La poesia della danza meccanica

Il balletto e il teatro di marionette

Pubblicato il 14/11/2012 / di / ateatro n. 045

Fu l’età barocca a consacrare il successo dell’intrattenimento con marionette quale rappresentazione di un mondo assolutamente “maraviglioso” per le proporzioni, per la raffinatezza, per la dovizia di marchingegni e macchinerie, per le sofisticate trasformazioni “a vista”, per la ricercatezza degli arredi, per la ricchezza delle ricostruzioni scenografiche.
Mentre gli invitati del Castello di Esthérazy plaudivano alle ovidiane metamorfosi di Filemone e Bauci o alle trame di altre operine per marionette quali Genoveffa, Didone, La vendetta compiuta, La casa bruciata, scaturite dal genio musicale di Haydn per l’illustre Mecenate, e mentre gli ospiti del Conte Lantieri, nel soggiorno di Wipack, assistevano agli amori contrastati dei buffi pigmei protagonisti de Lo sternuto d’Ercole di Martelli per la musica di Hasse (il quindicenne Carlo Goldoni era, per l’occasione, marionettista d’eccezione per questa “Bambocciata”, come egli la definisce), nei teatrini dei palazzi nobiliari e della ricca borghesia nei primi anni dell’800 lo spettacolo di marionette veniva ad assumere connotazioni particolari a differenza dei pubblici teatri dove trionfavano soggetti teatrali ispirati ai grandi temi pastorali e ai nobili personaggi della mitologia, secondo le inclinazioni del mondo di Arcadia e le mode dell’età neoclassica. Consultando attentamente il repertorio dei Balli del materiale teatrale di casa Borromeo, certamente il più ricco e prezioso “edificio” marionettistico di un teatro privato oggi esistente, ci troviamo di fronte a titolazioni che indicano come il ballo dalla trama pressoché inesistente che prevedeva tutori burlati, amanti che giungono, alfine, a coronare il loro sogno d’amore e creature a mezzo fra il fantastico ed il reale, fosse un pretesto per l’utilizzo di macchinerie, marchingegni e trasformazioni, elementi di una drammaturgia che aveva come finalità quella di essere puramente intrattenimento e svago. Ecco allora apparire sulla scena il Ballo detto della Marsina e della Parrucca, il Ballo dei Maccheroni, il Ballo del Pulcinella con lanterna magica, il Ballo dei Tavoli trasformati, il Ballo della Portantina ed altri ancora. Solo verso la metà dell’Ottocento troveremo una commedia tratta da Il noce di Benevento, balletto di Salvatore Viganò che per l’occasione diventa Il noce ossia Le streghe di Benevento con Arlecchino servo, ed Il nano di Saragozza, balletto fantastico ad uso di marionette. Nelle formazioni professionistiche itineranti o stabili, all’inizio del secolo, i minuscoli attori di legno diversamente interpretavano le mitiche imprese e gli amori di Apollo, Minerva, Giove, Plutone e Minosse in forme spettacolari denominate “Ballo”, composizioni musicali in più quadri scenici che alternavano parti mimate a momenti di danza (pas de deux, pas de quatre, danze di carattere), secondo la moda del tempo.
La lezione giungeva dalla terra di Francia dove Jean Georges Noverre trionfava, e si diffondeva in Italia e, più precisamente, a Milano, dove era approdato, come maître de ballet presso l’Imperial Regio Teatro alla Scala, Salvatore Viganò, allievo di quel Daubreval che aveva, con devota fedeltà, trasmesso la dottrina del Noverre, di cui era discepolo.
Jean George Noverre descriveva:

“Une troupe de nymphes, à l’aspect imprévu d’une troupe de jeunes faunes, prend la fuite, avec autant de précipitation que de frayeur; les faunes, au contraire, poursuivent les nymphes avec cet empressement que donne ordinairement l’apparance du plaisir: tantôt ils s’arrêtent pour examiner l’impression qu’ils font sur les nymphes; celles-ci suspendent en même temps leur course; elles considèrent les faunes avec crainte, cherchent à démêler leurs desseins et à s’assurer par la fuite un asile qui puisse les garantir du danger qui les menace; les deux troupes se joignent, les nymphes résistent, se défendent et s’échappent avec une adresse égale à leur légèreté, etc.”.

