Per una fenomenologia dell’attore (con risata)

Due week end a Santarcangelo 41, con una divagazione sulla Modestia a Spoleto

Pubblicato il 08/08/2011 / di and / ateatro n. 135

Erica Magris: il primo week end


Foto di Claire Pasquier.

Un centinaio di poltrone, sedie e sedili provenienti dai teatri d’Italia disposte nella piazza principale di Santarcangelo a comporre un insieme arlecchino di forme e colori: questa è la scena di sapore felliniano che accoglie lo spettatore del festival e diviene un punto di riferimento nel suo girovagare fra i numerosissimi spettacoli, incontri, installazioni, eventi che animano la città.

Un’immagine simbolica forte, che racchiude gli elementi per me più significativi di questa edizione. Unire il teatro e la piazza, ritrovare, affermare o rinforzare il legame fra la scena e la società mi sembra infatti la cifra comune degli spettacoli, degli eventi e dell’organizzazione complessiva di Santarcangelo 2011.

Il festival è ovunque, abita il tessuto della città con un’impressionante ricchezza e varietà di iniziative che aprono i confini del teatro e in molti casi riconducono alla questione centrale del rapporto dell’arte con il mondo, come gli incontri sulla poesia araba, il convegno promosso da “Lo straniero” sulla rivoluzione, la videoconferenza dell’autore e disegnatore Igort sulle possibilità documentarie del fumetto. Si tratta però di un richiamo all’impegno non univoco e non ideologico, che è accostato al sacro, alla poesia, e che sviluppa soprattutto un discorso artistico più che politico. Come la varietà delle poltrone in piazza, la programmazione del festival pare rivendicare che il teatro non vive in un altrove separato, ma in una moltitudine di forme e di linguaggi in dialogo permanente con espressioni artistiche differenti come la musica, la danza, le arti elettroniche, la letteratura. Durante il primo fine settimana festivaliero, non ho potuto quindi che costruire un percorso parziale attraverso le numerose proposte, privilegiando le creazioni degli artisti italiani.


Foto di Claire Pasquier.

Ha aperto il “mio” festival The Plot is the Revolution, l’incontro fra Silvia Calderoni e Judith Malina, di nuovo in Italia dopo diversi anni d’assenza grazie al ritorno dei Motus alle origini del loro percorso. Dopo una residenza nel nuovo spazio del Living New York, i Motus hanno preparato questo dialogo fra generazioni in cui confrontare gli ideali politici e teatrali che hanno guidato la ricerca di Malina con gli interrogativi sull’oppressione, la rivolta e l’azione che ha sollevato il loro recente progetto su Antigone. Nel teatro di Longiano inondato dalla luce del tramonto, su un pavimento di cartone bianco su cui verranno via via lasciate con nastro adesivo e pennarelli le tracce e i pensieri dell’incontro, Judith Malina racconta e Silvia Calderoni chiede, agisce, interpreta, riprendendo momenti chiave delle creazioni del Living, da The Brig alla peste di Mysteries. È sempre commovente ascoltare le parole appassionate di Malina, percepire nell’energia delle sue parole la sua fiducia profonda e inesauribile nell’uomo e nel teatro, e cogliere a lampi, nei suoi gesti, il divenire dell’attore sulla scena. E l’aspetto che mi provoca maggiormente del dialogo è proprio il discorso sulla forza della trasformazione indotta dalla scena, sulla capacità dello spazio teatrale di rendere l’uomo diverso costringendolo a mostrarsi e a guardarsi senza difese. Alla fine un urlo collettivo che Silvia chiede di liberare tutti insieme dovrebbe sfondare le pareti del teatro e creare un passaggio diretto fra la scena e il mondo. Urliamo forte, all’unisono, ma quando le voci si spengono e veniamo sollecitati a completare l’incontro scrivendo sul cartone bianco della scena, si insinua l’impressione che nonostante tutto le pareti rimangano ben salde, e il teatro resti preso in una riflessione che riguarda più sé stesso che la realtà.
L’elemento autoriflessivo esercitato in particolare sull’attore si ripropone anche negli spettacoli di Fanny e Alexander, T.E.L, e Claudio Morganti Una lettura del Woyzeck.


Foto di Claire Pasquier.

