BP2012 Materiali Il teatro e la città

L'intervento al convegno Passione e ideologia. Il teatro (è) politico (a cura di Stefano Casi e Elena Di Gioia)

Pubblicato il 28/02/2011 / di / ateatro n. #BP2012 , 138

Bologna, 10 e 11 ottobre
Teatri di Vita

Intervento di Mimma Gallina nel quadro della tavola rotonda
Teatro e Polis: Nuove relazioni fra il teatro e la città
Partecipano: Antonella Agnoli, Mimma Gallina, Roberto Grandi, Enrico Pitozzi, Rodolfo Sacchettini.
Modera Chiara Lagani

La riflessione sulle biblioteche potrebbe essere presa – cambiando qualche termine – e valere per il teatro o meglio gli spazi polivalenti: presidi culturali nati sul territorio, magari con altre caratteristiche.
Per quanto mi riguarda non ho fatto una riflessione così a fondo – così lucida – sul tema che mi è stato lanciato qualche giorno fa, ma cercherò di individuare degli esempi o fare una classificazione di quello che è, appunto, il tema proposto; e cioè che cosa succede di nuovo nel rapporto fra teatro e città. O meglio, non “cosa succede di nuovo” (il nuovo è una parola infida), ma quali sono le tendenze o le evoluzioni che si possono individuare. Perché penso che se è vero, come raccomandava Brecht, che c’è una lotta continua tra nuovo e vecchio e bisogna combatterla, è vero anche che il nuovo non di rado si basa sulla re-interpretazioni dell’antico e infatti, facendo questa riflessione, dietro tutte le novità mi è sembrato di cogliere echi di pratiche profondamente radicate nel teatro.
Vorrei fare un paio di riflessioni a titolo preliminare. La prima è che, secondo me, dobbiamo avere ben chiaro che il tipo di teatro e di organizzazione culturale di cui stiamo parlando probabilmente non corrisponde tutt’ora al teatro e all’organizzazione culturale dominante. Lo dico perché probabilmente tutti noi (i presenti ora, qui), tendiamo ad interessarci a spettacoli che presentano determinate scelte linguistiche, e orientamenti ideali, che si pongono degli obiettivi rispetto alla riflessione e alla trasformazione del mondo e non è sempre così nel teatro, appunto, dominante.
Vorrei collegare a questa considerazione anche un riferimento al Teatro Valle (sinteticamente perché ho sentito che ne avete già parlato): la vicenda del Valle è un buon esempio di come un’area del teatro molto impegnata, generosa, attiva, soprattutto composta da attori, possa riflettere a fondo – e in senso “politico” – proprio sulle trasformazioni e sulle modalità di gestione del teatro. E nello stesso ambiente, magari da parte di una generazione solo un po’ più anziana, si pensa al proprio ruolo nel teatro in termini quasi ottocentesco. Mi spiego con un esempio: qualche sera fa, per caso, su Rai News 24 ho visto l’intervista ad un attore teatrale piuttosto noto (non dirò il nome) su un suo spettacolo in programmazione a Roma. Parlando a un canale molto impegnato anche se generalista, e dopo aver parlato a lungo del suo spettacolo, alla domanda su cosa pensasse delle difficoltà del teatro, delle agitazioni, dei suoi colleghi più giovani, del Valle etc… rispondeva “ah sì, lo spettacolo è andato molto bene, abbiamo avuto un grande successo alla prima, abbiamo dovuto prolungare di due repliche… “. E l’intervistatore, “sì, ma le risorse, come sono i rapporti col Ministero ora..” Risposta: “Il pubblico è sempre molto numeroso… “ etc. Una situazione surreale: questo attore chiamato a riflettere sul teatro in televisione, non riusciva a rispondere se non in termini elogiativi e promozionali del sul spettacolo. E’un atteggiamento in cui possiamo, anzi ci possiamo riconoscere in molti: è una tendenza frequente, ed è una tendenza del mondo del teatro che frena le trasformazioni. Il fenomeno del Valle è stato invece una conferma delle grandi risorse, delle grandi capacità di mobilitazione che sono sempre arrivate dal mondo degli attori. Quasi tutte le grandi trasformazioni del teatro arrivano dagli attori (lo dico anche perchè ci sono parecchi attori in sala e credo che si debba dare atto del ruolo che gli attori come “categoria” riescono ad avere quando riflettono sulla loro responsabilità sociale).
Il tema che ha sollevato il Valle, quello del “bene comune”, che ha appena ricordato anche Antonella Agnoli, è secondo me una delle novità rispetto al tema che stiamo discutendo (“Teatro e Polis: nuove relazioni tra il teatro e la città”), anche se non ha ancora visto una effettiva applicazione è una riflessione importante emersa recentemente rispetto al nostro tema. Non so francamente – avendo letto molto di quello che è pubblicato sul sito del Valle – se questa indicazione, se e quando avrà un’applicazione concreta, corrisponderà alle aspettative che gli occupanti del Valle si danno, ma penso che offra un supporto ulteriore e significativo all’idea del teatro come ambito pubblico e, anche, al concetto di welfare che richiamava l’intervento precedente. Vorrei leggervi a questo proposito tre righe: la definizione di beni comuni che propongono gli occupanti del Valle per applicarla al teatro:

