Teatro altrove. Il teatro senza confini di Luca Ronconi

“I Quaderni del Teatro di Roma”, marzo 2012

Pubblicato il 16/03/2012 / di / ateatro n. 139

Lo ha confessato lui stesso, in una confidenza autobiografica rara per un uomo tutto proiettato sul lavoro: “Fino al mese prima ero un adolescente musone, buio. Avevo grossi problemi che non conoscevo. Quasi da un giorno all’altro, entrando in Accademia sono diventato allegro, mi sono sentito veramente bene e ho cominciato ad avere memoria. All’improvviso è come se avessi trovato il mio posto”.
Da quel lontano 1951 il suo posto Luca Ronconi non ho ha più lasciato: il diploma all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” nel 1953, e da allora sempre in palcoscenico a lavorare con gli attori, prima anche lui come attore e poi, dal 1963, come regista di decine di spettacoli, nei teatri di prosa e nei teatri lirici.
A guardare la sua teatrografia, si incontrano tanti “spettacoli capolavoro”, di quelli che reinventano il senso, il linguaggio e la funzione del teatro: la straordinaria festa dell’Orlando Furioso (1969) che invade le piazze; il rito ritrovato dell’Orestea (1972); Le Baccanti (1978) per una sola attrice, una straordinaria Marisa Fabbri che guidava gli spettatori di stanza in stanza al Laboratorio di Prato… Poi le nove ore del dimenticato Ignorabimus di Arno Holz (1986), il kolossal tratto da un testo irrappresentabile come Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus al Lingotto di Torino nel 1990, alla vigilia della prima guerra in Iraq. Ma non è il suo unico “spettacolo impossibile”: basti pensare alle teatralizzazioni di testi non teatrali: un romanzo come Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, a Roma nel 1996; una riflessione scientifica come Infinities di John Barrow (2002); una storia dell’economia con il saggio di Giorgio Ruffolo Lo specchio del diavolo (2006).
Sono quasi tutti spettacoli realizzati fuori dai teatri, in spazi molto diversi dalle sale all’italiana a cui ci ha abituato la tradizione. Ma va subito notato che Ronconi – a differenza di altri maestri della scena contemporanea – non ha mai preso la tangente, abbandonando il teatro-teatro, con i suoi velluti e ori. Anzi ha continuato a frequentare assiduamente anche l’opera lirica, con le sua forme musealmente codificate. E ha sempre scelto di alternare le “escursioni” fuori dalle mura dell’edificio teatrale a produzioni più tradizionali, per allestimenti certamente arricchiti da queste esperienze liberatorie e rigeneratrici. Del resto, la dialettica tra il “dentro” e il “fuori” dai teatri (e quella tra scena e platea) è una delle molle creative più complesse, affascinanti e produttive della creatività ronconiana.
L’obiettivo del regista non è mai stato “superare il teatro”, e nemmeno “uscire dal teatro”, né come edificio né come genere. Ha piuttosto voluto allargare e ridefinire i confini dell’esperienza teatrale, liberandola da molti vincoli e tabù, passando a volte per fasi di destrutturazione e ristrutturazione della grammatica scenica e dei suoi elementi costitutivi (il momento chiave resta il Laboratorio di Prato, alla metà degli anni Settanta). Tenendo però sempre ferma un’idea forte di quello che il teatro è e deve continuare a essere: nella convinzione che solo restando fedeli a questa identità profonda, sedimentata nei secoli e tuttavia rinnovabile e rivivificabile, è possibile riscoprire la necessità del teatro: un teatro che all’inizio della sua carriera, negli anni Sessanta, aveva trovato irrigidito nella routine, invecchiato nel linguaggio (anche rispetto all’avvento di cinema e televisione), aggredito dall’invadenza dei mass media, e a rischio di spinte involutive, anche nelle punte all’epoca più innovatrici, quelle del teatro di regia.
