebbero, un ruolo più centrale per la crescita culturale della comunità: “Non abbiamo alcun sostegno né pubblico né privato (…), questo ci rende autonomi, meno legati a compromessi. Nessuna amministrazione si è mai preoccupata più di tanto di trasformare vecchi teatri in disuso in qualcosa in più di un discount o un parcheggio. Le giovani compagnie si ritrovano nei salotti degli amici, nelle parrocchie. Così ogni punto di riferimento per la creazione, fisico e intellettuale è smarrito e non c’è possibilità di crescita. Il nostro teatro arranca verso l’idea di quello che vorremmo essere e la necessità di sopravvivere”.
Infatti si parla di sovvenzioni pubbliche per le associazioni teatrali in termini di poche centinaia di euro: nella maggior parte dei casi devono autofinanziarsi per farsi da soli la formazione, chiamando nelle loro sedi temporanee e poco ospitali, registi come Massimiliano Civica o attrici come Cathy Marchand per fare da supervisori al loro lavoro teatrale, poiché in città non ci sono scuole professionali. Questo fa sì che non sia possibile considerarli compagnie professioniste anche se non sono affatto amatoriali; non sono professionisti perché non riescono a fare bordereaux, non vivono del loro lavoro.
In questa malsana aria che tira in cui dilaga il protezionismo (l’uguaglianza di opportunità non è mai contemplata, e la qualità e la competenza se c’è è un caso), in cui non si investe sugli spazi di aggregazione giovanile e dove non c’è coordinamento tra le iniziative o continuità nei progetti formativi, con conseguente desertificazione dei musei e dei luoghi di cultura (altro che “motori dell’innovazione”, “attivatori sociali della creatività” (sic), slogan che appartengono alla campagna elettorale del 2007 dell’attuale sindaco Massimo Federici) ci piacerebbe ripensare la cultura come frutto di un serio e sano dibattito civico attualmente azzerato.
La proposta più ragionevole sarebbe quella di fare del Teatro Civico un luogo di formazione continuata (oggi esistono nuove professioni legate all’allestimento multimediale per il teatri, al video design e alla progettazione grafica 3D applicata alle arti teatrali e coreutiche), di residenza o di produzione proprio di questo teatro minore, minore ma solo perché meno visibile; alla richiesta di una programmazione di un teatro altro, alternativo, le istituzioni culturali hanno sempre risposto o che non ci sono risorse o che non ci sono teatri. Le risorse probabilmente non ci sono ma potrebbero essere razionalizzate; d’altra parte La Spezia è sede di uno dei Festival più sovvenzionati (Aria Festival, diretto da Pischedda junior), su cui la giornalista genovese Michela Bompani aveva scritto un assai eloquente articolo di denuncia intitolato “I ricchi e i poveri del teatro in Liguria” su Repubblica.
Per il resto, è vero: alla Spezia i teatri non ci sono, però c’erano: il CinemaTeatro Astra di Via Veneto è diventato un supermercato, lo storico e monumentale CinemaTeatro Monteverdi di via dello Zampino (fondato nel 1919 dal mio bisnonno), vincolato dalle Belle Arti, sotto la giunta di sinistra guidata da Giorgio Pagano all’inizio del 2000 è diventato un parcheggio, il Trianon, teatrino privato di inizio secolo incastrato tra i fondi commerciali di Via Manzoni, un’autorimessa.

Il Teatro Trianon (foto Mauro Manco).

AltraCultura aveva posto l’accento su questi spazi inutilizzati e aveva creato un bel fermento di attività con ospiti sia gli Scarti che gli Evasi, testimoniato da queste fotografie degli eventi ospitati.

Forse non ci sono spazi teatrali attrezzati ma dopo l’esperienza delle neoavanguardie non si può più dire che non si può fare teatro perché NON CI SONO TEATRI: il Living Theatre, l’Odin, il Bread and Puppet ci hanno insegnato che gli spazi non sono ma diventano, che ogni luogo può diventare funzionale, e che uno spazio industriale o militare può essere drammaturgicamente interessante se reinventato ex novo e ad hoc.
Se il Teatro Civico ha fidelizzato un pubblico non giovanissimo, altri spazi sono quindi in attesa di destinazione e guida se enti pubblici o privati decidessero di farsene carico e di affidarli a professionisti giovani e competenti e offrire un’alternativa concreta (e un ricambio generazionale) di cui si ha urgente bisogno. Possiamo dire piuttosto che le istituzioni devono cominciare seriamente a porsi il problema di nuovi spazi culturali e di come utilizzarli, dal momento che quelli che ci sono non vengono messi a disposizione. Ci sono le fortificazioni militari delle zone collinari e panoramiche della provincia (il forte Macé, il forte dei Pianelloni), spazi paradossalmente restaurati negli anni Novanta dunque in buone condizioni strutturali e architettoniche ma in stato di abbandono e di degrado. Ci sono le fortificazioni di epoca napoleonica in condizioni perfette all’Isola Palmaria ma non sono mai state usate per residenze teatrali e solo incidentalmente per brevi mostre e per la manifestazione da me diretta Genius loci events. E’ falso poi dire che non ci sono spazi in una città come La Spezia che ospita l’Arsenale militare. Insisto sulla questione dell’Arsenale come possibile luogo teatrale, come cantiere di produzione teatrale: avendo lavorato per alcuni eventi dentro l’Arsenale chiamata dalla Marina Militare in occasione di celebrazioni centenarie, ho avuto modo di verificarne la potenzialità. Qua abbiamo realizzato uno spettacolo multimediale per la Festa della Marineria sopra il leudo centenario “Felice Manin”, mentre i bacini di carenaggio hanno ospitato uno spettacolo di ispirazione futurista per il centenario della corrente marinettiana.

