La scena come campo di battaglia

Te haré invencible con mi derrota di Angelica Liddell

Pubblicato il 28/10/2011 / di / ateatro n. 136

Cinque violoncelli allineati al centro del palcoscenico e altri pochi oggetti pronti a diventare armi nelle mani dell’artista arrabbiata Angelica Liddell, in scena al Vie Festival con la sua ultima creazione Te haré invicible con mi derrota.

In un silenzio ritmato dai passi rumorosi dei suoi tacchi neri, Angelica si mostra al pubblico con un lungo abito bianco, vergine tela su cui imprimere i segni della sconfitta. Presto il bianco si tinge di rosso perché non esiste purezza senza macchia, non c’è vita che non sia impiastricciata di sangue. Con la sigaretta in mano e quattro birre ai suoi piedi, subito l’attrice si concede al vizio, alla distruzione del suo corpo che finisce per diventare gratuita esposizione del dolore. E lo spettatore indossa a forza i panni del voyeur, costretto a spiare nelle camere segrete di un’anima inquieta. Come ogni malattia, anche la rabbia ha bisogno di essere esibita per essere compresa. Ma la sua sembra appartenere a quella specie inguaribile di rabbia, che è fango che non costruisce, che non germoglia.
I violoncelli svelano il senso della performance e, posti bene in vista, richiamano la presenza di Jacqueline du Pré, amabile musicista prematuramente scomparsa. Con lei l’attrice cerca un dialogo profondo e in una sorta di seduta spiritica, la invoca, la cerca disperatamente, come complice del suo dolore. Perché Angelica confessa di avere bisogno dei morti per sopravvivere, eppure il suo urlo di dolore è rivolto ai vivi, agli spettatori chiamati ad assistere al suo calvario. I violoncelli sono strumento di connessione con l’aldilà, sono oggetti malati bendati con le garze, simbolo di una sofferenza indicibile e, ormai snaturati, non partoriscono più la musica, ma il rumore stridulo dell’esistenza. L’attrice li usa come bacinella per i suoi sputi, come posacenere per le sue cicche consumate, trasformandoli in discarica dove raccogliere il suo disgusto per la vita.
Tutto sul palcoscenico diventa strumento di morte. E la morte è vissuta come un taglio, come una frattura, uno sconquasso dell’anima e della carne. Le lamette con cui si ferisce tagliano la pelle, l’archetto che usa come lama taglia le corde, il coltello con cui incide i violoncelli taglia il legno, il vetro delle bottiglie in frantumi taglia la sua schiena. L’artista indaga il rapporto tra il suo corpo e il suo spirito attraverso la figura della celebre violoncellista. La donna ha perso la vita a 42 anni, con un corpo distrutto dalla malattia, mentre il suo spirito continuava a vivere nella musica. Una contraddizione che fa pensare all’ingiustizia dell’esistenza, a quanto essa sia incomprensibile per l’uomo, solo di fronte all’imperscrutabile. La performer racconta attraverso il suo corpo la solitudine della sua anima, con un fazzoletto bianco sporco di rossosangue appeso al petto prova a rendere visibile le ferite del suo cuore, forse ingannato da un amore difficile. Per far rivivere Jacqueline come materia oltre che come spirito, la Liddell indossa una parrucca bionda a riprodurre i capelli della donna morta, per resuscitarla e farsi ascoltare. È un dialogo assurdo, perché non c’è e non può esserci risposta. La Jacqueline reincarnata si dimena al crescere della musica del suo violino fin quando sfinita cade e muore, una seconda volta.

In un’intervista Angelica Liddell parla di bellezza, di come essa possa nascere dalla sofferenza, ma sul palcoscenico c’è solo un dolore estremo, radicale, che non lascia spazio a nessuna speranza. Perché la speranza è di chi ha fede e per lei sembra non esistere nessuna fuga dal male e nessun senso da poter dare al dolore, nemmeno quando, china con le mani giunte in preghiera, cerca qualcosa in un altrove dal mondo. Con un gesto dissacrante l’attrice, sempre più spietata, simula una comunione funesta, spezza il pane, ne inghiotte un morso e lo getta via, poi beve un sorso di birra e riprende a immaginare l’inferno. Una nube di fumo sopra la sua chioma sfatta e cotonata crea una dimensione demoniaca, e dalla sua bocca rimbomba una voce che viene dall’oltretomba. Il corpo è invasato, si abbandona a una danza di morte, spezzata, incontenibile. Ogni parte del suo corpo vive di un ritmo proprio, segue una sua direzione, mentre un’ombra dietro di lei mostra il lato oscuro della sua anima. Da qui in poi è un delirio, solo sussulti, grida, scimmiottamenti irridenti e disperazione. L’autenticità della sofferenza viene meno. Il corpo si spoglia, si mette nudo di fronte al dolore e diventa irriverente, vuole sconvolgere, sfidare il pudore e la normalità.
L’ultima immagine dello spettacolo che può dirsi teatro è quella del suo corpo sospeso legato ai violoncelli, accordato come uno strumento sulle note della musica classica che adesso sembra risuonare dalle sue membra.

Giada_Russo

2011-10-28T00:00:00




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