Morganti, in piedi davanti a un leggio in mezzo a una scena nera e nuda, racconta l’opera di Büchner alternando analisi drammaturgica e interpretazione, permettendo agli spettatori di entrare nel laboratorio dell’attore-regista e di osservare come il testo drammatico arriva a prendere vita sulla scena. Nel video d’animazione che segue la lettura, Morganti offre un’ulteriore narrazione, per immagini, sintetica e ironica, della tragica vicenda del soldato e della sua compagna. Anche durante questo spettacolo, ad affascinare è soprattutto la modalità con cui l’attore entra e esce dai personaggi, provocando con un solo sguardo, con una modulazione della voce, con un cambio della postura l’immaginario dello spettatore e rendendo presente e vivo l’universo del dramma.


Foto di Claire Pasquier.

Se nel caso di Morganti, l’attore è padrone assoluto del suo corpo e creatore unico della scena, Fanny e Alexander lavorano invece sull’attore-marionetta, legato meccanicamente agli ordini impartiti da una voce misteriosa. T.E.L è basato sulla comunicazione a distanza, sulla messa in relazione tramite il suono di due luoghi lontani e separati. Da un lato, il pubblico riunito nel suggestivo spazio industriale dell’ex-cementificio Buzzi, e disposto su tre lati intorno a un’area oblunga delimitata sul fondo da un massiccio tavolo di legno. Dall’altro, l’allestimento al Ravenna Festival, che irrompe a Santarcangelo attraverso un grande megafono bianco appeso in alto, dietro il tavolo. Davanti a noi, Marco Cavalcoli presenta un Lawrence d’Arabia affetto da tic nervosi, che oscilla continuamente fra lo status di marionettista e di marionetta. Quando si pone dietro al tavolo, diviene infatti il lo stratega e il manovratore di battaglie e di grandi eventi politici: colpendone la superficie interattiva, scatena suoni e rumori che invadono aggressivamente lo spazio e rievocano scenari di distruzione e di lotta. Ma non appena lascia lo spazio protetto dietro al tavolo e si dirige al centro dell’area scenica è sottoposto alle istruzioni secche che Chiara Lagani impartisce dal megafono. Ogni ordine corrisponde a un gesto semplice – dare un calcio, esprimere stupore, voltarsi a destra, eccetera – compiuto correndo sul posto, e dalla successione sempre più rapida degli ordini si compone una coreografia meccanica e frenetica che sottopone l’attore a una prova fisica estenuante. Citazioni sonore evocano il tormentato presente del Medio Oriente, tessono un filo sottile, implicito, con le rivolte arabe dell’epoca di Lawrence, e suggeriscono una messa in questione del ruolo dell’Occidente. Come sempre nel lavoro della compagnia, lo spettacolo, che è la prima tappa di un nuovo progetto creativo, è un incastro di scatole cinesi di senso in cui la ricerca estetica si combina in questo caso con l’allusione all’attualità politica. Sarà molto interessante osservare come ogni scatola sarà aperta e sviluppata nel seguito del progetto.


Foto di Claire Pasquier.

La concentrazione sulla creazione sonora digitale tramite sistemi di interazione, deformazione e amplificazione del suono e della voce da un lato, e l’apertura evocativa sull’attualità dall’altro, caratterizzano anche la performance di Fiorenza Menni insieme al compositore e violoncellista Francesco Guerri, Hello Austria, presentato nello scenario affascinante della salita dei Cappuccini affacciata sulla pianura punteggiata di luci vibranti. Il musicista e l’attrice, il suono e la parola dialogano, e la loro conversazione inframmezzata anche dalle azioni sonore della Menni su strumenti elettronici disposti intorno all’area scenica, compone il quadro frammentato di un’esistenza individuale sradicata e sospesa, che rimane per me oscura e distante. Vengo però rapita dalla scena quando da una canaletta di scolo della strada di alza un fuoco, e dietro la barriera di fiamme l’attrice, seduta, bendata e senza voce, cerca di raccontare con i gesti una storia che non riusciamo ad ascoltare. Quest’immagine poetica, forte, teatrale di cecità e afasia apre uno squarcio nell’incomunicabilità, e rivendica la possibilità di un dialogo asimmetrico, muto ma immaginifico.