Ed affermava:

“Voilà ce que j’appelle une scène d’action où la dance doit parler avec feu, ave énergie; où les figures symétriques et compassées ne peuvent être employées sans altérer la vérité, san choquer la vraisemblance, sans affaiblir l’action et refroidir l’intérêt. Voilà, dis-je, une scène qui doit offrir un beau désordre et où l’art du compositeur ne doit se montrer que pour embellir la nature. (…)”

E fu proprio nel carattere fortemente narrativo dei balletti creati da Salvatore Viganò, improntati a complessi svolgimenti di azione che prendevano un notevole sopravvento sui momenti di danza, che il teatro delle marionette trovò occasione per un repertorio d’eccezione. Il successo, la fama e la fortuna dei balli di Viganò sollecitarono i marionettisti del tempo ad inserire nel loro repertorio gli spettacoli dell’illustre e celebre coreografo; inoltre tali composizioni offrivano ampie possibilità ad essere facilmente tradotte più in azione drammatica che coreografica., per le complesse componenti “spettacolari” come l’intreccio, i personaggi, gli avvenimenti e gli elementi ispirati al fantastico e al meraviglioso. L’Almanacco dell’anno 1822 dell’Imperial Regio Teatro alla Scala è buon testimone della genialità dell’illustre coreografo:

“Quivi egli trovò gran parte di quei mezzi, che altrove forse gli sarebber mancati per condurre la mimica a quel grado di elevatezza a cui non era mai per lo innanzi salita. Senza parlare di quei soggetti, a cui sono affidati i più importanti particolari dell’azione, e ch’egli, con un metodo inarrivabile, guidò per le vie d’un’imitazione sì bella della natura, che la mimica può reputarsi, per opera di lui, condotta allo stesso seggio delle arti più nobili, parlerò del grande cambiamento operato da esso nella massa dei ballerini delle classi secondarie, e in quella dei figuranti. Gli uni destinati talvolta a rappresentare le parti, si moveano con esagerazion, senza grazia, senza verità; gli altri erano condannati a movimenti uniformi in cadenza. Tutta la cura dei compositori non si volgeva che nel far brillare le prime parti; il resto era negletto. Viganò fu il primo che trasse il corpo di ballo dallo stato di nullità in cui giaceva da tanto tempo in Italia, e che con finezza inarrivabile nel comparto delle masse, nella disposizione dei gruppi, e nella composizione dei quadri, si mostrasse altrettanto poeta che pittore. I primi attori mimici perfezionarono anch’essi il loro stile sotto gli insegnamenti di un uomo di tanto ingegno e sapere; e i Costa, i Molinari, i Bocci, le Abrami, per tacer di tant’altri che troppo lungo sarebbe l’enumerare, dischiusero la mente a nuove idee, e provarono che sino all’arrivo di Viganò era loro mancata l’occasione di mostrarsi quali esser potevano”.

E questo ed altro ammirò il pubblico della Scala ad apparire del Prometeo, uno degli indiscussi successi dell’illustre coreografo. Testimoni autorevoli Stendhal e il milanese Carlo Porta.


Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, La marionette raccontano Milano: il Vescovo Ambrogio.

E proprio a Milano, sulla scia di tanta fama, fu il marionettista Giuseppe Fiando (il suo teatro, l’Oratorio del Bellarmino, era dislocato a pochi passi dal tempio del Piermarini) a rappresentare con le marionette, ad un anno dal suo debutto scaligero, il Prometeo di Viganò, inserendo, nel ruolo di coprotagonista, il personaggio-maschera di Gerolamo; e bisogna immaginare che si trattasse di un successo senza precedenti se lo spettacolo, rimasto in repertorio, fu rappresentato in una successiva edizione nel 1844, come testimonia una recensione del 15 ottobre di quell’anno sul bisettimanale teatrale “Il Pirata”:

