La lettera scarlatta alla Socìetas Raffaello Sanzio

Una nota sull'aggressione contro Sul concetto del Volto del Figlio di Dio, Castellucci, Shammah e la nostra intelligenza

Pubblicato il 14/01/2012 / di / ateatro n. 137

Si sta scatenando, a partire da internet o meglio dalle sue fogne, una indegna campagna – ancora più disgustosa perché intrisa di antisemitismo e con minacce violente – da parte di sedicenti gruppi cattolici o tradizionalisti (insomma, fondamentalisti) contro le repliche milanesi dello spettacolo Sul concetto del Volto del Figlio di Dio della Socìetas Raffaello Sanzio, in programma al Teatro Franco Parenti dal 24 gennaio prossimo.
Questa gazzarra prova a rilanciare a Milano la campagna già orchestrata a Parigi, di cui www.ateatro.it aveva tempestivamente dato notizia.
L’’attacco nasce prima di tutto dall’’ignoranza dei suoi promotori, e dalla loro arroganza censoria. Il loro obiettivo è quello di inescare una campagna di “panico morale” contro uno spettacolo che loro ritengono sacrilego (in genere senza nemmeno averlo visto). Il tono agghiacciante della campagna dovrebbe sicuramente disgustare qualunque osservatore e anche la maggioranza dell’’opinone pubblica: ma questi attivisti sperano anche nella superficialità di molti media, che non frequentano i teatri e non sanno pressoché nulla del lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio.
Forse può essere utile ricordare alcune informazioni di carattere generale, che aiutano a capire quello che sta succedendo, e perché dobbiamo difendere il Teatro Franco Parenti e la sua direzione, la Socìetas Raffaello Sanzio, Romeo Castellucci e il suo spettacolo.

Milano città aperta?

Milano si è sempre creduta una città moderna, liberale e aperta, e come tale si è accreditata.
Non è del tutto vero. La città ha visto nel recente passato diversi casi di censura teatrale (e non solo: vedi i recenti problemi con un artista di fama mondiale come Cattelan).
Uno dei più clamorosi riguarda che aveva colpito nel 1961 L’Arialda di Giovanni Testori (che nel 1975 avrebbe inaugurato proprio il Teatro Franco Parenti con l’Ambleto). Lo spettacolo, con la regia di Luchino Visconti, era reduce da cinquanta repliche a Roma: a Milano la commedia venne bloccata dopo la prima perché «morbosa, oscena e ripugnante». (Anche lo spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio è stato appena replicato a Roma, la città dei papi, senza alcun problema.)
Due anni dopo, anche nel 1963 la messinscena della Vita di Galileo, protagonista il celebre scienziato perseguitato dall’oscurantismo della Chiesa, venne furiosamente attaccata dal mondo cattolico, la curia da un lato e la DC dall’altro. Lo spettacolo venne difeso della società civile milanese e poté andare in scena, ma la battaglia non rimase riva di conseguenze nella successiva soria del più rande stabilemilanse e della città.
Nel 1966 lo «scandaloso» happening milanese del Living Theatre al Teatro Durini venne concluso con l’intervento della polizia dopo gli schiaffi della contessa Borletti, proprietaria dell’immobile, a Marisa Rusconi, la moglie di Franco Quadri, che aveva organizzato l’evento.
Inutile ricordare l’ostracismo della destra milanese contro la Comune di Dario Fo e Franca Rame, cacciati dalla Palazzina Liberty con gran gioia dei fascisti meneghini e di fatto sempre emarginati.
A Milano anche uno spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio rischiò la censura: il terribile Gilgamesh (1990), spettacolo-rito tenebroso e inquietante, una sincera invocazione alle antiche divinità, prodotto e ospitato dal Crt. Dopo una emozionante prima, il presidente del teatro, Sisto Dalla Palma, minacciò di sospendere le repliche. Al termine di una faticosa mediazione e dopo l’immediata uscita di una serie di recensioni, si trovò un compromesso: le repliche previste venero salvate, ma venne programmato un incontro pubblico, una sorta di processo pubblico allo spettacolo, nel quale la compagnia se la cavò brillantemente. La vicenda segnò tuttavia la rottura tra la compagnia e il teatro milanese; poco dopo la Socìetas Raffaello Sanzio venne scandalosamente esclusa dai finaziamenti ministeriali e dovette reinventare la propria economia: da un lato svilupando l’attività pedagogica, dall’altro cercando sbocchi all’estero. Verrebbe da dire che è anche grazie a questa vicenda che la Socìetas è diventata uno dei gruppi teatrali più noti a livello internazionale. In compenso, da allora ha sempre avuto enormi difficoltà a portare i suoi spettacoli a Milano, dove i suoi più recenti capolavori non sono mai arrivati.
Speriamo ch in questa occasione Milano sappia difendere la compagnia, lo spettacolo e il teatro che lo ospita. E la propria dignità.