È la sensazione che alla fine mi hanno lasciato le creazioni scoperte in questo fine settimana: che, per un complesso di condizioni economiche, politiche e culturali, fare teatro e riuscire a parlare con il pubblico sia sempre più difficile. Anche quando l’azione teatrale affronta in modo diretto e attraverso la parola i problemi concreti dell’Italia di oggi, come nel Discorso tenuto da Sonia Bergamasco nella sala consiliare del comune, lo scollamento fra teatro e società persiste. Il breve intervento di Bergamasco sulla situazione drammatica della cultura e del teatro è intelligente, ironico, ed è condotto con un virtuosismo attoriale impressionante, ma forse comunica efficacemente con il circolo di coloro che vorrebbero fare cultura piuttosto che con coloro a cui l’attività culturale dovrebbe essere rivolta.
Mi pare quindi – ma si tratta appunto di una visione parziale e provvisoria – un teatro che riflette più che un teatro che fa, che apre interrogativi e che tenta nuove strade per riappropriarsi della facoltà di parola in questa fase particolarmente critica, ma che forse ancora non riesce a elaborare un immaginario capace di riunire un pubblico che sia autenticamente il vicario della società, o anche di una parte di essa.


Foto di Claire Pasquier.

Un fare autentico e limpido è invece il motore del laboratorio Eresia della felicità che il Teatro delle Albe ha tenuto per tutta la durata del festival nel vasto spazio dello Sferisterio con duecento adolescenti provenienti da diversi parti d’Italia e del mondo. Come incantata, non avrei mai voluto smettere di osservare il lavoro di Martinelli e delle giovani “guide” con questi ragazzi dalle maglie gialle fatte con il “metro di tramonto” di Majakowskij. Sentendo questi ragazzi urlare sempre più convinti i testi del poeta russo, vedendo il loro lasciarsi guidare insieme per meglio imparare a esprimere la loro individualità, e percependo il loro piacere contagioso nel partecipare a questo gioco, sì, ma importante, sentito, collettivo, ho ritrovato in modo semplice, immediato quello che per me è il valore insostituibile del teatro e della sua avventura. E quando, dopo un lungo esercizio sulla lotta fra demoni e angeli che alla fine si riscoprono tutti uomini e avanzano insieme al suono dell’Internazionale, Martinelli decide in maniera inaspettata di infrangere i confini dello spazio teatrale e di condurre le maglie gialle attraverso le strade della città, colpendo improvvisamente i passanti con la forza della poesia, ho provato commozione e gratitudine per tutti coloro che non smettono di credere alla forza dell’incontro e del riconoscimento, allo stesso tempo individuali e collettivi, che il teatro, quando appare, è capace di liberare.


Foto di Claire Pasquier.

Oliviero Ponte di Pino: il secondo week end

Lo Sferisterio si trova ai piedi della rocca su cui si erge Santarcangelo, appoggiato a una ampia parete. Marco Martinelli, nelle vesti di sciamano, allenatore e maestro del coro (o meglio, è il boss di una mega-crew di giovanissimi rappers), anima una tribù di 200 ragazzi che arrivano dai quattro angoli del pianeta: è uno sciame di adolescenti in maglietta gialla che ci mostra, ancora una volta, la nascita del teatro. Quelle parole, dette nel corso della storia milioni di volte, è come se venissero dette per la prima volta, perché per chi le dice è davvero la prima volta.


Foto di Claire Pasquier.

Sono seduto a un tavolino al Caffè Commercio, davanti a me c’è una ragazza. Ci hanno consegnato due iPod, uno a testa, e ci spiegano che dobbiamo seguire le indicazioni che ci arriveranno attraverso le cuffiette. Quel tavolino – sul quale è stata sistemata una lavagna nera – diventa il palcoscenico. I personaggi sono due minuscole statuine, lui e lei. Lì accanto, gli altri oggetti che, ci dicono, dovremo usare seguendo le istruzioni: una pallina di plastilina, un gessetto per disegnare i muri del soggiorno di casa Helmer, una casetta, un albero, due bicchieri, un quadernetto, una boccetta piena di liquido rosso… Dalla cuffia una voce indica i gesti che dobbiamo fare, le parole che dobbiamo pronunciare ad alta voce. Per gli altri avventori, siamo una coppia di amici che chiacchierano, nella finzione – dice l’iPod – io sono un filosofo e la ragazza che ho di fronte è una prostituta. Le stratificazioni si moltiplicano: ci siamo noi due, che diamo spettacolo a chi origlia dai tavolini vicini. C’è la storia che io e lei stiamo raccontando, e vivendo , come quando i bambini giocano a fare il teatro (“facciamo che io ero un filosofo e tu una puttana”). C’e il gioco tra noi due, persone vere, che si toccano e si parlano, anche se diretti dalle parole di altri. C’è che io non saprò mai se le nostre due storie coincidono, se anche nella sua storia lei è una puttana e io un filosofo, perché potrebbe anche essere il contrario… C’è forse la possibilità che io – o lei – invece di obbedire alle istruzioni, ci inventiamo una nostra partitura. C’è il gioco del teatro nel teatro, sulla scena di quel tavolino. Si intitola Etiquette, l’hanno creato i Rotozaza, ovvero Ant Hampton e Silvia Mercuriali.