“Non è la prima volta che il nostro Gerolamo ci fa vedere e toccare co’ fatti che egli sa imitare alla perfezione i grandi spettacoli delle nostre massime scene, e loro tener dietro per modo da riscuoterne applausi, ed iterati, e fragorosi… come ad una serata di una prima ballerina o d’una prima donna (cantante, ben intesi). Il nostro Gerolamo, oltre i mezzi che ha, possiede molto buon gusto, e al buon gusto congiunge molta intelligenza; e, l’intelligenza condisce con una grande dose di zelo, poiché ov’egli pon piede, è certo di non errare, e di riportare bensì nuovi encomi. Il nostro Gerolamo, celebrità piemontese ed ormai milanese, quando si accinge ad un impegno, non vi si mette mai da burla, ma sul serio, non risparmiando spese, non curando fatiche, occupandosi, in uno spettacolo, e dello insieme, e degli accessori. Gran cosa, gran pregio, gran merito… e parlo con voi, signori Impresari! Non vi meraviglierete dunque, nè ci taccerete di esagerazione, se vi verremo asserendo che il Prometeo è qui magnificamente ed esattamente allestito, che nulla gli manca, che tutto concorre a renderlo degno dell’attenzione non solo dei ragazzi, ma degli adulti ben anco e dei vecchi o semi-vecchi; non vi meraviglierete se vi diremo, che anche coloro che nel 1813 lo videro nascere alla Scala gli accordano la loro approvazione, e lo chiamarono il Prometeo in miniatura. Né Gerolamo fa qui la figura affatto del plagiario, del pittore che copia i visi e le teste di Raffaello, e poi sostiene che crea, del romanziere che traduce e poi dice che inventa, del tragico che ruba all’Alfieri o al Niccolini scene e pensieri di sbalzo e poi fa il muso duro a chi non lo chiama autore originale e sublime. Gerolamo, da quell’avveduto ch’egli è, vi ha introdotto le sue belle e buone innovazioni, d’un ballo ne fa un dramma, e con versi, che si avvicinano alla prosa, pur son migliori di tanti che tutto dì si stampano e ne si vendono per tipo di poesia italiana. E non è questa l’opinione d’un solo, la mia particolare opinione; ve lo ripete il fior di Milano che accorre in folla a vedere il Prometeo, intendendo per fiore signorili famiglie, amabili e leggiadre donnine, ragguardevoli persone. Né tralasciate di notare, a laude del vero, che è tempo di vacanza, che l’autunno ha fatto della città quasi un deserto… che chi non ha i ceppi ai piedi, come noi giornalisti, ha voluto salutar la Brianza, specchiarsi nell’onde del lago di Lecco od ispirarsi ne’ beati dintorni di Como. Al redir di San Carlo, al cader delle foglie, il locale del nostro Fiando non basterà a contenere tutti i suoi ammiratori…”

E non deve stupire se anche Compagnie marionettistiche che non avevano ancora un teatro stabile come Fiando inserivano nel loro repertorio i balli del Viganò. Così, dal palcoscenico del Teatro alla Scala, confluirono nel mondo delle teste di legno della Carlo Colla e Figli, allora compagnia itinerante, Il noce di Benevento con il titolo Argante e Gerolamo nella selva incantata di Benevento e Le Vestali, spettacoli che ottennero uno straordinario successo per le tematiche simboliche e per le trame suggestive che presentavano. Le foreste incantate abitate da streghe in lotta fra loro e intente a beffarsi di servi sciocchi e gli anfiteatri d’epoca romana affollati da centurioni intrepidi pronti a sfidare leoni feroci, da Vestali innamorate, da bighe e soldati, non potevano che stuzzicare l’estro teatrale dei Colla, i quali vedevano nelle trame dei balletti la possibilità di escogitare congegni e macchinerie spettacolari, tali da sopravanzare gli allestimenti di qualsiasi teatro d’opera.
Una scelta artistica di tal fatta, ovviamente, poneva in primo piano la forma pantomimica, senza, peraltro, trascurare la danza, almeno a giudicare dalle impressioni che molti personaggi illustri e critici teatrali riportarono dopo aver assistito agli spettacoli interpretati dalle marionette. E il successo, proprio per le stesse componenti teatrali, continuò ininterrotto se nel maggio del 1940, dopo più di un secolo, quando ormai i Colla erano stabili al Gerolamo dall’inizio del Novecento, la scrittrice Camilla Cederna a proposito dello spettacolo Le Vestali dalle pagine de “La sera” riporta queste impressioni:

“Tragedie evitate e ballerine siriache: il circo era affollatissimo di soldati romani, di belle signore con reticelle di perle, di bimbi irrequieti in toga bianca, il sole splendeva e in mezzo all’arena un leone africano, in attesa della preda, dava balzi feroci e orribili sguardi all’ingiro. Ma venne Decio che era un baldo centurione a trafiggerlo con estrema destrezza e venne un servo a trascinarlo via, tirandolo per la coda. A questo punto allora, Livia, una sottile vestale, coronò d’alloro l’eroe e dopo averlo guardato negli occhi, perdutamente se ne innamorò. Le ballerine siriache, tutte in bianco e argento, per festeggiare la vittoria, danzarono sulle punte, senza mai perdere il tempo; mirabile anzi fu un passo a due, durante il quale una di esse riuscì, con belle piroette a salire sulle spalle del compagno e a fare di lassù un ampio gesto di saluto al pubblico. Seguì poi la premiazione e il trionfo per le vie della città. Sfilarono i guerrieri lucenti di elmi e di corazze, i figli dei pompeiani, festanti, sventolavano fronde, i cavalli avanzavano a scrolloni, un po’ impauriti dalla grande folla. Decio sorrideva dalla biga infiorata e intorno c’era un delizioso scenario: Pompei gaia e soleggiata aveva ornato i suoi templi di festoni rossi e verdi, i balconi di fiori turchini, le finestre di tende color ruggine con frange. Sopra un cielo bellissimo senza una nube. Che contrasto col quadro seguente! Era questo il tempio delle vestali, oscuro e profondo, ahimè gravissime cose erano accadute. Livia, bella e indolente, e per di più distratta come tutti gli innamorati, aveva lasciato che il fuoco sacro si spegnesse e le sue compagne, benché il loro cuore se ne dolesse, decisero, come era prescritto in simili casi, di seppellirla viva. La musica pianse desolatamente, il primo violino singhiozzava forte e Livia stava già per sparire sotto una grossa pietra, quando il cielo si squarciò, i lampi balenarono, il Vesuvio cominciò a sputare fuoco e Decio, in mezzo a fumo e faville, arrivò a liberare la sua bella e a portarsela lontano, galoppando su un cavallo bianco. Le sacerdotesse svenivano a gruppi, la lava colava velocemente e tremendi rumori eccitavano il pubblico bambino; intanto la gente di Pompei scappava a gambe levate: i vecchi sulle spalle dei figli, le bestie tirate dai contadini, gli amanti già lontani e in salvo. Sullo sfondo il Vesuvio continuava a fiammeggiare. Che bello, il leone sembra vivo! – esclamò uno dei bimbi felici che si dirigevano all’uscita: – Il fuoco, il fuoco! che paura ho avuto! – rispondeva un altro, pestando un poco i piedi. Noi invece rimanemmo seduto ai nostri posti, insolitamente assorti e sereni finché il teatro fu quasi sgombro”.

A tanta dovizia di effetti spettacolari si aggiungeva una precisa intenzione nel fare teatro. Al titolo Le Vestali si era sostituito quello di Gli ultimi giorni di Pompei di maggiore richiamo per il pubblico, nell’ottica di un teatro popolare come è quello delle marionette. Ed il successo si ripeté puntualmente quando lo spettacolo, in una riscrittura del 1980 incentrata sulle testimonianze degli scavi e dei reperti archeologici (parte del lavoro di allestimento fu fatto durante un soggiorno estivo a Pompei) a cura di chi scrive, fu presentato a Milano e successivamente a Berlino, a Parigi, a Grenoble e al Festival dei Due Mondi di Spoleto.


Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, La marionette raccontano Milano: la mensa dei poveri.