“beni comuni: le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o private, in ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva nei limiti e secondo le modalità fissate dalla legge

E’ la stessa definizione che abbiamo tutti sentito ricordare a proposito dell’acqua (infatti sapete che tutto l’occupazione Valle è partita dal movimento per il referendum). Mi sembra una indicazione interessante.
Anche oltre il Valle, una delle novità che, secondo me, sono emerse in questi ultimi anni consiste in una ripresa del “movimento”, non solo con riferimento al teatro, ma con collegamenti fra i diversi ambiti culturali o della conoscenza. Sono emerse forme di movimento a vario livello, anche se con tutti i limiti, prevedibili, rispetto ai risultati concreti: si tratta di battaglie forse ancora un po’ confuse.
Nel riflettere sulle diverse aree nel rapporto fra il teatro e la città e su come si stanno trasformando, mi sembra si possano individuare tre possibili ambiti di riflessione:
– uno: il rapporto del teatro con il governo della città;
– due: il rapporto del teatro con il tessuto socio-territoriale della città;
– tre il rapporto del teatro con il pubblico, inteso come collettività ampia (quello che Paolo Grassi e Giorgio Strehler chiamavano “coro tacito e intento”. Anche se anche qui stanno emergendo alcune novità: gli spettatoti, taciti e intenti lo sono sempre meno, coro speriamo di sì (ma con più possibilità di essere protagonista).