Foto di Claire Pasquier.

Una stanza vuota, una sedia davanti a un tavolino su cui è sistemato uno specchio. Mi siedo, indosso la cuffia. Rumore di passi che si avvicinano, alle mie spalle. Ma dietro di me, nello specchio, non vedo nessuno. L’uomo – perché è una voce maschile – inizia a parlare. Si muove nella stanza, mi sussurra all’orecchio. Mi racconta come sia cambiato il mio volto, con il passare degli anni. Sono le parole che sussurra Erland Josephson a Liv Ullman in Sussurri o grida di Ingmar Bergman.

Ma chi mi parla, chi mi invita a guardare attraverso lo specchio dentro di me, con un impressionante effetto di realtà grazie all’accurata calibrazione della registrazione stereofonica rispetto a quello spazio, è un’assenza, un vuoto.

Entro nella Sala Wenders del Supercinema. E’ quasi tutta piena, c’è gente seduta per terra lungo le pareti. Curiosamente però molte delle poltrone al centro della platea – i posti migliori per assistere allo spettacolo – restano vuote, gli spettatori preferiscono restare vicino ai corridoi. Davanti allo schermo c’è un lungo tavolo, coperto da un panno rosso, come se fosse un convegno. Ma i relatori hanno messo le sedie davanti al tavolo, per non avere barriere rispetto al pubblico. Chi si siede lì sopra, parla per una decina di minuti, poi si alza e cede il posto. Si discute di qualcosa che forse c’era e adesso non c’è più, di qualcosa che forse deve arrivare ma forse non arriverà mai. Se possiamo fare qualcosa per farlo arrivare, e se davvero è un bene che arrivi. Goffredo Fofi, seduto in prima fila, ogni tanto si alza e invita uno degli spettatori a prendere la parola, incalza, aizza, provoca. E’ stato lui a scegliere il tema dell’incontro, che occupa buona parte della giornata di sabato: Un’idea di rivoluzione.
Mentre li ascolto parlare di teatro e rivoluzione, mi torna in mente una frase della Missione di Heiner Müller: “la rivoluzione è la maschera della morte la morte è la maschera della rivoluzione”.


Foto di Claire Pasquier.

La scena è un appartamento abbandonato da tempo. Nel silenzio, entrano in scena, infagottati in tute protettive, alcuni tecnici che iniziano a ispezionare l’ambiente e a repertare alcuni oggetti. Si riconoscono il celebre ritratto del Che e una bandiera rossa. Quando li vede, uno dei tecnici non può resistere alla nostalgia e alla commozione, scoppiando in un pianto dirotto. I suoi colleghi cercano di rincuorarlo. Un antico giradischi intona L’Internazionale. Un altro sbocco di commozione, il tecnico veterocomunista viene confortato per l’ennesima volta dai colleghi. E’ il grottesco inizio alla messinscena – firmata dal Teatro degli Artefatti – di Orazi e Curiazi, uno dei più seri e tragici “drammi didattici” di Bertolt Brecht, dedicato a uno degli episodi più noti della storia romana. Affrontare – con tutto il realismo e il cinismo possibili – la guerra e la politica. Nella sua regia, Fabrizio Arcuri sceglie di applicare puntigliosamente il metodo registico brechtiano al testo dello stesso Brecht, con inventivo rigore, triturandolo scena dopo scena con il metodo della straniamento. In pratica, ogni battuta del testo viene letta e messa in scena andando al di là del significato letterale, quello immediatamente apparente, e quasi contro, attraverso la sistematica applicazione di un filtro ironico. “Straniante”, per usare la terminologia brechtiana. Quello che era nelle intenzioni di Brecht una sorta di manualetto di pratica politica diventa così un balletto grottesco, un meccanismo sadico e insensato. Come aveva fatto Heiner Müller con Mauser, portando alle estreme conseguenze le premesse ideologiche di Brecht, Arcuri fa lo stesso con questi Orazi e Curiazi, con effetti demistificanti e spesso esilaranti.