Grande fortuna ebbe anche il ballo La flûte enchantée où Les danseurs involontaires che nel 1818 il mimo italiano Fortunato Bernardelli portò a Mosca. Il successo fu tale che nel 1893 al Piccolo Teatro della Scuola Imperiale di Ballo di Pietroburgo comparve una nuova versione dello stesso balletto dal titolo Il flauto magico, coreografia e libretto di Lev Ivanov su musica di Riccardo Drigo.
Ma nell’archivio storico della Compagnia Carlo Colla e Figli il ballo Il flauto magico compare già nel 1866, anche se in un particolare adattamento che vede mutate alcune situazioni ambientali e alcuni personaggi al fine di favorire, particolarmente, l’atmosfera fiabesca della trama ed il carattere grottesco dei protagonisti. Lo spettacolo, poi in repertorio dal 1924 con il titolo Lo Spirito Folletto, fu rappresentato per molte stagioni al Teatro Gerolamo di Milano.
Questa la trama del balletto originario: Lisa, figlia di una ricca possidente, ama Luca, non gradito alla madre per la sua povertà. Il Marchese del luogo, sceso al villaggio per scegliersi la sposa, pone gli occhi su Lisa e ne chiede la mano. Lisa però, nonostante le pressioni materne, lo canzona. Mentre Luca attende Lisa, vede la madre di lei cacciare un povero eremita mendicante. Impietosito dal suo miserevole stato, Luca gli dona la sua ultima moneta, ricevendone quale ricompensa un flauto incantato, il cui suono induce tutti a danzare. Il Marchese accusa Luca di stregoneria e il giudice, indotto anch’egli a danzare, lo condanna a morte. Ma l’eremita si rivela come Oberon e lo salva; scaccia il Marchese e obbliga la madre, in cambio del suo perdono, a consentire le nozze di Luca con Lisa.
La trasposizione nel mondo delle marionette ha mantenuto gli elementi più lineari della trama così da conferirle un certo afflato poetico ed ha sviluppato in forme simboliche e metafisiche altri aspetti drammaturgici. Siamo nella seconda metà del secolo XVII, in un luogo imprecisato. Le costruzioni caratteristiche fanno pensare alla Francia, alla regione fiamminga o comunque all’Europa Centrale.
L’azione si apre su un ambiente che, pur essendo realistico, il parco del castello di Bellariva, è già di per sé sognante, così immerso nel verde fra cascate di fronde e fitto fogliame che una sapiente mano pittorica ha realizzato senza linee nitide e delimitanti, così da trasportare immediatamente lo spettatore in una atmosfera particolare.
Zanetto, il protagonista, è centro di tale atmosfera, lui che è giardiniere e ama la musica. Il flauto gli è compagno e su di esso modula il richiamo d’amore per la sua bella. Equilibrio di armonia che si compone fra l’amore per la natura che nasce dal lavoro e l’amore per la musica, quella dei pastori, della siringa del dio Pan, del mondo virgiliano in cui lo sprofondare nella natura è certezza di realtà metafisica e non banale rifuggire dal mondo che sta d’intorno.
Irma è il personaggio della fanciulla innamorata che la tradizione burattinesca e marionettistica ha consacrato: bella, giovane, infelice per la decisione del padre di maritarla ad un uomo nobile e ricco ma, soprattutto, fedele all’uomo che ama e fiduciosa negli eventi. Estranea agli avvenimenti che sconvolgono i nobili personaggi che vivono intorno a lei, la sua presenza caratterizza momenti romantici che hanno sempre come sfondo l’ambiente naturalistico che è il mondo del suo amato: il parco nel primo quadro, quando mette a parte della decisione paterna l’amato Zanetto; il parco di notte, in riva al laghetto illuminato dall’argenteo raggio della luna, mentre attende il giovane innamorato che fugge dalla Sala di Giustizia; il regno incantato dello Spirito Folletto dove, finalmente, coronerà il suo sogno d’amore in un trionfo di personaggi fantastici. Creatura evanescente, realizzata scenicamente fra il pianto e la tenerezza amorosa.
