Il gioco del teatro

Una conversazione con Claudio Tolcachir sul vaporetto numero 2 verso la Biennale

Pubblicato il 08/08/2012 / di / ateatro n. 140

A conclusione della seconda giornata del laboratorio condotto da Claudio Tolcachir con venticinque giovani attori provenienti da varie parti d’Europa, l’artista argentino prova a raccontare il suo teatro dai sedili del vaporetto numero 2, direzione San Marco, dopo sei ore di lavoro intenso, in attesa di raggiungere Ca’ Giustinian per l’incontro con Declan Donnellan, altro grande protagonista della Biennale di quest’anno. Guarda caso lo stesso Tolcachir anni fa ha partecipato a un laboratorio tenuto dal regista inglese a Buenos Aires: i percorsi si intrecciano e Venezia si riconferma luogo di incontro e di scambio fecondi.
La conversazione con Tolcachir prende le mosse dai risultati emersi durante i primi giorni di lavoro con gli allievi, nel tentativo di comprendere più a fondo quale sia oggi il senso della formazione e quale la sua importanza tanto per l’attore quanto per il maestro.

Claudio Tolcachir alla Fondazione Cini (foto di Giada Russo).

Come ha vissuto il passaggio dalla sua piccola casa-teatro di Buenos Aires a un’istituzione come la Biennale di Venezia?

Senza dubbio tutto questo mi rende felice, sono entusiasta e davvero non so, non capisco perché sono qui! Credo sia un gran privilegio e non posso che vivere bene questo viaggio. Il mio teatro è la mia casa, lavoro con i miei amici, che non sono attori ricchi, né famosi, ma sono bravissimi. Lavoriamo tra di noi in un luogo che è nostro, uno spazio che ci appartiene completamente, dove nessuno può dirci cosa fare e cosa no: siamo i padroni del nostro lavoro. Questo è quello che ci rende felici. La felicità è l’unica condizione indispensabile per andare avanti.
Tutti noi, come la maggior parte degli artisti del teatro indipendente, abbiamo altre attività: chi lavora come parrucchiere, chi come dentista, chi come cameriere. È così che riusciamo a guadagnare qualcosa.

A Buenos Aires ci sono iniziative simili a quelle della Biennale, che investono sulla formazione dei giovani?

In Argentina sono nati molti spazi di formazione e molte scuole di teatro, ma una cosa simile non è mai esistita. È geniale che persone diverse si riuniscano in uno stesso luogo, in uno stesso momento per condividere esperienze e idee. Penso che il lavoro dei maestri sia la cosa meno importante, ciò che più conta è l’esperienza dei giovani.

Da qualche anno ha cominciato a girare il mondo con i suoi spettacoli. Ha riscontrato differenze fra il teatro argentino e quello europeo?

In Argentina gli artisti lavorano senza soldi; in Europa invece esiste il problema che nessuno fa qualcosa se non c’è un guadagno – se non ci sono i soldi per pagare gli attori, semplicemente non hai attori. Ma non credo che la nostra sia una virtù. Credo che gli artisti dovrebbero vivere del proprio lavoro. L’aspetto positivo però è che la gente da noi accetta questa realtà ma senza rassegnarsi, anzi prova a costruire qualcosa dentro la crisi. Noi come artisti viviamo della gente, grazie alla gente. Siamo una cooperativa e dividiamo tutto in parti uguali, quindi se c’è più pubblico viviamo meglio.

Qual è il suo metodo di lavoro? Esiste una differenza tra il lavoro con il suo gruppo di attori e i percorsi con gli allievi dei laboratori?

Fare regia sicuramente non è la stessa cosa che insegnare. Insegnare significa scoprire il talento e l’animo degli allievi che hai di fronte, aiutarli a crescere. È certo che in entrambi i casi la cosa che più mi interessa è capire quali siano le difficoltà di ogni singolo attore per trasformare i suoi limiti in potenzialità, energie. Il lavoro come insegnante è più legato al processo, non implica un risultato; mentre la ricerca registica con il mio gruppo di attori è finalizzata sempre a un prodotto. Il regista deve essere flessibile e non deve solo chiedere, ma soprattutto stabilire una relazione con i suoi compagni di lavoro, esercitare uno sguardo. Io cerco di capire quali sono le paure e le potenzialità di ciascuno.

Si sente più a suo agio nei panni di attore, regista, insegnante o scrittore?

A dire il vero a me piace tutto. Mi piace confrontarmi con ruoli differenti e sperimentare. Sicuramente scrivere è per me la cosa più difficile, ma mi piace moltissimo. Il ruolo dell’insegnante è quello che mi intimorisce meno, che mi fa sentire più libero. Io mi alimento dei miei allievi.