Foto di Claire Pasquier.

L’epilogo di questo riso dolceamaro e volutamente inquietante, anche nel suo faticoso e insistito grottesco, è un frammento della Dramaturg dello spettacolo, Magdalena Barile, una riflessione sul senso del comico, oggi:

Proviamo a immaginare un mondo dove non c’è niente da ridere.

Facciamo ridere? 

Piangere? Non si capisce.

(…)
Siamo stanchi delle nostre risate. Abbiamo esagerato.

Perché abbiamo così paura di stare seri? 

Certo, con tutte le cose che succedono, cose brutte come queste che succedono adesso… a stare seri, finisce che ci facciamo paura da soli. 

E la paura ci paralizza, la paura ci fa paura?

Siamo seri! guardiamoci in faccia,

facciamo molta più paura se continuiamo a ridere. 

Basta ridere!

“Basta ridere” sembra anche la chiave applicata da Luca Ronconi nel mettere in scena La modestia, uno dei “sette peccati” capitali teatralizzati da Rafael Spregelburd, visto di recente in Italia nella messinscena di Emanuela Cherubini, protagonisti Hervé Guerrisi, Alessandro Quattro, Gaia Saitta, Simona Senzacqua.
I testi di Rafael Spregelburd hanno diverse armi di seduzione, anche perché offrono molteplici livelli di lettura: basta leggere appunto la Heptalogia di Hyeronimus Bosch, di recente pubblicata dalla Ubulibri per la cura della stessa Cherubini, che comprende anche La modestia.


La modestia nella messinscena di Daniela Cherubini.

C’è un primo livello di lettura, che potremmo definire “ingenuo”, che richiede allo spettatore di seguire semplicemente il plot e i personaggi, in situazioni movimentate e sorprendenti, che spesso fanno riferimento a generi ben riconoscibili a chiunque abbia familiarità con le fiction televisive e cinematografiche (cioè a chiunque, oggi).
Questo universo di riferimento – l’immaginario delle telenovelas, delle serie tv, del cinema di genere – apre un secondo livello di lettura: perché i testi di Spregelburd non sono affatto ingenui, e sono costruiti attraverso un sapiente montaggio di citazioni esplicite o implicite, di topoi narrativi, di situazioni emblematiche o addirittura di cliché a volte esasperati fino al grottesco, all’inverosimile. Questo secondo livello interagisce costantemente con il primo: generando nello spettatore ingenuo un rischio di frustrazione – perché si crea uno slittamento costante tra le attese innestate da questi agganci a grammatiche narrative collaudate e condivise, e i loro esiti narrativi, che approdano sempre all’incertezza, al “non detto”, alla sospensione del senso ultimo. Ma suscitano invece un indubbio godimento nello spettatore più smaliziato, che si diverte a identificare e decodificare le diverse fonti e i diversi livelli riproposti sulla scena da questi feuilleton contemporanei. E’ Spregelburd è bravissimo a giocare sulla distanza e le risonanze e dissonanze tra questi due livelli di fruizione.
Affiora poi spesso una ulteriore stratificazione, perché questa drammaturgia ha spesso una struttura volutamente problematica, soprattutto nel rapporto con il tempo e nel vincolo tra personaggio e attore. Nel caso della Modestia, si intrecciano per esempio, alternando scene dell’uno e dell’alto plot con gli stessi quattro attori nei due cast, due vicende del tutto autonome e senza alcun legame apparente, che si svolgono in luoghi diversi: un Sudamerica che fa da scenario a una vicenda vagamente poliziesca e una Europa balcanica che ospita l’agonia di uno scrittore senza ispirazione; e forse addirittura in epoche diverse. Ma possono essere anche cinque atti che raccontano uno dopo l’altro lo stesso lasso di tempo, con gli stessi personaggi, con la stessa scena che si ripete, con le variazioni del caso, per diverse volte: e solo alla fine si scopre che tutto si svolge nella mente di uno dei personaggi (come accade in Lucido, portato di recnte in scena dalla compagnia Costanzo-Rustioni, con divertimento degli attori (con Milena Costanzo e Rberto Rustioni, Maria Vittoria Scarlattei e Antonio Gargiulo) e del pubblico.
In questo senso, i testi di Spregelburd sono una variazione post-moderna (e dunque elaborata e labirintica) sul tema barocco del Gran Teatro del Mondo: da qui si può intuire il fascino che la sua drammaturgia esercita su un abituale frequentatore del barocco teatrale come Ronconi.