Rispetto al rapporto col governo della città, voglio dire soltanto poche cose, c’è chi potrà dire in proposito cose più interessanti. Da un lato mi sembra si sia verificata, negli ultimi dieci quindici anni, un’evoluzione abbastanza sostanziale, una rimeditazione del concetto di accesso. Cito sempre Grassi e Strehler e quel famoso “teatro d’arte per tutti”, perché bene o male quello è il punto fermo su cui, senza teorizzazioni particolarmente innovative successive, si è un po’ fondata tutta la riflessione sul teatro pubblico e anche, più avanti negli anni ‘70/’80, su un’area allargata di teatro pubblico. Il teatro d’arte per tutti: dunque arte, quindi qualità, e per tutti, appunto, un’idea di accesso che negli anni si è trasformata. E una riflessione a fondo su questa trasformazione, probabilmente, va fatta e non è stata fatta del tutto. Da un lato si è verificata un’evoluzione del concetto e della dimensione dell’accesso che sono andate spostandosi – nel corso dei decenni – verso il territorio e verso la trasformazione, l’evoluzione di servizio pubblico in servizio sociale. Questa trasformazione si compie nel corso dei decenni ’70-80, ma negli ultimi dieci anni ha subito un’ulteriore mutamento che va proprio nella direzione di quell’area di teatro politico che avete esaminato, credo, in una delle sessione di ieri, che è il “teatro sociale” (per cui non i dilungo). Definire cosa intendiamo per teatro sociale comporta una riflessione complessa, ma di certo per accesso non ci limitiamo più a pensare prezzi accessibili (anche se – apro e chiudo una parentesi – questo sarebbe un tema da approfondire: chi opera nell’ambito di un teatro non commerciale, o sedicente non commerciale, a mio parere sta applicando spesso prezzi che non sono affatto accessibili, non sono così abbordabili per il grande pubblico). Anche la militanza, leggera ma pur sempre militanza, che era insita nella parola d’ordine di Grassi e Strehler e nella costituzione del Piccolo Teatro non è più all’ordine del giorno. Mi riferisco – conoscete tutti quel manifesto – a quando dicevano “recluteremo i nostri spettatori” (proprio così: “arruolatevi” nel Piccolo Teatro): il manifesto rispecchia il clima del secondo dopo guerra quando la militanza ha un senso preciso, e questo tipo di militanza passava anche attraverso l’abbonamento. Sull’abbonamento si potrebbe fare un convegno ad hoc (beni, mali, squallore e miseria dell’abbonamento), ma bisogna prendere atto che questa modalità di partecipare economicamente, oltre che come adesione ideale al teatro, ha subito evoluzioni sostanziali. Allora, per esempio, nelle trasformazioni recenti e in una situazione di sempre maggiore difficoltà economica, le forme di partecipazione individuale al sostegno delle attività di spettacolo sono un’altra delle novità di questi ultimi anni: forme di partecipazione come l’otto per mille, o le “associazioni degli amici”. Noi pensiamo che l’otto per mille sia irrisorio per il teatro, ma non è del tutto vero (Parma ne ha appena lanciata una), e per alcune fondazioni lirico sinfoniche è fondamentale. E ci sono molte altre possibili strade in questa direzione, non sono risolutive per i problemi economici dello spettacolo, ma hanno un valore al di là di questo aspetto. Intendevo parlare dei rapporti del teatro col governo della città, e invece ho finito per parlare dell’evoluzione del teatro pubblico! perché il tema “è” l’accesso! Una delle componenti del rapporto del teatro col governo della città è in che misura il governo della città attraverso forme organizzative e di sostegno ai teatri garantisce l’accesso. Ma un altro aspetto che si è modificato nei decenni e costituisce un nodo che sta venendo sempre più al pettine delle grandi città (a mio parere anche a seguito della crisi del mercato nazionale, quindi della crisi del teatro di giro), è il perimetro delle responsabilità della pubblica amministrazione, del governo della città, nei confronti del teatro. È un limite flessibile, evidentemente, ma che va individuato, trovando un punto di equilibrio fra la necessità di salvaguardare l’indipendenza degli artisti – che non è una cosa scontata – e la necessità di garantire il servizio, l’accesso, di disegnare, di tenere le fila dell’“hardware”, ovvero di un sistema sale, di punti di riferimento. E arriviamo così alla funzione descritta per le biblioteche: sono necessari, vitali per una città, punti di aggregazione e di vita culturale da collocare sul territorio. Un altro aspetto importante nel rapporto del teatro con il governo della città, riguarda il ruolo attivo e propositivo – che a volte scivola nella direzione artistica, e qualche volta diventa addirittura impresariale – che le città hanno assunto (è una riflessione che possiamo far risalire molto indietro nel tempo, possiamo forse retrodatarla a Nicolini e all’era degli assessori degli anni ’70). Ci sono stati alti e bassi in questa tendenza, che l’evoluzione recente ha portato piuttosto in basso, con l’attrazione per l’evento fine a sé stesso, a volte molto costoso ecc. ma io penso che in questa direzione ci siano stati anche aspetti anche importanti e positivi. Faccio un esempio recente – e se ne potrebbero fare di più antichi, come le capitali europee della cultura – ci sono casi in cui le amministrazioni riescono a lanciare il sistema culturale cittadino dei temi di lavoro, delle parole d’ordine che creano un’aggregazione reale intorno a dei idee forti e riescono a trovare collegamenti, stimolare delle ricerche. L’esempio che dicevo è il 150esimo dell’unità d’Italia che, in alcune città, ma in particolare a Torino, ha rappresentato un’occasione positiva.
Si potrebbe dire molto altro delle modalità di rapporto fra il teatro nel suo complesso, le sue difficili rappresentanze e le città. Io ho partecipatio – a Milano – a due riunioni del mondo teatrale con l’assessore alla cultura della giunta Pisapia, Stefano Boeri che – in coerenza con le linee portate avanti durante tutta la campagna elettorale – intende continuare a perseguire il metodo dell’”ascolto” della città e quindi ha convocato e ascoltato con una pazienza veramente encomiabile, una sessantina di interventi in due serate, con tutto il teatro cittadino (lo stesso ha fatto con la musica, con l’arte etc.). La mia impressione è che quel metodo – non molto diverso dalle consulte di cui han fatto esperienza quasi tutti i territori – abbia un forte rischio di sfociare nella demagogia e vada “tarato” (anche se è certo importante per una città come Milano – che ha ribaltato la sua storia amministrativa ventennale – si cerchi di inaugurare un rapporto diverso fra il teatro e la città).