Quello che ha incontrato il giovane Ronconi è un teatro che si nutre degli stanchi cascami di una tradizione declinante. E però “è un posto in cui ci si trova bene”. Un’arte in crisi perfetta per un’epoca di crisi. In parallelo è necessario ripartire anche dalle fonti originarie del teatro: la festa, il rito, la maschera e il travestimento, il gioco, e magari la riscoperta dello spazio e del tempo… Rompere equilibri, per crearne di nuovi. A patto, deve aver pensato Ronconi, di aggrapparsi ad alcuni punti fermi. Per cominciare, guardando all’indietro mezzo secolo di carriera, il suo è un teatro fatto – prima di tutto – di testi e di attori. Come regista ama senz’altro i grandi attori, ma con qualche avvertenza. L’attore-sciamano lo infastidisce, come lo irrita l’arroganza di un teatro che vuol trasmettere un messaggio, o qualunque insegnamento. E prova insofferenza per chi in scena porta il proprio “Io” (le star cinematografiche o televisive, ma anche i narratori): perché per lui il teatro è finzione e personaggio, e puntare su un altro tipo di autorevolezza o notorietà gli pare volgare e mistificatorio.
Ad affascinarlo è proprio il meccanismo, banale e vertiginoso, del teatro, il mito esplorato in varie versioni nella Vita è sogno, nella Torre, nel Calderon di Pasolini, e celebrato nelle Due commedie in commedia di Giovan Battista Andreini (1984). Spesso si è divertito a sottolineare, con un certo gusto del paradosso e della provocazione, la teatralità – o meglio, a ristabilire il confine tra realtà e finzione: donne in ruoli da uomo e viceversa, vecchi che fanno i giovani e viceversa. Ama muoversi nella dialettica tra spazi reali e fittizi: l’affresco del Tiepolo dipinto in scala 1:1 sul soffitto del Fabbricone di Prato per La Torre, la serra in cui erano rinchiusi e accomunati gli attori e gli spettatori di Spettri, i muri e le colonne edificate sulla scena di Ignorabimus, i veri carri ferroviari e le vere rotaie che circondano la scena degli Ultimi giorni dell’umanità, la strada di Ferrara davanti al Palazzo dei Diamanti ricoperta di una superficie riflettente in Amor nello specchio (2002)… Ha giocato con la platea, o meglio, le tre file di palchi del Teatro Carignano, raddoppiate nella scenografia di Misura per misura (1992).
Queste mirabolanti invenzioni – ma, all’estremo opposto, anche gli allestimenti minimalisti – sono un modo di mettere alla prova i limiti e le possibilità del teatro. Per ribadire, magari costruendo finzioni sempre più grandi e invadenti, che questa è solo finzione, non la vita vera. E magari per far dimenticare che dietro queste strutture spettacolari così complesse, raffinate e sottilmente ironiche nella loro grandiosità, non ci sia altro che una labile convenzione. I megabudget di alcuni suoi spettacoli – che gli sono stati spesso rimproverati – al di là del piacere di giocare con macchine sceniche gigantesche, dal suo punto di vista sono anche un modo per ribadire il valore del teatro. La costruzione di spettacoli “fuori norma”, destinati a restare nella memoria per la loro ambizione e per qualche bizzarria (peraltro presentata dall’interessato come la soluzione più ovvia e necessaria), è un modo per ribadire l’irripetibilità dell’evento teatrale, la sua preziosa eccezionalità, e magari staccarsi aristocraticamente dalla routine degli “altri”.
Quando Ronconi inizia la sua carriera di regista, la tradizione del grande attore all’italiana sta vivendo gli estremi sprazzi. L’ultimo rappresentante della stirpe è Vittorio Gassman, che incontra nel 1968 in un Riccardo III dove gli attori sono imbozzolati in pesantissimi costumi. Ma per il resto, è quasi terra bruciata: l’Italia non ha una grande tradizione teatrale come la Francia o l’Inghilterra, manca persino una lingua che gli attori possano “dire” in maniera credibile. Le “capitali del teatro all’italiana” hanno perso peso con l’avvento della scolarizzazione e soprattutto dell’italiano della televisione. E’ necessario ripartire da zero, scavare nelle parole e nelle frasi, nel loro senso: siamo all’epoca della voga strutturalista, con la sua attenzione alle architetture profonde del linguaggio; della euforia psicanalitica, che scava oltre il testo, nell’inconscio di autore e personaggi; dell’analisi marxista, con l’accento sulla dicotomia struttura-sovrastruttura, e l’insistenza sull’alienazione e la “falsa coscienza”. Insomma, l’attività della lettura sta profondamente cambiando.
