BP2011 MATERIALI Tre idee per sostenere l’insostenibile

Tassa di scopo, azionariato diffuso, responsabilità sociale

Pubblicato il 23/02/2011 / di / ateatro n. #BP2011 , 132

Qualche breve nota a mo’ di premessa ed inquadramento, a partire dalla brughiera gallaratese, per cercare di allargare uno sguardo possibile all’orizzonte.
Cinquantamila abitanti, dalla metà dell’Ottocento Gallarate è stata un centro di prima importanza per l’industria tessile, su cui ha storicamente costruito la propria identità, e nel Secondo Dopoguerra anche per l’industria aeronautica. Di recente, la sua posizione strategica tra l’aeroporto di Malpensa e Milano, l’ha ulteriormente favorita, seppure con una funzione essenzialmente di transito: non è casuale, del resto, che l’enfasi legata al possibile incoming turistico che aveva accompagnato la costruzione dell’aeroporto si sia ora significativamente ridimensionata, evidenziando anzi una forte crisi del settore alberghiero.
Nel 2001 viene eletto, per il suo primo mandato, un Sindaco di centrodestra (Forza Italia) che, da subito, persegue lucidamente un disegno obiettivamente di grande interesse e al contempo in fortissima controtendenza rispetto alle politiche culturali – di destra e sinistra – di quegli anni: in un’epoca di spazi che si chiudono, cioè, l’Amministrazione Comunale di Gallarate decide di investire fortemente sulla cultura, sui suoi luoghi e sulle sue istituzioni come risorse e come filo conduttore possibile per la ricostruzione di una nuova identità cittadina. (1)
Anzitutto a partire dai luoghi: nel 2006 – dopo un laborioso, costoso (ed in parte affrettato) lavoro di restauro – tornano a rivivere due teatri storici della città. In marzo viene inaugurato il piccolo ed incantevole Teatro del Popolo (220 p., risalente al 1921) e poco dopo, in aprile, il più grande e ottocentesco Teatro Condominio Vittorio Gassman (650 p. circa). (2)
In ulteriore controtendenza con i tempi ,(3) tuttavia, l’Amministrazione non si limita all’investimento in conto capitale per la ristrutturazione ma si pone – a monte della rinascita dei teatri, nel febbraio 2005 – il problema della loro gestione efficace e continuativa. Nasce così, con compagine societaria a maggioranza pubblica, la Fondazione Culturale di Gallarate. L’idea è quella di istituire uno strumento gestionale agile, sganciato dall’elefantiasi burocratica della Pubblica Amministrazione, strutturato professionalmente ed in grado – almeno in parte – di aggirare alcuni dei vincoli imposti alle spese dei Comuni dal Patto di Stabilità. Occorre però anche ricordare, al contempo, che la nostra organizzazione nasce sulla scorta della mitologia – molto diffusa in quegli anni ed in generale “ai tempi del colera” del Welfare e a tratti supportata, più o meno astrattamente, da ambienti universitari (4) – sull’efficacia dello “strumento-Fondazione” come intercettore di rilevanti e continuative risorse private: un assunto che, non solo con riferimento al caso concreto, si è rivelato ampiamente infondato. (5)
Da qui – non senza alcune iniziali difficoltà, legate alla radicata mitologia di cui sopra – la necessità di stipulare, da subito, una convenzione pluriennale (si è poi consolidata la biennalità) tra il Comune e la Fondazione finalizzata al trasferimento di risorse dedicate alla gestione e programmazione dei teatri nonché alla stabilità dell’impianto organizzativo. (6)
Il primo biennio si caratterizza per il carattere fortemente “sperimentale” (sul piano quantitativo e qualitativo) dell’attività: da un lato per la necessità di verificare l’intensità realmente sostenibile della stagione e al contempo per definire, per entrambi i teatri, una fisionomia ed una identità interstiziali (ossia in grado di proporre repertori e generi differenti da quelli presenti storicamente in città ed in grado di rivolgersi ad un bacino di utenza ampiamente extra-gallaratese).
Coincidono con l’avvio della prima stagione due scelte legate alle possibilità di autofinanziamento:
1. Anzitutto – anche in relazione al decreto sulla competitività emanato nel 2005 – l’acquisizione dello status di ONLUS: che consente, da un lato, di ricevere donazioni da privati e da imprese detraibili dall’imponibile fino a 70.000 €; e, dall’altro e per certi versi più significativamente, di accedere all’elenco delle organizzazioni accreditate per il versamento del 5 per mille. Un’opzione che ha fruttato alla Fondazione un gettito oscillante tra i 15.000 e i 20.000 € nel corso del triennio 2006-2008.