Di(o)gitale

Lo spettacolo scandalizza i rissosi difensori d’ufficio della tradizione per il suo uso di immagini “sacre”.
Questi perversi crociati avrebbero dovuto svegliarsi prima, viene da dire, perché la riflessione sull’icona è da sempre al centro della pratica teatrale del gruppo di Cesena.
Il volume in cui hanno storicizzato la prima parte del loro percorso artistico porta il sottotitolo Dal teatro iconoclasta alla super-icona. Una tappa cruciale di questo percorso è Santa Sofia. Teatro Khmer (1986), che segna la nascita della nuova Religione Columna. Sulla scena, venivano accostati il dittatore comunista cambogiano Pol Pot e Leone III Isaurico, l’imperatore iconoclasta di Bisanzio. Sul manifesto consegnato agli spettatori prima dello spettacolo si leggeva:

“Questo è il teatro che rifiuta la rappresentazione (…) Questo è il teatro della nuova religione: perciò vieni tu che desideri essere seguace delle colonne dell’Irreale. Il reale lo conosciamo, e ci ha delusi fin dall’età di anni quattro. (…) Ma non credere che sia il surrealismo la chiave del problema; la chiave surrealista è completamente sbagliata, nel suo inconscio conservatorismo rielaborato. Questo è il teatro iconoclasta: si tratta di abbattere ogni immagine per aderire alla sola fondamentale realtà: l’Irreale anti-cosmico, tutto l’insieme delle cose non pensate” (Claudia e Romeo Castellucci, Il teatro della Societas Raffaello Sanzio. Dal teatro iconoclasta alla super-icona, Ubulibri, Milano, 1992, p. 9).

E’ solo un esempio. Da sempre, con grande rigore, la Societas Raffaello Sanzio rifiuta ogni forma di superficiale realismo a favore di una “superrealtà”. Sulla scena, infatti, può materializzarsi quella superrealtà “che ti può cambiare la vita”: si rivendica così al teatro una dimensione decisamente politica, che rischia però di coincidere – se questa funzione viene effettivamente svolta fino in fondo – con lo svuotamento e la disintegrazione del teatro stesso. E’ una apocalisse del teatro che si rispecchia in quella che è, per Societas Raffaello Sanzio, la sua origine:

“Il nostro teatro è la risposta incoerente rispetto a un vero e proprio blocco morale – nei confronti del teatro stesso – di origine platonica, perciò si può dire che esso può esistere e si esalta solo là dove viene impedito.” (Epopea della polvere, p. 286)

In trent’anni di lavoro, Romeo Castellucci ha continuato ossesssivamente a lavorare su un passaggio cruciale della storia della cultura umana: il passaggio dal mito e dal rito alla tragedia e alla rappresentazione. Il suo lavoro opera nel triangolo delimitato da questi due vertici (mito-teatro) e dalla realtà (e, verrebbe da aggiungere, dalla realtà contemporanea). Le metafore degli spettacoli vengono generati da questo triangolo di forze.
E’ ovvio e inevitabile che questa ricerca sconfini spesso verso i terreni del sacro: siamo chiaramente molto lontani dalla teorogia dogmatica della Chiesa, ma una ricerca di questo genere ha profondissime radici nella cultura occidentale: se in qualche modo puntasse anche a ridefinire le sue fondamenta, o persino a sovvertirle, nessuno ha il diritto di cancellarla (e si trattrebbe per di più di una operazione inutile).
Non sorprende che Romeo Castellucci sia rimasto profondamente scosso dalla “parabola” di Hawthorne, Il velo nero del pastore, che ispira lo spettacolo. Il racconto d Hawthorne ha per protagonista un pastore che un giorno si presenta alla propria comunità con il volto coperto da un velo nero, e non lo smette fino oltre a morte.

“La figura del protagonista nella parabola di Hawthorne, il Pastore, mi offre un’occasione per indagare l’antico rapporto tra la rappresentazione e la negazione dell’apparire che, dalla tragedia attica, sostiene ogni nostro rapporto con l’immagine. Se si potesse riassumere questo spettacolo in una frase si potrebbe dire che qui viene mostrata non la storia di un uomo, bensì quella di un pezzo di vetro oscuro, usato come specchio per riflettere e filtrare l’immagine dell’immagine. Ogni rapporto illustrativo al testo di Hawthorne risulta vano, perché assorbito nel collasso del significato programmato e disposto dallo scrittore stesso, che qui io voglio raccogliere come una specie di eredità”.

L’aggressione contro Il velo nero del pastore, e la “lettera scarlatta” con cui questi neo-bigotti vorrebbero marchiare Romeo Castellucci, è dunque frutto di un equivoco, perché la sua attenzione al sacro è profonda. Conduce da sempre una riflessione teologica in forma teatrale: dunque i nuovi inquisitori sono ignoranti e non lo hanno capito; oppure hanno capito (o credino di capire) e la loro è semplicemente una aggressione fascista contro chi ha una diversa visione del divino.
(Inutile di fronte a questa ignoranza, insistere sul rapporto di molti santi con secrezioni e trasgressioni di vario genere.)
Ma c’è un equivoco forse ancora più elementare. Al centro delle polemiche è l’uso in scena del meraviglioso e terribile volto di Cristo Salvator Mundi dipinto da Antonello da Messina. Ammesso che quella immagine sia oggetto di un gesto sacrilego, andrebbe notato che:
– non è né Cristo in persona né un suo rappresentante terreno, da Benedetto XIV all’ultimo sacrestano;
– non è nemmeno la tavola di Antonello da Messina, custodita alla National Gallery di Londra;
– è solo una proiezione digitale, dunque bit che si trasformano in onde elettromagnetiche e vengono proiettate su uno schermo;
– che siamo in un teatro (dove tra l’altro la gente sceglie liberamente di entrare, pagando un biglietto) e non in un luogo sacro.
Ma forse mi sbaglio, la scena teatrale è davvero un luogo sacro. E in effetti un po’ l’avevo sempre pensato. Se le cose stanno davvero così, suggerirei a tutti teatranti di smettere di pagare l’ICI, o IMU che dir si voglia… Abbiamo i fondamentalisti pronti a testimoniarlo!

Se vuoi leggere il bellissimo racconto di Hawthorne.

Il teatro iconoclasta della Socìetas Raffaello Sanzio nella ateatropedia.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2012-01-14T00:00:00




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