Intorno ai due innamorati, calati in un mondo che non recepiscono né per delicatezza di sentimenti né per sensibilità alla realtà che li circonda, stanno i personaggi dei potenti: un padre, un nobile sposo, un giudice, un usciere, i gendarmi, figure burlate nell’esercizio della loro autorità. Saggiamente e acutamente il marionettista ne ha fatto personaggi buffi, immaginandoli in contrapposizione fisica, che è teatralmente dualismo compositivo di univocità scenica, e irridendo alla loro posizione (basti pensare alla trasformazione del giudice in asino recalcitrante, allo sposo trascinato dai folletti, ai gendarmi che ballano) senza, però, che la burla si trasformi in punizione. Perché punirli? E per che cosa? La mancanza di “cuor gentile” a cui giungono i richiami profondi e i sussurri misteriosi del mondo della natura, l’armonia della musica o le voci più concrete di coloro che soffrono intorno, non può e non deve essere giustificazione per una punizione. Né lo Spirito Folletto è creatura divina. E’ sufficiente dimensione teatrale quella di lasciarli trafelati e spossati per il ballo cui hanno involontariamente partecipato (una “Monferrina”!), allineati nel loro schematismo mentale, con le case e con gli oggetti trascinati con loro nel ritmo voluto dal magico flauto.
Ammiccamento del marionettista al pubblico è la presenza del burattinaio con la sua baracca che dà spettacolo sulla piazza. Semplicemente teatro nel teatro? Voluta polemica con chi vuole negare la popolarità del teatro delle marionette per eternamente considerarlo a mo’ di “giovin signor” figlio di una opulenta società aristocratica e borghese? Espediente di eccezione, tuttavia, ed unico in tutto il repertorio della “Carlo Colla e Figli”. E, forse soltanto espediente scenico per ciò che dalla baracca scaturirà a conclusione del quadro secondo il rituale degli oggetti a trasformazione.
Il Folletto non ha nessun legame con la tradizione nordica, nulla ricorda più la figura di Oberon dell’originale azione coreografica, né gli elfi; il suo intervento non è magico, è gioco, è burla, è canzonatura. Egli non è neppure divinità pagana o genio benefico. E’ spirito di un mondo ignorato e spesso trascurato che si manifesta in forma benevola. Naturalmente, in rispetto ad un’antica tradizione di teatro classico, è, soprattutto, deus ex machina, con interventi che nulla hanno di soprannaturale ma che stravolgono semplicemente una logica comune: basti pensare al penultimo quadro, in cui persuade realisticamente il Barone padre ad accondiscendere alle nozze di Zanetto con Irma.
Ed è interessante, in un discorso simbolico come quello relativo al teatro delle marionette, vedere come questo personaggio si ricomponga nel mondo a cui appartiene: il quadro finale è, infatti, lettura fantastica in cui figurazioni e personaggi sono soltanto composizioni coreografiche, strettamente legate alla festa popolare che diventa spettacolo.
Una curiosità per gli amanti della musica: nella partitura, a firma di Allegrini, compaiono due brani tratti da celebri balletti, il famoso “pizzicato” di Silvye di Delibes e le variazioni della protagonista nel secondo atto di Giselle di Adam sulle cui note danza il personaggio della Follia. Ironia delle teste di legno sul triste destino dell’eroina romantica!
Ma il successo più travolgente coronò la fatica artistica delle Compagnie marionettistiche quando i “magatèi”, come affettuosamente i milanesi hanno da sempre chiamato le marionette, interpretarono, a pochi anni dal debutto scaligero del 1881, il ballo Excelsior, su libretto di Luigi Manzotti e musica di Romualdo Marenco. Fu il grande paradosso: celebrare il mondo delle scoperte e delle invenzioni “tirando” i fili! Era quella “macchina semplice” che la marionetta rappresenta ad inneggiare al trionfo della Luce e della civiltà sull’Oscurantismo (in abito da frate nelle prime contestate edizioni marionettistiche!) con messinscene senza precedenti, con sofisticati macchinismi ed effetti spettacolari, realizzando, così, quello che il teatro degli “attori” in carne ed ossa non poteva permettersi a causa degli altissimi costi e delle ovvie impossibilità legate ai palcoscenici “ufficiali”. Fu la Compagnia Zane che l’8 marzo 1884, tre anni dopo il debutto scaligero, presentò al Teatro Gerolamo il ballo Excelsior con un successo così travolgente da richiamare numerosissimi spettatori, al punto che il cronista del “Corriere della Sera” confessò di non aver potuto accedere alla sala:

