Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, a Milano

La versione integrale della lettera in esclusiva per ateatro

Pubblicato il 16/01/2012 / di / ateatro n. 137

www.ateatro.it sta seguendo con attenzione la querelle intorno allo spettacolo della Societas Raffaello Sanzio Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, a Milano: gruppi di fondamentalisti cristiani hanno deciso di boicottare lo spettacolo, attaccando il Teatro Franco Parenti che lo ospita (e minacciando la sua direttrice Andrée Ruth Shammah, attaccata personalmente in un vomitevole rigurgito di antisemitismo).
Invece di dissociarsi da questa ignobile campagna, da parte cattolica voci autorevoli hanno commentato: “Beh, quel teatro avrebbe dovuto essere un po’ più cauto, prima di ospitare uno spettacolo del genere”. Un po’ come Andreotti, quando si è lasciato scappare che in fondo l’avvocato Ambrosoli, per aver fatto il suo dovere, “se l’era andata a cercare”. Anche il Teatro Franco Parenti ha semplicemente fatto il suo dovere, portando a Milano uno spettacolo importante, di una compagnia importante (da anni praticamente esclusa dalla programmazione cittadina), prodotto e ospitato da festival e teatri importanti.
In risposta a questi attacchi, Romeo Castellucci ha scritto una lettera aperta, che qui pubblichiamo nella versione originaria, più ampia di quella diffusa alla stampa. Inutile ricordare che si tratta di un invito alla discussione, e alla riflessione, fuori dalla logica dello scandalo e della sopraffazione che sta distorcendo la ricezione dello spettacolo. (n.d.r.)

Questo spettacolo nasce dalla considerazione dell’’odierna ed estrema solitudine del Volto di Gesù.

Questo spettacolo vuole essere una riflessione sulla difficoltà del 4° comandamento se preso alla lettera. Onora il padre e la madre. Un figlio, nonostante tutto, si prende cura del proprio padre, della sua incontinenza, del suo crollo fisico e morale. Crede, senza conoscerlo, in questo comandamento. Fino in fondo. Fino in fondo il figlio sopporta quella che sembra essere l’’unica eredità del proprio padre. Le sue feci. E così come il padre anche il figlio sembra svuotarsi del proprio essere. La kenosis troppo umana di fronte a quella divina.

Questo spettacolo è una riflessione sul decadimento della bellezza, sul mistero della fine. Gli escrementi di cui si sporca il vecchio padre incontinente non sono altro che la metafora del martirio umano come condizione ultima e reale. Gli escrementi rappresentano la realtà ultima della creatura, ma anche il vocabolario quotidiano del linguaggio d’’amore che il figlio porta al proprio padre.

Questo spettacolo mostra sullo sfondo il grande volto del Salvator Mundi dipinto da Antonello da Messina. Tutto lo svolgimento della scena non è che un piano-sequenza molto semplice che descrive tutti i tentativi del figlio di pulire e ridare dignità al vecchio genitore. Invano. Gesù, il Salvator Mundi, è il testimone muto del fallimento del figlio.

Questo spettacolo ha scelto proprio il dipinto di Antonello a causa dello sguardo che il pittore ha saputo imprimere all’’espressione ineffabile del volto di Gesù. Questo sguardo è in grado di guardare direttamente negli occhi ciascuno spettatore. Lo spettatore guarda lo svolgersi della scena ma è a sua volta continuamente guardato dal volto. Questa economia dello sguardo obbliga, perché interroga, la coscienza di ciascuno spettatore come spettatore. Il Figlio dell’’uomo, messo a nudo dagli uomini, mette a nudo noi, ora. Questo ritratto di Antonello cessa di essere un dipinto per farsi specchio.