Il secondo ambito è il rapporto con il tessuto sociale territoriale. Questo aspetto è molto importante e caratterizzante delle novità più recenti, anche se non recentissime, dell’organizzazione del teatro in Italia. Non intendo qui il rapporto con la città nel suo complesso, ma con le diverse comunità che compongono la città e con le diverse aree territoriali. Credo che sul territorio, sulla necessità di creare una mappa non solo geografica, parlerà qualcun altro e quindi glisso su questa parte del mio intervento, anche perché in questa riflessione è in gran parte coincidente con quella sulle biblioteche. Per quanto riguarda le comunità, il punto è che sempre più frequentemente la ricerca, e anche l’interpretazione della funzione del teatro come servizio (che a mio parere è sfaccettata, ma non è superata), è andata nella direzione di percorsi e progetti rivolti a specifiche comunità. Penso alle diverse aree di teatro sociale, così articolate che la definizione suona po’ forzata (ma “da vicino nessuno è normale” appunto). Che si tratti di comunità chiuse o di comunità aperte (che si parli di anziani o di carcere, o di periferia), e che si pratichi attività di laboratorio (col coinvolgimento delle persone in questione), o di produzione di spettacoli veri e propri, (magari commissionati ma rivolti a questa comunità), i metodi sono abbastanza simili tra loro, e sono una delle novità più importanti della recente evoluzione dell’organizzazione del sistema teatrale e credo culturale in genere. In questa linea di riflessione rientra naturalmente la questione dell’interculturalità con tutte le contraddizioni che comporta (personalmente credo che finché non riusciremo a inglobare nella produzione artistica a tutti gli effetti anche le nuove comunità residenti, la dimensione dell’interculturalità rischi di essere un po’ sospetta, un terreno minato (è che non riusciamo ancora a pensare come ad una normalità non alcune lodevoli eccezioni, alla presenza di “stranieri” nelle nostre compagnie).
Tutta questa attività – così profondamente ancorata nella responsabilità sociale del lavoro teatrale – ha una sua precisa dimensione di mercato. Esiste un mercato del teatro sociale (credo che nessuno di voi si scandalizzi se utilizzo la parola mercato per il teatro sociale) ed è una delle condizioni che gli consente di esistere, e delle ragioni per cui può ampliarsi, è anche uno die motivi per cui la ricerca artistica si è spostata su questo terreno. Al di là di questa dimensione professionale, ci sono anche aree antiche, che continuano a esistere che sono molto vaste e he definirei pre-politiche: quelle del teatro amatoriale. La dimensione del teatro amatoriale in alcune nostre regioni è colossale. Si tratta di un’area totalmente estranea alle riflessioni che di solito si fanno negli ambienti teatrali di ricerca. Ma è un’area molto importante in cui la gente partecipa, si esprime, spesso in assenza di riferimenti qualitativi. Pensate al Veneto per esempio: la quantità di teatro amatoriale in Veneto è tale che molti comuni, in presenza di difficoltà economiche, hanno del tutto smesso le stagioni professionali e promuovono soltanto stagioni amatoriali. Va detto anche che gli utenti di questo teatro partecipato dalle comunità, e gli animatori del teatro amatoriale paradossalmente non sono spettatori: è una constatazione che meriterebbe una riflessione che dovremmo fare. Non diventano pubblico: il bisogno è alla partecipazione, all’espressione. Esiste il problema della “intimidazione da soglia” (come lo ha definito la Agnoli) che fa dell’area del teatro normale (diciamo così) e del teatro di comunità, due realtà molto diverse.

Mi avvio velocemente alle conclusioni con la terza area, quella del rapporto con il pubblico vero e proprio. Prima ho parlato della collettività che compongono una città. Ma anche pensando al pubblico come a un’entità composita ma unitaria, si stanno verificando altre trasformazioni, oltre a quelle che elencavo parlando di nuove forme di militanza. La principale, novità consiste nei margini di partecipazione interattiva resi possibile dalle nuove tecnologie. Non mi riferisco ai linguaggi scenici o a forme di spettacolo che sollecitano la partecipazione diretta degli spettatori (ci sono sempre stati e ultimamente stanno rinascendo), quanto alle modalità di comunicazione. Uno spettatore oggi ha più possibilità di dire la sua, può intervenire attraverso blog, social network, altre forme di comunicazione che sono sicuramente minoritarie ma più significative di quanto sembri: penso che queste forme avvicinino il teatro al pubblico e quindi la città alla forma teatrale e vadano analizzate per le implicazioni che comportano.
Ci sarebbero molte altre riflessioni da fare: sul tema del mercato del teatro socialmente orientato (del teatro politico), sugli spazi teatrali su cui questo tipo di teatro può contare, che può attivare: penso per esempio all’esperienza della compagnia di Milano Alma Rosé, che non trovando spazi adeguati nei teatri milanesi si è inventata ormai da anni un suo sistema di circuitazione della città (che chiama appunto Giro della città), scoprendo un mercato del tutto nuovo. Le difficoltà del mercato tradizionale sollecitano l’ingegno. Qui vedo Elena Guerrini: una presenza costante delle Buone Pratiche del Teatro di www.ateatro.org, che -vorrei ricordare- abbiamo organizzato due anni fa all’ITC di San Lazzaro: colgo l’occasione per salutare e ringraziare ancora gli amici dell’ITC che sono presenti. Penso che Elena parlerà della sua esperienza di teatro con i gruppi di acquisto solidale: è un buon esempio, come cambia la politica così come cambia l’organizzazione dei cittadini, e il teatro ha molto da imparare, o da rubare, perché come dice Paolo Rossi, copiare è da coglioni, ma rubare è doveroso.

Mimma_Gallina

2012-05-01T00:00:00




Tag: politicoteatro (8), teatro sociale e di comunità (97)


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