“Continuano i successi strepitosi dell’Excelsior al Teatro Gerolamo. Iersera, un quarto d’ora prima delle otto, abbiamo tentato invano di entrare in platea. Ci siamo dovuti accontentare di star nell’atrio a vedere il pubblico salire ai palchetti. C’erano tutte le celebrità danzanti milanesi, c’era il Sindaco Belinzaghi e c’erano parecchie delle solite famiglie frequentatrici del Manzoni. Stassera proveremo a recarci al simpatico teatrino alle sette e mezzo”.

E “La Perseveranza”:

L’Excelsior – il gran ballo del Manzotti – ha avuto ieri sera al Gerolamo un nuovo successo; anzi uno dei soliti strepitosi successi. Bisogna vedere come quelle brave teste di legno, dirette dal Zane, sanno rappresentare con arte mirabile i diversi personaggi manzottiani, così da parere, nelle loro mosse, nei loro gesti d’avere una non comune intelligenza. Truce e rabbioso l’Oscurantismo, maestosa e sfolgorante la Civiltà, il volto pieno di genio e d’ansietà, il Papin avvilito e calpestato, gli ingegneri e minatori del Cenisio con le trepidazioni affannose prima che cada l’ultimo diaframma, che si abbandonano poi all’ebbrezza della vittoria: infine, in tutti, un “talento” miracoloso. Il ballo è riprodotto fedelmente dal principio alla fine, nella proporzione, s’intende, della piccola scena, e con lusso di costumi superiore ad ogni elogio. Il primo ballabile, la celebre mazurka dei postiglioni, il galop dei fattorini del telegrafo, il gran ballabile dell’Istmo di Suez e l’ultimo delle Nazioni, con l’apoteosi finale, hanno fatto furore. Così il combattimento nel deserto, ove un beduino colpito da un palla cade morto mentre il cavallo continua illeso nella corsa precipitosa, e l’Oscurantismo che si scotta le mani nel toccare la pila, e il ponte aereo con due treni che si incontrano mentre il battello a vapore fila di sotto molti nodi all’ora. Tutto magnificamente bene, con una illusione degna di un grande teatro di teste… meno dure. La musica del Marenco accresce l’incanto… Pare d’essere alla Scala. Quanta gente questo Excelsior farà accorrere al Gerolamo! Il bravo Zane rimpiangerà ogni sera, come ieri, che la sala non abbia qualche metro di più in ampiezza”.

