Un corpo in progress

Gli spettacoli della Biennale Danza 2011

Pubblicato il 17/06/2011 / di / ateatro n. 135

Gli spettacoli del settore danza della Biennale di Venezia, dal 2005 diretto da Ismael Ivo, sono ormai quasi un’appendice di quello che è diventato il principale impegno del coreografo brasiliano in Laguna, ovvero l’Arsenale della danza, un vero e proprio centro di perfezionamento nell’arte del movimento corporeo che si pone al livello delle più avanzate esperienze internazionali di pedagogia e ricerca.

Da gennaio a maggio, infatti, 25 giovani selezionati tra Venezia, Vienna e San Paolo del Brasile, sono stati impegnati in sette cicli di masterclass tenuti da coreografi e danzatori di fama internazionale.

Più che nei due anni precedenti, l’esperienza pedagogica nata per dare impulso alla creatività giovanile che si affaccia al professionismo, sembra aver trovato omogeneità e affiatamento tra i bravissimi danzatori approdati a Venezia da mezzo mondo, formando una vera e propria compagnia che ha portato in tournée il nuovo spettacolo firmato da Ivo, Babilonia. Il terzo paradiso, al debutto proprio in apertura di festival al Malibran di Venezia.

«Possiamo immaginarci il corpo come un’orchestra unica nel suo genere, che deve far suonare ogni sua singola parte, esattamente come le diverse sezioni degli strumenti a cui corrisponde l’intera gamma dei movimenti – ha scritto Ivo –. Ma quando il corpo-orchestra inizia ad accordare i suoi strumenti e a prepararsi per una sinfonia, ecco che ha bisogno di un’esperienza determinante per poter rispondere a un compito tanto alto. È questo il momento in cui il danzatore ha necessità di saper individuare lo spazio e di avere la competenza per disporne, sperimentando e affinando le abilità già acquisite.»

Sotto il titolo complessivo di Body in progress Arsenale della danza ha dunque proposto in successione alcune esperienze formative destinate a creare un repertorio di tecniche, forme e stili ai quali una nuova generazione di danzatori si potrà rivolgere nella ricerca del proprio linguaggio coreutico: la “nouvelle danse” fiamminga di Anne Teresa De Keersmaeker portata all’Arsenale da Marion Ballester; il funk e la breakdance americani con Niels “Storm” Robitzky; il metodo Forsythe secondo Francesca Harper; la danza contemporanea latinoamericana e la capoeira di Fernando Machado e Plínio Ferreira dos Santos; la danza afro-americana con l’eccezionale presenza dell’ottantacinquenne Othella Dallas; il teatro danza tedesco di Kenji Takagi, danzatore di Pina Bausch, e quindi l’eredità della ricerca di Rudolf von Laban e Kurt Jooss. Il seminario di conclusivo tenuto dallo stesso Ivo ha poi coinvolto tutti i danzatori in una creazione che, come gli anni scorsi con The waste land e con Oxygen, ha sugellato l’intensa sessione dell’Arsenale.

Porte aperte
Un grande e ambizioso investimento, insomma, sulla formazione di un danzatore «che non sia un semplice interprete, ma possa condividere il processo creativo con il coreografo, fino a sviluppare una propria autonomia di scrittura e una propria identità di artista». Ma anche un dialogo aperto con le energie culturali di una città che la Biennale di Ivo ha saputo in questi anni conquistare. A confermarlo è la curiosità suscitata dalle performance dei danzatori nei vaporetti della linea 1, lungo il Canal Grande, e soprattutto gli Open Doors, appuntamenti gratuiti di presentazione al pubblico dei lavori in corso, a conclusione di ogni ciclo di masterclass, che hanno spesso registrato il tutto esaurito, coinvolgendo un pubblico giovane e attento.
Babilonia è una riflessione sulla realtà multiculturale e sulla possibile liberazione del corpo dal dualismo soffocante tra potere e sottomissione. Una scena bianchissima, fondale e pareti di stoffa increspata, arie barocche di castrati, una testa di cavallo indossata da un danzatore, una successione di scene che mettono in risalto le abilità dei singoli danzatori e sembrano risolte soprattutto nei passi a due, nei quadri poco affollati, nei momenti in cui non prevale un intento narrativo, magari con elementi che ritornano da altri spettacoli (gli specchi, il lunghissimo tavolo coperto dalla tovaglia bianca). Tra gli altri spettacoli, tutti provenienti da interessanti esperienze di formazione e ricerca, si segnala Talent on the move della Rotterdam Dance Academy, con un programma assai composito comprendente un frammento del bellissimo A way a lone di Jiri Kylián e gli intensi 7 van de 24, sui Preludi di Chopin, e Master of Puppets con la coreografia di Jérome Mayer.