La modestia secondo Luca Ronconi: Maria Paiato e Paolo Pierobon.

In apparenza (o meglio, a una seconda o terza lettura), La modestia sarebbe un divertissement post-moderno, in grado di mixare abilmente cultura bassa e cultura alta, costruito per citazioni e ricomposizione dei frammenti in cui si sono sminuzzati il nostro rapporto con la realtà, ma anche la nostra stessa identità. Non a caso, riemergono nella Heptalogia alcuni dei temi esplorati da una filmografia filosofeggiante, che va da Sliding Doors a Matrix (anche se forse l’antecedente di Spregelburg sono piuttosto i racconti del connazionale Borges).


La modestia secondo Luca Ronconi.

Ronconi si esercita invece su una quarta lettura, che forse è la prima. Prende questo gioco in contropelo, proprio leggendolo per quello che è, battuta dopo battuta, per farne riemergere – da questa distanza ravvicinata – un senso forse più profondo, o più vero: porta in scena il testo per quello che è, scena dopo scena, battuta dopo battuta, affidandosi a quello che il testo dice in quel preciso momento, utilizzando il suo formidabile e minuzioso metodo di lettura, stretto da un quartetto di attori straordinari (Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pierobon e Fausto Russo Alesi).
L’esito è sorprendete e spiazzante. Restano, è vero, numerosi spunti ironici, o a tratti grotteschi. Ma quella che emerge, nell’insieme, è piuttosto una tragica sensazione di spiazzamento. L’ironia permette di giocare, distaccandosene appena, da una situazione di crisi. Ma appena si scava oltre questo piacere culturale – perché questo è in fondo l’ironia – restano solo la disperazione, il senso di vuoto e di inutilità, una vertigine che brucia. E il finale “catastrofico”, che in letture più leggere potrebbe apparire solo come l’ultima piroetta ironica, qui diventa la conclusione logica di una partita distruttiva, la profezia di un destino inevitabile.

Insomma, di cosa ridiamo? E perché? La coreografa Antonia Baeher porta in tournée da qualche anno una esercitazione esemplare, Ridere/Laugh/Lachen, un assolo in cui ride – in tutte le maniere possibili – per quasi un’ora. La risata diventa una partitura musicale, sempre sospesa tra la corporeità e l’eccesso di senso da cui nasce il riso. Viene in mente un celebre (e forse apocrifo) aneddoto che ha per protagonista Totò. Alla fine dello spettacolo, prima di prendere gli applausi, ricevette in quinta i complimenti di un ammiratore, al quale ribatté: “Adesso li faccio ridere con la i”. Tornò in scena, e dopo pochi secondo la platea esplose: “Hi-hi-hi-hi”. Di nuovo in quinta: “Adesso li faccio ridere con la a”. Di nuovo in scena: “Aha aha ah-ah-ah”. E naturalmente Totò finì il giro delle risate in cinque vocali, con gran gioia del pubblico e l’accresciuta ammirazione del suo fan.


Foto di Claire Pasquier.