2. In secondo luogo (e anche, devo dire con onestà, “solleticando” le pulsioni volte all’acquisizione ed esibizione di elementi di “status symbol” della medio-alta società gallaratese, particolarmente accentuate nel periodo immediatamente successivo alle inaugurazioni dei teatri) introducendo una tessera/abbonamento generalista (“furbetta” anche nel nome: “Golden Class”) all’intera stagione, dal costo – apparentemente del tutto “folle” – di 1.000 €. Una “lucida follia“, evidentemente: dal momento che questa tessera è stata acquistata – il primo e il secondo anno – da una settantina di spettatori per ridursi, oggi, al numero comunque rilevante di circa quaranta abbonati. (6)
Detto questo: come è stata finanziata, dall’Ente Pubblico, questa “lucida follia”, questa stranissima “eccezione gallaratese”?
Il tributo più visibile ed evidente – sino a tempi recenti – è stato sostanzialmente pagato (soprattutto nelle aree periferiche) alla qualità del contesto urbano, segnato per tutto il primo decennio del 2000 da una progressiva e costante edificazione (l’opposizione parla, forse più correttamente, di “cementificazione“) della città, con rilevantissime entrate derivanti da oneri di urbanizzazione. A questo dato va poi aggiunto – nel 2007 – il sostanziale raddoppio dell’addizionale IRPEF, che passa dallo 0,3% allo 0,55% (cioè da 1.030.000 € a 1.900.000 €), per lo più senza indicazioni precise rispetto alla finalizzazione dei tributi (si parlò in generale di “potenziamento dei servizi”).
Poi, però, anche qui è arrivata la crisi. E anche il mito (o l’illusione) dell’inesauribilità delle risorse da urbanizzazione ha mostrato, infine, tutti i suoi limiti.
Una crisi, tuttavia, probabilmente inattesa o che, forse, si è voluto ritenere molto più rapida e transitoria di quanto non si stia rivelando alla prova dei fatti. Un errore percettivo che – per molti versi – spiega forse, almeno in parte, la leggerezza con cui si è andati incontro al radicale mutamento che ha caratterizzato lo scorso anno il quadro di quella che mi piace considerare “l’ecologia culturale” della città. Con una metafora: se noi eravamo grossi brontosauri, ad un certo punto – atteso, ma con la strana consapevolezza rassegnata del “poi si vedrà” – è finalmente apparso, come in Jurassic Park, il Tirannosaurus Rex.
Nel marzo 2010 vede la luce e viene inaugurata dopo anni di costruzione – con una mostra dedicata ad Amedeo Modigliani – la nuova, splendida, sede della Galleria d’Arte Moderna, che viene ribattezzata MA*GA (Museo d’Arte Gallarate). Nasce anche da subito, in parallelo, la Fondazione che si occuperà della gestione e che si caratterizza immediatamente – contrariamente a quanto accaduto per noi – per una pressoché totale applicazione dello spoil system nella composizione del C.d.A. (a partire dalla presidenza, affidata ad Angelo Crespi, consigliere di Bondi: sotto il cui patrocinio ministeriale – non finanziario – il nuovo organismo prende il via).
Ingentissimi costi di costruzione e strutturali. Ma soprattutto, e con tutta evidenza, straordinari costi legati all’attività: con una convenzione recentemente sottoscritta che prevede un contributo pari a 950.000 € annui (con l’esclusione delle le utenze), connessi sostanzialmente alla copertura di quasi tutti i costi, compresi – in parte – quelli di allestimento delle mostre (200.000 di contributo, quest’anno, solo per la mostra dedicata a Giacometti che verrà inaugurata il 5 marzo).
Il Comune di Gallarate si trova dunque a dover sborsare – solo per le due Fondazioni – costi vivi approssimativamente pari a 1.400.000 €. A cui si aggiungono tutti i costi legati alle utenze… Uno stato di cose, visibilmente (ma soprattutto a detta dei quadri dirigenziali), non più sostenibile.
Il tutto in un contesto in cui: (a) Calano verticalmente le entrate da oneri di urbanizzazione; (b) Si riducono in modo drammatico i trasferimenti dello Stato; (c) In alcuni casi – sebbe non sia tanto il caso di Gallarate – le sanzioni dovute alle violazioni del Patto di Stabilità mettono in ginocchio numerosi Comuni e in alcuni casi riducono i bilanci al lumicino della sussistenza; (d) Conseguentemente vengono tagliati altri servizi essenziali nei settori dell’istruzione (i bambini che vanno a scuola con la carta igienica in tasca; i maestri che chiedono ai genitori le fotocopie) e della stessa assistenza sociale. (8)