Coreografie sportive
Ma le performance più innovative sono senza dubbio altre. Project, don’t look now del Performing Arts Research and Training Studios è un lavoro di grande interesse sul piano dell’indagine del movimento, anche se non troppo accattivante per il pubblico, forse a causa degli equivoci concettuali di un’operazione in realtà solida e organica.

La coreografia di Xavier Le Roy, che con Màrten Spangberg firma anche il ciclo di ricerca del P.A.R.T.S. da cui nasce lo spettacolo, sviluppa infatti una serie di partiture corporee ricavate sulle strutture fisiche e dinamiche delle discipline sportive e “sovrapposte”, senza mai combaciarvi totalmente, ai quartetti d’archi di Webern. Lo spazio danzato sembra espandersi in un esperimento di interazione fisiologica (non a caso Le Roy è laureato in biologia molecolare. Le relazioni (dei performer tra loro e con la musica, lo spazio, le reazioni degli spettatori) sono indagate attraverso il gioco e le sue regole, la tattica e la strategia che coinvolgono, escludono, fanno interagire. In quanti modi, per esempio, si può colpire un pallone con la testa? E qual è la soglia del loro riconoscimento in quanto coreografia (e viceversa)?
I 12 danzatori intervengono spesso suddivisi in gruppi. In quattro, sei o tre alla volta tracciano nello spazio i segni di una pratica sportiva astratti da ogni contesto, risolti in puro gesto, movimento, relazione prossemica. A volte uno di loro scende dal palco e guarda i compagni, quasi dirigendo con lo sguardo i loro movimenti. Loro continuano a spostarsi, cercano la posizione, riprovano, in una danza degli aggiustamenti spaziali che ci fa vedere lo sguardo di chi è giù, ci fa percepire il punto di fuga, la messa a fuoco. Altre volte i giovani performer creano quadri plastici, elaborando momenti di “sats”, di istanti di tensione prima dell’agire. Project è infatti anche uno studio sull’attesa, la prontezza, lo slancio. Sull’ascolto corporeo della musica.

La vitalità colorata delle favelas
Completamente senza musica è invece Pororoca, della compagnia brasiliana diretta da Lia Rodrigues.

Lo spettacolo nasce dalle favelas di Rio de Janeiro, dove la coreografa ha creato uno spazio dedicato alla danza e aperto a tutta la comunità, una preziosa realtà dalle molteplici attività, totalmente gratuite, di produzione, formazione e azione pedagogica. Pororoca è l’incontro di correnti contrarie, il tumultuoso confluire del Rio delle Amazzoni nell’Oceano Atlantico. Un’immagine forte per indicare il necessario rimescolamento culturale che, in scena, è testimoniato con gioiosa vivacità da undici giovanissimi danzatori. Nei loro indumenti colorati, lanciando e spostando oggetti di riciclo (sacchetti, vestiti, oggetti, un tavolo di plastica) danno vita a un brulichio forsennato di azioni che sembrano seguire un ritmo interiore collettivo. Si attraggono in orbite sudate, scivolano, si strattonano, mimano amplessi orgiastici, seguendo i rimi del fiatone, i mugolii, il battito cardiaco accelerato. Respiri pesanti, strusciare di piedi, salti reiterati fino al parossismo, allo sfinimento. Ci sono degli stop, dei brevi assoli, sguardi alla platea, lento svaporare di forse. E poi di nuovo il vorticare di forze centrifughe e tensioni centripete. Una bellezza insperata, di una delicatezza che ferisce, prende infine forma nel caos governato di questa partitura coerente fino in fondo con la terra da cui nasce, con i corpi di cui è fatta.
Appuntamento finale il 24 e 25 giugno al Teatro Piccolo Arsenale per la prima mondiale di Brilliant corners, il nuovo lavoro di Emanuel Gat che chiuderà l’attività 2011 del settore danza. Lo spettacolo nasce nell’ambito del programma European Network of Performing Arts che la Biennale condivide con il festival londinese Dance Umbrella e il centro Dansen Hus di Stoccolma. Per un purista come il maestro israeliano, l’incontro con Thelonious Monk (Brilliant corners è il titolo di un celebre album del grande musicista jazz) porta a una riflessione sulla danza come arte effimera, continua scoperta ed elaborazione di strutture che cercano l’armonia nella dissonanza.

Fernando_Marchiori

2011-06-17T00:00:00




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