A Drodesera si impara a parlare cinese

C'’est du chinois! di Edit Kaldor alla Centrale Fies

Pubblicato il 14/08/2011 / di / ateatro n. 135

Drodesera comunica con caratteri gotici, nero su nero, il tema dell’’edizione 2011: CARACATASTROFE. Titolo amaro e autoironico, dalle molteplici chiavi di lettura.
Epocale e generazionale –- con prospettive (non solo teatralmente) rivoluzionarie – quella suggerita da gruppi residenti e ospiti come Motus e Anagoor: “l’abbiamo creata, affrontata, vissuta, attraversata tutti assieme, questa CARACATASTROFE, dagli inizi alla fine. Non ci resta che canalizzare in scenari futuri la vostra e la nostra energia. E siamo già il domani”. (http://www.marcadoc.it/2011/Motus-Anagoor-la-rivolta-adolescente.htm)
Oppure esoterica: secondo la definizione che Francesca Grilli da della sua performance – inquietante non senza ironia – con uccellacci che sfrecciano e volteggiano sulla testa degli spettatori.
Analizzando il programma, si potrebbero individuare molti altri punti di vista teatrali sul tema, mentre un contributo in catalogo di Mario Tozzi dedicato ai terremoti suggerisce una riflessione parallela e disincantata su scala geologica: se le diverse culture possono adattarsi e reagire, niente ci salva dalla ineluttabilità dei terremoti, incluso quello probabile finale (insomma, il big one di cui dovremmo essere tutti consapevoli, non solo in California o in Giappone). E la prova è molto vicina, basta camminare qualche minuto a nord di Dro, sulla frana delle Marocche (o guardare le suggestive foto teatrali scattate sul posto, in catalogo): si tratta di un disastro colossale di qualche milione di anni fa, più o meno al tempo dei dinosauri, il cedimento catastrofico di quel paesaggio di rocce granitiche che fa di questa zona il paradiso del ree climbing (e “camminare sulla frana” era anche il tema di un laboratorio).
Ma se la catastrofe aleggia sui nostri tempi e nell’’arte contemporanea, qui è soprattutto un’’onda di energia -– forse non quella rivoluzionaria evocata dai gruppi, ma semplicemente quella allegramente elettrica dei festival vivaci – ad accomunare spettatori e operatori, in prevalenza giovani. E’’ una comunità coesa e partecipe quella che anima e affolla gli spazi dell’imponente Centrale Fies: un monumento di archeologia industriale di grande valore funzionale e simbolico, un luogo nato per la produzione di energia, appunto, quasi una cattedrale laica sul fiume Sarca.
Per i giovani (e non solo) teatranti e appassionati di teatro contemporaneo, questo luogo è diventato in pochi anni un punto di riferimento. Dal 2000 –- dopo il trasferimento dal piccolo paese alla centrale – il festival si è progressivamente affermato grazie alla presenza ricorrente di artisti e gruppi come Pippo Delbono, Emma Dante, Virgilio Sieni, Valdoca, Motus, Fanny & Alexander. Nel 2007, al festival si è affiancato il progetto Fies Factory, che ha sostenuto “in residenza” numerose compagnie italiane under 35. I costi sono stati inizialmente coperti grazie al famigerato “patto” Stato/Regioni (impunemente rotto dallo Stato), poi al sostegno dell’’ETI. Venuta meno anche questa risorsa, l’’idea non solo non ha smesso di crescere, ma è pienamente decollata grazie all’’appoggio in primo luogo della Provincia Autonoma di Trento (che ha consentito e consente anche un piano di ristrutturazione progressivo degli spazi e dell’’area nel suo complesso: una condizione ideale e invidiabile), di Hydro Dolomiti Enel, della Regione Trentino Alto Adige, e ultimamente di Arcus spa, il cui impegno su un progetto come questo potrebbe essere di buon auspicio, in attesa che la società operi il più presto possibile in modo limpido e che il Ministro Galan la rilanci come preannunciato.
Drodesera e Fies Factory esprimono in effetti una rara capacità di relazionarsi con i massimi livelli istituzionali e muovere risorse pubbliche (e private), nella direzione di un sostegno reale e continuativo a gruppi giovani. Quelli attualmente residenti sono:
Anagoor
Codice Ivan
Dewey Dell
Francesca Grilli
Marta Cuscunà

Pathosformel
Teatro Sotterraneo.
Ma anche altri ne abitano con sostanziale regolarità gli spazi e alimentano il progetto. La tradizione costruita negli anni e la scelta di «accompagnare» i gruppi (sul modello francese), favorisce anche l’’identità del festival: agli esiti delle realtà residenti, si aggiungono presenze coerenti (tendenzialmente «di casa», fratelli maggior e non), con proposte articolate.
Sul piano internazionale, il progetto Centrale Fies aderisce a un network di performing art, APAP, che grazie a un bando europeo offrirà ai gruppi residenti, nei prossimi tre anni, nuove prospettive. Per ora Drodesera– – che non sembra ancora intaccato dalla bulimia molto diffusa fra i festival che tendono a privilegiare la quantità sulla qualità – presenta pochi, selezionati spettacoli stranieri.


Foto di Tom Croes.