Da questo quadro – anche a titolo di “lascito testamentario” ideale per la Fondazione di Gallarate, da cui sono dimissionario – alcuni possibili versanti d’intervento complementari (cioè non necessariamente in alternativa tra loro), che scaturiscano da politiche pubbliche democratiche, trasparenti, esplicite e sottoposte alla valutazione della collettività. Ipotesi che – ed ecco il senso di questa testimonianza – ritengo possano in realtà rappresentare un’indicazione più generale per programmi trasparenti di sostegno della domanda e dei luoghi della programmazione teatrale.
1. Tassa di scopo
Riprendo un’osservazione molto interessante – dovuta al Prof. Trimarchi – che già citai al convegno di Mira. Falliti (o comunque dimostrati poco (o addirittura a-) scientifici) tutti i tentativi di giustificare l’intervento pubblico in chiave filosofica, socio-antropologica, pedagogica, ecc. rimane un dato, storico ed inequivocabile: tutti i sondaggi che indagano l’opzione dei consumatori relativamente all’opportunità del finanziamento pubblico del teatro danno usualmente esito ampiamente positivo. Questo significa che un’ampia maggioranza dei contribuenti (che, ovviamente, in misura predominante non è pubblico dei teatri) è tuttavia favorevole a destinare una quota della sua tassazione per garantirsi un diritto potenziale. In questo dato trova a mio avviso una giustificazione non metafisica o ideologica il sostegno pubblico al teatro. Non cioè argomentazioni più o meno nebulose e generiche – di cui tutti peraltro, facendo questo mestiere, siamo piuttosto convinti – ma la definizione di un diritto congiunta, anche sul piano causale, all’inequivocabile opzione del consumatore “sovrano”.
E allora, forse, anziché in fondo “ripiegare” amaramente – come ancora pochi giorni fa ha fatto Paolo Protti, Presidente AGIS – rivolgendosi ai cittadini italiani “per informarli che avranno ben presto meno teatri, meno spettacoli, meno cinema, meno occupati, meno offerta e prezzi più elevati – rivolgersi davvero ai cittadini italiani per chieder loro se sono disponibili, comune per comune, all’introduzione di specifiche tasse di scopo pluriennali espressamente dedicate (con coefficienti variabili eventualmente di natura progressiva anziché proporzionale, definite in forme precise, trasparenti, volta per volta destinate a progetti, iniziative o istituzioni chiare ed individuabili) al sostegno delle attività teatrali (o, se si vuole, culturali in senso ampio).
Non è casuale del resto che – anche in relazione al decreto sul federalismo fiscale – questa possibilità si stia collocando in alcune regioni al centro del dibattito sui programmi elettorali. (9)
La chiave di volta di questa ipotesi, al di là del suo contenuto economico, è da individuarsi nella sua premessa, rischiosa ma a mio modo di vedere sempre più necessaria (anche in chiave di legittimazione politica delle istanze dello spettacolo dal vivo): la consultazione preliminare dei cittadini. In questo modo, infatti: (a) l’ente pubblico – come direbbero ad anatema i neo-liberisti di vario colore (quasi fosse uno scandalo) – mette le mani nelle tasche dei cittadini; (b) ma in forma esplicita, con chiara definizione dello scopo e soprattutto chiedendo il loro parere su senso, opportunità e sostenibilità dei sistemi e progetti culturali locali (ed in particolare, per quanto riguarda l’esperienza riportata, la sostenibilità dell'”eccezione culturale” gallaratese).
Vi è naturalmente un corollario fondamentale che rende razionale questa ipotesi, anche in caso di – possibile – esito negativo delle consultazioni: la tassa di scopo e il gettito che ne deriverebbe dovrebbe avrebbe una funzione additiva e complementare rispetto alla spesa in campo culturale definita ordinariamente nei bilanci comunali e compatibilmente con le politiche e le risorse delle amministrazioni. Si tratterebbe, cioè, di un volano ed un moltiplicatore – qualitativo e quantitativo – per l’incremento delle attività, da un lato, e per il perseguimento di politiche più efficaci di contenimento dei prezzi al pubblico, cioè di sostegno della domanda. Un esito negativo non sospende quel che tutti riteniamo un diritto della collettività ma – semmai – ne limita la piena realizzazione: un dato che, del resto, stiamo tutti subendo da anni in qualsiasi caso.