Da queste due giornate di lavoro è emerso con forza il suo bisogno di autenticità, di realtà. Cerca personaggi che siano prima di tutto persone. Oggi ha proposto ai suoi allievi di vestire i panni di una persona incontrata durante la serata precedente. Si può parlare di realismo per tentare di definire la sua poetica?

Non credo negli stili prefissati, nelle categorie. Non so cosa può essere il realismo, forse è un pregiudizio o un tipo di recitazione che magari non mi appartiene. Io trovo la vita così assurda e gli esseri umani così fragili e mostruosi che mi piaci raccontarli. Ciò che più mi affascina è il confine tra il tragico e il comico. Mi interessa che una singola opera abbia un suo stile, un carattere peculiare. Mi interessa la natura dell’essere umano e spesso capita di vedere per la strada persone che non sono naturali, perché ognuno ha le sue maschere. Cerco un teatro che affondi le sue radici nella verità, in una verità che poi si condensa in una forma, non mi piace il teatro che si presenta prima di tutto come teatro.

Quanto della realtà argentina vive attraverso le sue opere?

Inevitabilmente la mia scrittura si nutre della realtà, ma della mia realtà, delle cose che mi irritano, delle cose che fanno male a me, di tutto ciò che mi angoscia. Io sono argentino, quindi la mia storia è anche la storia dell’Argentina, di Buenos Aires, ma non ho la pretesa di fare un affresco del mio paese, semplicemente non ne sarei in grado. Io voglio raccontare l’essere umano. Molti, ad esempio, dicono che ho il pallino della famiglia, invece i Coleman, ad esempio, sono solo un pretesto, a me non interessa la famiglia, voglio parlare dei sentimenti umani che ci sono in gioco, l’individualismo, l’egoismo, l’impotenza.

Negli ultimi anni molti festival e teatri europei hanno dimostrato una crescente apertura verso il teatro argentino, tanto che alcuni nomi, come quello di Ricardo Bartís, Daniel Veronese, Rafael Spregelburd cominciano a essere noti anche tra gli spettatori del vecchio continente. Esistono dei punti di contatto tra il suo teatro e il teatro di questi autori?

Innanzitutto per me è un onore essere associato ad artisti come loro. Sono anche miei maestri. Con Veronese ho lavorato molto e imparato tantissimo. Abbiamo sicuramente estetiche, talenti e posizioni filosofiche molto differenti. Forse ci sono punti di contatto, ma io non riesco a guardare da fuori il mio lavoro e giudicarlo.

Il teatro indipendente vive del rapporto con il suo pubblico. Su cosa si fonda per lei la relazione tra attori e spettatori?

Mi interessa il confine tra il tragico e il comico. Scrivo commedie e poi le metto in scena come tragedie, già durante le prove quando le parole si fanno corpo emerge una vene tragica imprescindibile. Di fronte ai miei spettacoli la metà della platea ride e l’altra si indigna perché non capisce perché c’è qualcuno che ride. Non mi piace forzare il pubblico. Amo il fatto che c’è gente che ride e si sente in colpa per questo. Amo le contraddizioni dell’essere umano. E il sorriso credo sia un luogo di appartenenza: si ride perché si conosce ciò che accade sul palcoscenico.

L’evoluzione della sua drammaturgia dalla prima all’ultima opera della trilogia è in qualche modo portavoce del cambiamento politico e sociale dell’Argentina?

Sì. Dopo la crisi del 2001 il mio paese si è risvegliato e oggi ho molte più speranze di dieci anni fa. Oggi per la prima volta mi identifico con il governo e soprattutto con le reazioni della gente, che sembra più aperta e libera. Siamo un paese che ha subito una dittatura violenta, atroce, è una società razzista che oggi però si è modificata, è stato approvato il matrimonio gay e ci sono leggi che proteggono le donne e i bambini. Per questo nella mia ultima opera, El viento en un violin, c’è uno spiraglio di ottimismo.
Questi personaggi violenti e tormentati alla fine trovano un loro posto nel mondo e costruiscono un nuovo modello di famiglia che li rende felici.

Qual è lo spettacolo che le ha cambiato la vita?

Mujeres soñaron caballos di Veronese. Quest’opera mi ha aperto un mondo.

Qual è l’opera teatrale a cui è più legato e perché?

Finale di partita. È un’opera che parla del senso della vita e del tempo. Beckett descrive il modo in cui tutti noi tentiamo di far passare il tempo, di prendere in giro la vita. Per colmare il vuoto dell’esistenza troviamo preoccupazioni, problemi, parole. Beckett è meraviglioso.

In una parola cos’è il teatro per lei?

Gioco. È profondamente gioco.

Giada_Russo

2012-08-08T00:00:00




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