Qualche anno più tardi è la Compagnia di Antonio Colla, figlio primogenito di Giuseppe, capostipite della dinastia, a presentare al Teatro Gerolamo di Milano il grande ballo inneggiante al Progresso e a portarlo, addirittura, a Città del Capo e a Londra, al Regent’s Theatre, unitamente allo spettacolo Il diluvio universale.
Nel 1895 Carlo Colla jr, nipote di Antonio, a Caluso, realizza “con il gentile consenso dell’autore” lo spettacolo Civiltà e Progresso che, dopo poco tempo, col titolo di Excelsior entrerà nel repertorio della Compagnia Carlo Colla e Figli diventando uno dei “cavalli di battaglia” che, sino al 1957, hanno trionfato sul palcoscenico del Teatro Gerolamo e che, ancora oggi, segnano, in Italia e all’estero, la fama e la notorietà di questa formazione marionettistica.
Anche Vittorio Podrecca, avvocato e giornalista insigne, il più grande impresario di spettacoli marionettistici di questo secolo che aveva tralasciato la metafora e le simbologie del teatro marionettistico di tradizione per valorizzarne, al contrario, la perfezione tecnica, introdusse nel repertorio dei suoi “Piccoli” il galop del secondo quadro.
E per parlare del nostro tempo, va ricordato che negli scorsi anni le marionette della Compagnia Lupi di Torino riproposero, in un allestimento a firma di Filippo Crivelli, il ballo Pietro Micca della premiata ditta Luigi Manzotti e Giovanni Chiti, curato nella parte musicale da Mario Pasi. L’evento fu particolarmente interessante per gli antichi materiali (marionette, scene, costumi) della famosa formazione marionettistica, che tornavano alla luce per un’occasione assai più consona alla fama e alla storia della Compagnia, che non gli spettacoli realizzati in anni più recenti. Alquanto discutibile sembrò, invece, la presenza di un attore che, esternamente al teatrino, interpretava il ruolo del Conte Raffaele della Torre, sovvertendo inevitabilmente gli spazi scenici degli attori di legno ed annullando totalmente la funzione prospettica delle splendide scenografie d’epoca liberamente ispirate a quelle del pittore Magnani realizzate per la prima rappresentazione avvenuta a Torino, al Teatro Vittorio Emanuele, nell’autunno del 1843.
Ma tutto ciò potrebbe acquistare soltanto un sapore di antica nostalgia se non si considerasse, nel parlare di marionette e balletto, anche il presente e il futuro.
Per trattare dell’oggi, la Carlo Colla e Figli, invitata al Berliner Festwochen a celebrare mezzo secolo di cultura sovietica con la messinscena di un’opera lirica e di due balletti, realizza gli allestimenti di Shéhérazade su musiche di Rimskij-Korsakov e di Pétruschka su musica di Igor Strawinsky, nelle trascrizioni per pianoforte a quattro mani curate dagli autori. Invece di ripercorrere il soggetto del coreografico in un atto di Léon Bakst creato per i balletti russi di Diaghilev, l’edizione marionettistica ha tessuto una trama ispirata ai temi descritti dall’autore del poema sinfonico (il viaggio di Simbad, il guerriero di Bronzo, il Principe Calender, Shéhérazade, la città di Bagdad), dove personaggi reali e fantastici si alternano sulla scena come il sogno e la realtà che i protagonisti vivono. L’azione drammaturgica ripete la struttura dell’azione pantomimica alla Viganò con l’inserimento di parti danzate: pas de deux, pas de quatre e danze di carattere. L’impianto scenico prende l’avvio dai ricordi di Simbad il marinaio e del Principe Calender trasportando l’azione negli abissi marini, nei giardini d’Oriente e nella reggia del Califfo Shariar. Per il balletto di Strawinsky l’attenzione del marionettista si è soffermata sulla funzione simbolica e metafisica che il personaggio di Pétruschka ed il mondo in cui il pupazzo vive, riassumono. E proprio a quel mondo (il laboratorio del marionettista) egli ha affidato il compito di restituire visivamente i momenti più poetici della struttura musicale.
Non stupisca un’operazione come quella indicata che, per la prima volta nella storia dello spettacolo marionettistico, affronta il balletto moderno: il teatro marionettistico di tradizione, pur vivendo artisticamente di una sua specificità che, disturbando Kleist, sfugge al teatro degli esseri umani, in particolare al teatro-danza, affonda le sue radici nella struttura del gran ballo scaligero, là dove mimi, danzatori e tramagnini erano parte indispensabile del balletto. Va da sé che spettacoli di grande successo rappresentati al Gerolamo dalla Carlo Colla e Figli come L’umile eroe, Cristoforo Colombo, La serenata di Pierrot, Il Drago Verde, I saltimbanchi e Cenerentola furono strutturati come veri e propri balletti su impianto drammaturgico alla Noverre; ed altrettanto dicasi per quelli della Compagnia Zane come La dea dei fiori o La battaglia di Legnano. Ed a tale operazione teatrale si ispirano i costumi, le scenografie ed il materiale di attrezzistica nonché la tecnica di movimento delle marionette.
Non bisogna dare vita alle marionette, ma sollecitare soltanto la vita che sprigiona dalla loro immobilità. E’ questa che il pubblico scopre quando le vede da vicino e dice che sono belle. Non è la bellezza dei costumi, delle acconciature o degli accessori, quella che viene immediatamente recepita, ma è tutto questo sommato alla “legnosità”. L’azione coreografica, la pantomima, nascono dalla coralità del movimento. Movimento meccanico, indicativo, nessuna interiorizzazione o morbidezza di passaggio mimico. La gestualità deve risultare ampollosa e soltanto riassuntiva di momenti psicologici esclusivamente affidati al fraseggio musicale. Le note ed il gesto non devono comparire quali dicotomia dell’azione scenica. La musica è già azione, è spazio per il movimento in cui ogni gesto è premessa o risoluzione, clausola della struttura coreografica.
Quando un personaggio “parla”, ha, cioè, azione dominante sugli altri, alle figure di contorno spetta la controscena: non movimenti che isolino dalla coralità ma sola tensione nell’ascoltare. Com

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