La riflessione sul comico era peraltro uno dei temi scelti da Ermanna Montanari per questa terza tornata del festival affidata ai gruppi romagnoli (dopo Socìetas Raffaello Sanzio e Motus). Spettacolo manifesto di questo filone è probabilmente Homo Ridens_Santarcangelo del Teatro Sotterraneo, che si presenta come un parodistico esperimento scientifico sul comico: gli spettatori diventano un campione, il test riguarda le reazioni agli stimoli che provocano il riso. Ci sono riferimenti alle teorie sul comico, ma soprattutto – attraverso uno sgangherato numero di clownerie intriso di humour noir – vengono rilevate le reazioni degli spettatori (magari confrontate con quelle di precedenti repliche, come quelle di Castiglioncello, dove lo spettacolo aveva debuttato). Anche se alla fine di solito spiegare le barzellette è la cosa meno divertente del mondo. E qualsiasi spettacolo comico è, in ogni minuto, un test: il pubblico riderà o no, a quella battuta? Ricordando che a far ridere non è solo “cosa”, ma anche “come” e “quando”. Perché il comico, con le sue molteplici stratificazioni, con i suoi intrecci e i suoi cortocircuiti, chiama in causa tutta la complessità del lavoro dell’attore e del suo rapporto con il pubblico, fatto anche di violenza e complicità.
Non a caso, il tema del comico si intreccia intimamente con il vero tema del festival, ovvero “l’immagine-guida” evocata da Ermanna Montanari nel testo di presentazione: “l’attore come emblema concreto del fare-disfare-rifare, l’attore che chiama in causa lo spettatore”. E in effetti Nei due week-end dell’edizione numero 41 del festival romagnolo la pratica attoriale è stata esplorata con una notevole ricchezza di angolazioni e prospettive. C’erano, come abbiamo visto, gli attori inconsapevoli, gli spettatori promossi – più o meno consenzienti – al ruolo di attore di alcune performance.
Ma c’erano anche attori allo stato nascente, i ragazzi animati (per usare un termine caro a Claudio Meldolesi) da Marco Martinelli, e per certi aspetti anche i carcerati animati da Armando Punzo, anch’egli presente a Santarcangelo con la sua testimonianza. Sono tribù che attraverso il teatro cercano e trovano la loro identità, e incidono sull’assetto sociale “invadendo” lo spazio pubblico.


Foto di Claire Pasquier.

C’erano naturalmente i virtuosi, gli artisti che hanno saputo costruirsi una maestria di interprete (e prima ancora di creatore), raggiungendo una padronanza totale del proprio strumento (corpo & anima), affinando una tecnica in grado di emozionare lo spettatore con il gesto clamoroso ma anche – e forse ancora di più – con la microvariazione: per esempio Claudio Morganti, o Roberto Latini, con il suo Noosfera Titanic. Autori-attori nel senso pieno del termine, in grado di inventare lo spettacolo, ma anche di inventare se stessi, la propria figura all’interno dello scenario teatrale, estreme propaggini del grande attore della tradizione italiana, ma destrutturati e ristrutturati dalla lezione di Carmelo Bene e Leo De Berardinis.


Foto di Claire Pasquier.

C’erano poi gli attori professionisti e i non attori che l’ungherese Kornél Mundruczó ha raccolto nella sua compagnia per spingerli – a partire dal gioco metateatrale di una finta produzione cinematografica – verso un realismo estremo, attraverso situazioni limite, volutamente provocatorie (esemplare in questo senso la scena di stupro), offrendo al tempo stesso una riflessione sul potere ricattatorio della violenza e del sesso sul nostro immaginario. Anche se poi il suo ambizioso Frankenstein-Project scivola presto nel grand guignol, con un accumulo di eccessi grotteschi.
C’era un’attrice (e non solo) che è diventata un’icona del Nuovo Teatro (e non solo) come Judith Malina, in duetto con una giovane attrice carismatica come Silvia Calderoni, in un passaggio di testimone tra generazioni, e tradizioni, diverse. E proprio lei, icona della “bella rivoluzione anarchica non violenta” del Living Theatre, regala una delle risposte più folgoranti del festival.
“Judith, qual è per te la parola più rivoluzionaria?” “NOW!”. Ora.


Foto di Claire Pasquier.

Sulla vetta del borgo di Santarcangelo si erge la Torre Civica. Ogni sera, poco prima del tramonto, iniziavano a suonare le campane. Chi si era raccolto nelle diverse piazze e piazzette della cittadina, chi saliva lungo le strette stradine o le scalinate, alzava lo sguardo. Da una delle finestre si affacciava Mariangela Gualtieri, per declamare Bello mondo, il suo poetico canto di gratitudine.

POST SCRIPTUM. Volendo tracciare un parziale bilancio di queste ultime tre edizioni, dopo il flop della direzione precedente, il bilancio è senz’altro positivo. Il festival è stato senz’altro rivitalizzato, e ha ritrovato un proprio senso – e una propria identità – nella formula del “festival laboratorio”, destinato in primo luogo a un popolo del teatro attento e curioso. Anche se per lo spettatore “comune” non era certo facile co

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2011-08-08T00:00:00




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