2. Azionariato diffuso
Si tratta di un’ulteriore possibilità, che nasce in questo caso dall’iniziativa ed azione privata e che si caratterizza – quasi giocoforza – per una maggiore complessità di connessione ed organicità al territorio, per uno sforzo straordinario di natura organizzativa e comunicazionale e per una sostanziale, e quasi connaturata, precarietà ed aleatorietà. Si tratta tuttavia, al contempo, della scelta che più radicalmente marca la tendenziale e possibile indipendenza delle organizzazioni da gruppi di potere, stakeholders e pressioni di natura politica per rivolgersi prioritariamente al destinatario naturale dell’attività: gli spettatori, la comunità locale.
Al di là dei dati “tecnici” legati all’economia aziendale (il termine “azionariato diffuso” non necessariamente deve essere collegato all’effettiva costituzione di una S.p.A.: è un concetto, a mio modo di vedere, di natura più “evocativa” che strettamente aziendalistica), l’idea dell’organizzazione culturale come “sistema aperto“, almeno parzialmente condiviso in itinere, soprattutto reso trasparente (per esempio attraverso la pubblicazione dei bilanci), partecipato e indipendente (il modello più interessante rimane, a mio modo di vedere, quello di Radio Popolare) ha qualcosa di estremamente affascinante dal punto di vista politico e del senso della democrazia e, insieme, ha nuovamente il sapore di una scommessa: da un lato sul versante dell’efficacia e capillarità (dal porta-a-porta a banchetti permanenti in città) delle politiche di fund raising che – dalla sempre più precaria relazione con l’universo delle imprese – si vanno spostando sul terreno della connessione stabile con gli individui, nella direzione esplicita di un teatro dei cittadini; dall’altro, ovviamente, sul versante dell’effettiva verifica sul campo di questa, ipotetica, necessità ed organicità territoriale. Da questo punto di vista – al di là delle procedure standard e più o meno di routine della comunicazione – credo che un ruolo potenzialmente molto interessante potranno (potrebbero) avere i nuovi canali di relazione offerti dai social networks ed un intenso (e probabilmente non facile) lavoro di immaginazione organizzativa, in grado di creare – non solo sul piano “virtuale” – una vera e propria comunità di sostegno, anche affettivamente raccolta intorno al teatro, con occasioni di incontro, dibattito, scambio, reciprocità che rafforzino – e rendano significativa per ciascuno, oltre l’ordinaria programmazione – la scelta di sostenere il proprio teatro.
3. Responsabilità sociale (obbligatoria) d’impresa.
Infine una boutade, legata a Gallarate (ma valida, a titolo di principio, in generale, come vertenza di natura politica e civile).
Sono rimasto molto colpito, a Bologna lo scorso anno, dalla relazione di Roberto Calari sulla “responsabilità sociale dell’impresa” a sostegno del teatro. Come molti, tuttavia, temo di aver avuto la sensazione che si parlasse di un altro mondo, anche se probabilmente non è così.
Questo perchè il riconoscimento della propria responsabilità sociale, in quell’accezione, è naturalmente frutto di intenzionalità, emergenza fattuale della cosiddetta “cultura dell’impresa”, dei suoi orientamenti rispetto alla comunità territoriale (il “giving back to community“), ecc.
La mia persuasione è che invece – penso per esempio alla Lombardia dell’Expo 2015 – la responsabilità sociale delle imprese sia invece un fatto, il cui riconoscimento andrebbe sottratto all’aleatorietà della “coscienza” aziendale (un mito, in larga misura, che ricorda molto i pii desideri sulla “bontà” del capitalista espressi dai socialisti utopisti del primo Ottocento). Un fatto: legato – per esempio – al deterioramento di qualità del tessuto e del contesto urbano, alla riduzione o localizzazione del verde pubblico, alle implicazioni sull’inquinamento dell’aria. Una responsabilità oggettiva, che è continua nel tempo e non si può concepire come “conciliabile”, una tantum, sostanzialmente via pagamento degli oneri di concessione urbanistica.
Ora: se é del tutto evidente che a tutto questo vada, quanto prima, posto un freno e che sarebbe insieme irrazionale e criminale collegare causalmente il cemento alla cultura (il primo come condizione della seconda), credo sia invece giusto e quasi “naturale” prevedere che i processi di cementificazione già in essere o in via di deliberazione (penso per esempio al PGT gallaratese) vengano, obbligatoriamente, connessi a tributi pluriennali che – ancora una volta – restituiscano qualità della vita alla comunità, destinando risorse ad un arco di investimenti pubblici che vanno dalla spesa sociale, al diritto allo studio, alle istituzioni culturali e teatrali. Una sorta di tassa obbligatoria per la responsabilità sociale d’impresa.
Pensate che bello immaginare Caprotti o Ligresti che – per una volta – vengono obbligati a restituire qualcosa, almeno qualcosa, alla comunità… Ma si tratta, forse, dell’ennesimo sogno ad occhi aperti.