Spettacolo ai Bacini di Carenaggio dell’Arsenale.

Eravamo curiosi della risposta del pubblico spezzino rispetto a questa proposta di “altro teatro in altri luoghi”. Quel pubblico, un pubblico curioso ma non abituato ad andare a teatro e a cui è di norma interdetto l’accesso all’area militare, ha atteso fuori dalla porta principale dell’Arsenale per molte ore prima dell’inizio, per paura di non trovare posto, e alla fine ci aspettava per chiederci quando ne avremmo fatto un altro. Anche i luoghi possono dare un’efficace suggestione o stimolo per andare a teatro e possono sicuramente essere parte integrante di un concept teatrale. Capannoni che sono stati rimessi a nuova vita dall’Autorità portuale e dalla Marina in occasione delle celebrazioni dei centoquarant’anni della Fondazione e dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, potrebbero essere utilizzati come “cantieri residenziali”, per un teatro alternativo, e diventare la sede ideale magari addirittura regionale, di questo teatro minore.
L’Arsenale come Officina dell’Arte Scenica, come Cantiere creativo residenziale? Prato e Pontedera ci hanno insegnato come piccole realtà di provincia nate attorno all’industria possano ritagliarsi, un’identità artistica molto forte. In questi anni i ragazzi di Zo culture a Catania hanno trasformato un’ ex raffineria di zolfo e un insieme di edifici industriali del secolo scorso, in un centro per le culture contemporanee. Si diceva i luoghi non sono, diventano e questo “farsi luogo” dell’Arsenale potrebbe essere la prossima scommessa di una città che investe sulla cultura. Oggi il tema dell’Arsenale e dell’utilizzo delle sue aree è in primo piano sui giornali locali per il depotenziamento dell’area militare a vantaggio di Taranto, e sarà sicuramente argomento principe della prossima campagna elettorale. Qui vennero costruiti i primi idrovolanti, dagli scali dell’Arsenale scese il primo sommergibile sperimentale italiano, “Delfino”, consegnato poi alla Marina Militare nel 1896 e proprio all’interno della base militare sono stati compiuti i primi esperimenti di Guglielmo Marconi sulla radiotelegrafia di supporto alla navigazione. Le idee per una riconversione delle aree militari sono legate per ora da parte del COMUNE all’unico uso delle strutture ospitanti come campus universitari, o all’uso delle banchine e dei bacini di carenaggio per nuove produzioni cantieristiche private o restauri navali ma la discussione deve essere allargata a mio avviso, dal tavolo di concertazione sindacale, politico e militare all’intera società civile perché l’Arsenale rappresenta nel bene e nel male, una grande parte dell’identità e della memoria storica della città e che può ancora essere resa funzionale e funzionante non solo in termini industriali ma anche culturali. La Fonderia con annessa Zincheria, edificio rimasto illeso dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale attualmente dismesso e ingombro di macchinari, modelli e altri residui di lavorazione potrebbe essere, con un adeguato restauro conservativo, uno spazio adattissimo alla rappresentazione teatrale. Quest’edificio (Fabbricato 50) potrebbe essere sia un ideale Padiglione Espositivo in cui depositare l’immensa memoria del lavoro umano, sia luogo dove dare spazio ai nuovi ingegni e a nuovi progetti nell’ambito dell’arte e della scena.
Si parla tanto di ricostituire comunità ma non è mettendo insieme le persone in un luogo qualunque privo di storia e di valore che si può ricostituire un tessuto culturale. Credo al contrario che solo censendo questi luoghi ricchi di storia e potenzialmente trasformabili, e insieme queste realtà del teatro minore ancora purtroppo sommerse, dandogli ascolto, offrendo loro le opportunità produttive che onestamente meritano per uscire da un’ottica meramente provinciale, discutendo di quali risorse siano necessarie, ragionando su come mettere in rete tutta questa ricchezza, si potrà davvero cominciare a migliorare e diversificare un’offerta teatrale oggi forse troppo a senso unico.
Infine un consiglio ad uso delle Istituzioni culturali della città: la funzione dell’arte è vitale sempre e va sostenuta e non emarginata anche (anzi, a maggior ragione) laddove questa si presenti critica nei confronti del sistema dominante perché è garanzia di pluralismo: il teatro per essere davvero pregnante deve mostrarsi –come diceva Peter Brook- “un acido, una lente di ingrandimento, un riflettore o un luogo di confronto”.

Anna_Maria_Monteverdi

2011-02-19T00:00:00




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