Ed è una coproduzione internazionale la scoperta dell’’ultimo week end del festival. Dai materiali avrebbe potuto sembrare un’’idea brillante, o non molto di più, una riedizione in chiave global di un tema caro al teatro dell’’assurdo: una lezione «teatrale» di lingua mandarina, ovvero come imparare il cinese basic in un’’ora.
C’’est du chinois! di Edit Kaldor (un po’’ come dire “Parli arabo!” in italiano) mantiene la promessa di un’’ora divertente, ma è molto di più. In scena una famiglia cinese di cinque persone: una madre con due figli, un padre (che scopriremo ottimo attore, interprete delle tecniche tradizionali dell’’Opera di Pechino) con una figlia, sposata a sua volta al figlio maggiore. Sono i bravi e simpatici Nu Cheng Lu, Siping Yao, Aaron Fai Wan, Lesley Wang, Qi Feng Shang. Ci dicono all’’inizio che sono arrivati in Italia da pochi mesi e intendono restarci (nella realtà sappiamo che abitano in Olanda e non sono una famiglia). La lingua non può essere un problema! Infatti ci illustrano -– attraverso un foglietto letto, in italiano, da uno spettatore – la loro intenzione di insegnarci la loro lingua, il mandarino.


Foto di Tom Croes.

Il metodo è il seguente: si parla solo cinese, il significato delle parole è mostrato da oggetti o gesti, al comando di un fischietto gli spettatori dovranno ripetere tutti ad alta voce le ultime parole dette in scena: per memorizzarle e quindi impararle. Il pubblico aderisce divertito, con calore e grande disponibilità. Fra palco e platea si stabilisce una relazione chiara: ci salutiamo, capiamo i rapporti di parentela, impariamo a dire birra e cioccolato, riso e caffè, mentre oggetti e gruppi di oggetti emergono dai classici borsoni, creando sul palco un tipico bazar cinese. Ma se – con l’’uso di stereotipi come questo – l’’accento sembra inizialmente posto sulla differenza fra le civiltà, a poco a poco, a partire dal rapporto con gli oggetti, cominciamo a conoscere i protagonisti, si introducono parole che designano desideri e gusti, si insinuano e si intuiscono i problemi e le relazioni. E’ la parola “bambino” -– un bambolotto – più o meno amato e desiderato, forse non nato, o che forse non nascerà, a rompere lo schema della lezione e a rivelare rapporti delicati o tesi fra le generazioni, fra i fratelli, fra i coniugi. E se termini che trascinano il riso in sé, come “rutto” o “scoreggia”, riportano la serenità (e spostano la riflessione sulle affinità, più che sulle differenze, culturali), sarà soprattutto la parola “soldi” e il rapporto con il lavoro e con il denaro a far esplodere tensioni e frustrazioni. In un crescendo continuo, ma senza che mai si perda il divertimento di fondo, quelle facce-maschere cinesi sorridenti si increspano, il ritmo della lezione si spezza, per poi riprendere sempre un po’’ più faticosamente.
Il problema della comunicazione, quello fra le lingue o fra le comunità, si può affrontare con ottimismo, determinazione e un po’’ di ingenuità. Con qualche parola di cinese – imparata come promesso nell’’ora di questa lezione-spettacolo – abbiamo intuito molto di quello che è successo in scena, dinamiche semplici, universali: impossibile non capirle.
Il problema della comunicazione non è tanto nella lingua, l’”’incomunicabilità” è altrove, sta nelle questioni di fondo della convivenza fra le persone. Come spettatori-studenti ci siamo trovati progressivamente a cogliere e prender parte a conflitti tanto noti quanto difficili da dirimere, più Bergman che Ionesco, ben al di là della lingua e della lezione: che naturalmente è disponibile in DVD alla fine dello spettacolo (€ 5,95).


Foto di Tom Croes.

Edit Kaldor è un’’ungherese emigrata negli Stati Uniti a 13 anni; ha lavorato in teatro e a sceneggiature cinematografiche con Peter Halasz (Squat Theater/Love Theater, New York). Successivamente si è trasferita in Olanda, dove ha frequentato i master di DasArts a Amsterdam, dove attualmente vive. Nei suoi spettacoli, rappresentati negli ultimi anni presso numerosi festival europei e non solo, il tema della comunicazione e della incomunicabilità è costante, spesso affrontato attraverso l’uso dei media digitali, come in Or Press Escape (2002), New Game (2004), Drama (2005), Point Blank (2007).
La condizione di emigrante è certo familiare alla Kaldor: lo spettacolo parla anche di questo, ribaltando con umorismo e raffinata semplicità la relazione didattica fra la comunità ospitante e ospitata. E’ significativo che questa lezione ci arrivi da un’’ungherese approdata in terra fiamminga – la lingua madre più ostica e quella di adozione fra le meno parlate in Europa – e che allo spettacolo abbiano partecipato alcune delle organizzazioni più vivaci del panorama europeo.

C’’est du chinois! è prodotto da Productiehuis Rotterdam (Rotterdamse Schouwburg) e Stichting Kata (Amsterdam) e coprodotto da Alkantara Festival (Lisbon), Kunstenfestivaldesarts (Brussels), Göteborgs Dans & Teater Festival, Steirischer Herbst Festival, Graz con il contributo dell’Unione Europea. Nel corso del 2010 e 2011 è stato presentato un po’’ in tutta Europa, a Dro la prima per l’’Italia. Prossimamente la Kaldor sarà a Modena-Vie.

Mimma_Gallina

2011-08-14T00:00:00




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