NOTE

1. Credo, dopo sei anni, di poter sostenere che per l’amministrazione le scelte culturali hanno rappresentato sostanzialmente (o soprattutto) un’importante operazione di immagine. E, con riferimento specifico al Sindaco (a cui occorre però riconoscere notevole intelligenza e lungimiranza), una visione un po’ personalistica (e a tratti, in senso buono, faraonica: non a caso collegata all’idea, anche fisica, del “monumento” che resta – due teatri, il nuovo museo di arte contemporanea, ecc.) del suo ruolo e della sua memoria nella Gallarate del futuro.

2. Occorre sottolineare un altro dato fondamentale, che evidenzia come l’intero processo sia stato in certa misura caratterizzato da una forte sottovalutazione (o da una mancata lettura) del contesto “ecologico”: i due nuovi teatri non nascevano nel vuoto ma, al contrario, si affiancavano e sovrapponevano a due teatri già esistenti e attivi, uno dei quali – il “mitico” Teatro delle Arti di Don Alberto Dell’Orto (500 p.) – rappresenta dal 1967 il fondamentale polo gallaratese per la Prosa. Con il Teatro Nuovo di Madonna in Campagna (250 p.) Gallarate si trova così ad avere a disposizione 1.620 posti a sedere per 50.000 abitanti: una “folle” media (di fatto sostanzialmente “milanese”) di 30 posti per ogni abitante.