Questo spettacolo, quando le condizioni tecniche lo rendono possibile, vede l’’ingresso di un gruppo di bambini. Entrano in scena con le loro cartelle di scuola che svuotano presto del loro contenuto: si tratta di granate giocattolo. Uno a uno cominciano a lanciare queste bombe sul ritratto.
E’’ un crescendo. Ad ogni colpo corrisponde un frastuono. Nel climax delle deflagrazioni, imitanti degli autentici colpi di cannone, nasce dapprima una voce che sussurra il nome di Gesù, poi si moltiplicano fino a diventare tante e tutte ripetono quel nome. Poi, sul finire dell’’azione e come fosse il prodotto di quei colpi, nasce un canto: il Gloria Patri Omnis Una di Sisak. I colpi delle bombe diventano la musica del suo nome. In questa scena non ci sono adulti.
Ci sono innocenti contro un innocente. La violenza rimane nel gesto adulto mentre l’’intenzione è quella del bambino che vuole l’’attenzione del genitore distratto. Il bambino ha fame, come si dice nel salmo 88: Dio non nascondermi il tuo Volto.

Questo spettacolo, quando le condizioni tecniche di ciascuna sala teatrale lo rendono possibile, prevede in un momento l’’uso dell’’odore di ammoniaca. L’’ammoniaca, come si sa, è l’’ultima trasformazione possibile, l’’ultima fattuale transustanziazione dell’’uomo, l’’ultima esalazione del corpo umano nella morte: le spoglie dell’’uomo si trasformano in gas, in aureola. Il “profumo” dell’’uomo. Il suo saluto alla terra.

Questo spettacolo – come tutto il Teatro Occidentale che trova fondamento nella problematica bellezza della Tragedia greca – obbedisce alle sue stesse regole retoriche: è antifrastico, utilizza cioè l’’elemento estraneo e violento per veicolare il significato contrario. La violenza qui significa, omeopaticamente, la ricerca e il bisogno di contatto umano; così come allo stesso modo un bacio può significare tradimento. La lezione della Tragedia attica consiste in questo: fare un passo indietro: rendersi disumani per potere meglio comprendere l’’umana fragilità.

Questo spettacolo nasce come un getto diretto delle e dalle Sacre Scritture. Il libro dell’’Ecclesiaste, la Teodicea del Libro di Giobbe, il salmo 22, il salmo 23, i Vangeli. Il libro della Tragedia appoggiato su quello della Bibbia.

Questo spettacolo mostra, nel suo finale, dell’’inchiostro nero che emana – achiropita, non per mano d’’uomo -– dal ritratto del Cristo. Tutto l’’inchiostro delle sacre scritture qui pare sciogliersi di colpo, rivelando un’ icona ulteriore: quella che scavalca ogni immagine e che ci consegna un luogo vuoto.

Questo spettacolo mostra la tela del dipinto che viene lacerata come una membrana, come un sideramento dell’’immagine. Un campo vuoto e nero in cui campeggia luminosa una scritta di luce, scavata nelle tavole del supporto del ritratto: Tu sei il mio pastore. E’ la celebre frase del salmo 23 di Davide. La scrittura della Bibbia ha perso il suo inchiostro per essere espressa in forma luminosa. Ma ecco che quando si accendono le luci in sala si può intravedere un’’altra piccola parola che si insinua tra le altre, dipinta in grigio e quasi inintelligibile: un non, in modo tale che l’’intera frase si possa leggere nel seguente modo: Tu non sei il mio pastore.
La frase di Davide si trasforma così per un attimo nel dubbio. Tu sei o non sei il mio Pastore?
Il dubbio di Gesù sulla croce Dio perché mi hai abbandonato? espresso dalle parole stesse del salmo 22 del Re Davide. Questa sospensione, questo salto della frase, racchiude il nucleo della fede come dubbio, come luce. E allo stesso tempo è sempre lei, la stessa domanda: essere o non essere?
O piuttosto: essere E non essere.

Questo spettacolo è una bestemmia, come la croce è bestemmia romana, come la corona di spine è bestemmia romana, come Gesù condannato, perché ha bestemmiato. Nel libro dell’’Esodo la sola pronuncia del nome di JHWH è bestemmia. Dante scrive una bestemmia nel canto XXV dell’’Inferno. Venerare il volto di Cristo nelle icone era bestemmia e idolatria per i cristiani bizantini prima del Concilio di Nicea. Galileo bestemmia quando dice che la terra gira intorno al sole.
Vedere il proprio padre perdere le feci per casa, in cucina, in salotto è bestemmia.

Questo spettacolo non è esatto, questo spettacolo è merda d’’artista.

Romeo_Castellucci,_Socìetas_Raffaello_Sanzio

2012-01-16T00:00:00




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