Da questo impegno di rifondazione della lingua teatrale italiana che nasce quello che i suoi detrattori definivano “il ronconese”: una recitazione spezzata, quasi disarticolata, spesso in controtempo, riempita di significato da cesure e pause, che accentua snodi logici del linguaggio e stratificazioni del senso. Non è certo il frutto di un capriccio, ma di una meticolosa, filologica analisi delle battute e dei dialoghi (inutile a questo proposito ribadire il nesso profondo tra filologia e democrazia, e quello altrettanto antico tra teatro e democrazia).
Nei confronti del testo, il lavoro dell’attore (e del regista) è dunque un lavoro ermeneutico, ovvero critico e insieme interpretativo. L’incontro con la parola è inevitabilmente incontro con l’altro, con il diverso da sé: il personaggio per l’attore, ma anche il testo e i suoi temi per il regista, per gli interpreti e per un pubblico che si vuole presente e responsabile.
Questo teatro si offre come strumento di conoscenza. O meglio, come percorso di conoscenza, in un viaggio che vive la sua fase più incandescente proprio nel lavoro di prova, quando gli attori – con il loro corpo, la loro voce – entrano nel testo (o se ne fanno penetrare), esplorando i rapporti e le dinamiche che collegano i personaggi, e sperimentando la necessità del loro muoversi nello spazio e nel tempo. Non tanto una conoscenza astratta, ma una sorta di “filologia fisica”, calibrata nella carne e nel respiro.
Ma se il teatro è strumento di conoscenza, lo si può applicare anche a scritture non teatrali: può offrire una chiave per interpretare qualunque tipo di testo. Emerge una venatura pedagogica, e un’ambizione politico-civile: perché si tratta di recuperare e riannettere al teatro, e quindi all’essere umano da un lato e alla polis dall’altro, esperienze e temi magari marginali, imporli alla dialettica pubblica. In un esteta come lui, può sembrare sorprendente la consapevolezza della funzione pubblica del teatro, l’attenzione alla sua capacità di provocazione politica, alla costruzione di un repertorio nazionale, alla formazione degli spettatori.
Ma il vero piacere del lavoro non gli arriva da lì, dall’impatto che possono avere i suoi allestimenti dopo il debutto. La vera gioia la vive in prova, quando lavora con gli attori (o forse sugli attori): lì trasmette il piacere del fare, e un’assoluta fiducia nell’utilità di questo fare. E’ la necessità quasi morale di un lavoro comune, che procede per tentativi ed errori, per affinamenti progressivi e brusche invenzioni, per sfumature e ribaltamenti. C’è il rovescio della medaglia: quasi una febbre, un horror vacui, che lo spinge a pensare ai prossimi spettacoli mentre questo è ancora in prova…
In questi mesi, Ronconi sta applicando la sua potente attrezzeria ermenuetica ai testi di un giovane e già consacrato drammaturgo argentino, Daniel Spregelburd (dopo La modestia, che ha debuttato nell’estate del 2011, sta per abbordare Il panico), e a un monumento del teatro novecentesco che non ha mai amato come Bertolt Brecht, per Santa Giovanna dei Macelli, con un gruppo di giovani attori. Si tratta di non abbandonarsi passivamente alle suggestioni del testo e ai cliché drammaturgici, per andare oltre la superficie, per vedere se quelle parole, quelle frasi (e quella lingua) “tengono” sulla scena. Per trovare dietro le inevitabili crepe che innervano ogni scrittura, le nostre fratture, le nostre contraddizioni, le nostre domande.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2012-03-16T00:00:00




Tag: Luca Ronconi (70)


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