3. Sono gli anni del cosiddetto, e del tutto vuoto, “Rinascimento Lombardo” propagandato dall’allora Assessore regionale Albertoni: grandi investimenti in conto capitale, rinascita di cattedrali nel deserto totalmente prive tuttavia – dopo i “tagli di nastro” – di risorse finalizzate all’attività e alla valorizzazione.

4. Penso per esempio ad alcuni spunti presenti in una ricerca della LIUC commissionata dal Comune di Gallarate e preliminare alla nascita della Fondazione.

5. Nel concreto e per fare solo due esempi: il più importante socio fondatore – cioè SEA, gestore di Malpensa(mica bruscolini!) – ha contributo istituzionalmente con 50.000 € all’anno per i primi tre anni per poi tirarsi indietro; le associazioni di categoria – prima tra tutte l’Unione Industriali di Varese, tra i soci fondatori – ha riconosciuto un contributo iniziale di 2.500 € (non manca uno zero: duemilacinquecento euro!) successivamente non rinnovato.

6. La convenzione prevede uno stanziamento decisamente significativo (sebbene ancora insufficiente, in rapporto ai costi gestionali e ai costi di programmazione) di € 400.000 annui, a fronte di un bilancio che si aggira intorno a € 1.300.000 annui.

7. Da sottolineare – a proposito di questo calo – un dato realmente molto significativo anche dal punto di vista ideale e in relazione a quanto dirò oltre: se nel corso delle prime stagioni il valore della tessera, rapportato al numero di spettacoli, poteva essere considerato paradossalmente “conveniente” (con ratei che oscillavano tra 20 e 25 € a spettacolo per la cosiddetta “poltronissima”), oggi – con il calo di attività che ha caratterizzato la nostra evoluzione – questo abbonamento si configura espressamente come abbonamento sostenitore, con un rateo di ben 52,60 € a spettacolo. Il segno di un sostanziale affetto e stima o il segno di una convenzionalità che non guarda in faccia né la convenienza né la crisi? Ad posteros.

8. E si pone al contempo fortemente, – lo dico a titolo del tutto personale – un problema deontologico, legato paradossalmente ai fortissimi “danni collaterali” del “fare cultura”, probabilmente non compensati dai corrispondenti benefici: all’orizzonte la città vede l’approvazione di un PGT che implicherà ulteriori colate di cemento legate alla costruzione di un “Distretto del Commercio” e di un “business park” (denominato “Sky City”) lungo la SS336 di Malpensa.

9. Penso in particolare all’Emilia Romagna, con le ipotesi dell’Assessore Regionale Mezzetti, proprio oggi sostenute dallo stesso Prof. Trimarchi su “Repubblica” ed. Bologna: “La Regione suggerisce di ricorrere a una tassa di scopo. “Ne penso tutto il bene possibile e la propongo da anni come una delle vie efficaci per creare un po’ di circolo virtuoso nella sopravvivenza finanziaria della cultura”. O ancora, su un altro versante che può tuttavia ricollegarsi al nostro tema, al programma elettorale di Virginio Merola (PD) per il Comune di Bologna: “Se ne avessi la possibilità, userei l’autonomia impositiva del Comune facendo l’esatto opposto di quello che sta facendo il governo Berlusconi. Investirei sui settori prioritari per il futuro delle nuove generazioni, delle imprese e dell’ecosistema. Per parlare di occupazione, di valorizzazione dei talenti e di svolta ecologica in modo credibile occorre un ribaltamento dell’agenda politica. Bologna può proporsi come un modello alternativo e può impegnarsi per invertire la rotta. Questa scelta segna nettamente la mia idea di città”.

Adriano_Gallina

2011-02-23T00:00:00




Tag: politicaculturale (20), squilibrio territoriale (53)


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