Il filo rosso della cultura da mordere

Dagli Idea Store londinesi alle residenze pugliesi

Pubblicato il 01/03/2014 / di / ateatro n. #BP2014 , 148

Credo fortemente in un teatro che sappia tornare a essere un linguaggio universale capace di far esprimere gli artisti, parlare agli spettatori, ascoltare i cittadini senza dimenticare di dare voce agli ultimi, alle fragilità, ai non-cittadini. Credo fortemente in un teatro che sappia ascoltare e interpellare le esigenze non solo di chi lo frequenta abitualmente ma anche di chi non pensa neanche lontanamente di metterci piede. Credo in un teatro che sappia tornare ad essere un’arte inclusiva e non esclusiva.
Ed è per questo che parlerò di biblioteche.
Circa quindici anni fa, l’amministrazione del quartiere londinese di Tower Hamlets si è data il compito di scoprire le cause della scarsissima frequentazione di alcune biblioteche di quartiere, del perché venissero ignorate dai cittadini che vi abitavano a poche centinaia di metri, di come i prestiti librari fossero di fatto pertinenza esclusiva di qualche studente o appassionato lettore.
Commissionata una vera e propria indagine di mercato, i risultati sono stati estremamente chiari: questi luoghi venivano percepiti come esclusivi, respingenti, con regole e orari d’accesso lontani dalla vita quotidiana del cittadini. Il nome stesso di “library” veniva connotato immediatamente come un luogo per studiosi ed intellettuali e non per la gente comune. Da questa indagine è scaturita una serie di progetti che hanno portato alla concezione di biblioteche completamente ridisegnate sia sul piano architettonico e del layout sia su quello degli obiettivi e dei servizi. Hardware e software: tutto nuovo. Anche il nome. Il troppo connotato termine “library” ha lasciato il posto al più intrigante “Idea Store”.
E negli ultimi dieci anni i prestiti librari sono aumentati esponenzialmente.
Perché parlare delle biblioteche londinesi parlando di teatro italiano? Perché, come dice Sergio Dogliani, italianissimo ideatore e direttore delle nuove biblioteche dei quartieri di Londra, sono un esempio di come i luoghi della cultura non debbano essere necessariamente biblioteche ammuffite con servizi pessimi, né musei dove vige la regola del guardare ma non toccare, ma luoghi del fare, spazi sociali e dell’incontro, aperti e democratici.
Perché nascono e si evolvono con un orecchio teso ai bisogni del territorio urbano. Gli Idea Stores, infatti, accanto ai tradizionali servizi bibliotecari, offrono corsi di lingua inglese per gli immigrati che vivono nel quartiere, laboratori didattici per i bambini, corsi di formazione per gli adulti (di danza, cucina, informatica). Infine, da non sottovalutare, sono aperti 7 giorni su 7, 357 giorni all’anno!
Londra ha fatto scuola e il principio di biblioteche aperte al territorio capaci di diventare “piazze del sapere”, per citare il bel saggio di Antonella Agnoli, si è fatto largo in tutta Europa. Un esempio fulgido l’abbiamo anche a Bologna, con la bellissima esperienza di Salaborsa, biblioteca comunale diventata presto uno spazio imprescindibile della città, dove è possibile incrociare ragazzotti hip hop, studenti universitari, turisti cinesi e simpatici vecchietti della più genuina tradizione bolognese. Che si fermano, si incontrano, si confrontano, tessono nuove relazioni sociali grazie ad uno spazio culturale capace di ascoltare e provvedere. Un luogo con wi-fi, bar, bagni puliti e che nel raggio di 30 metri offre corsi e laboratori per te e per i tuoi figli, libri e dvd su qualunque tuo interesse, pareti da graffitare, sportelli a cui rivolgerti e bibliotecari pronti ad aiutarti per ogni problema oltre a un cappuccino con una schiuma da urlo.
Un luogo che trasuda cultura da fare, da mordere. Un luogo vivo.

La situazione nel mondo teatrale è decisamente più indietro.
La politica è molto indietro, con qualche debita eccezione. Qualche legge regionale, tra cui la Legge 13 dell’Emilia-Romagna, accorda finanziamenti computando non solo i soliti parametri di giornate lavorative e borderaux, ma anche valutando le giornate di apertura, la quantità di laboratori, le attività di formazione del pubblico, la capacità di fare rete e così via.
Si è disquisito a lungo se introdurre o meno una nuova categoria nel FUS che fotografi questa nuova linea “residenziale” delle compagnie ma immaginare un teatro aperto non è solo questione di categoria ministeriale ma dovrebbe essere nel DNA di tutti. Soprattutto degli Stabili. Ma questa è un’altra questione.

E’ indietro la società civile, l’opinione pubblica, la vox populi, che ancora identifica il teatro come un bene superfluo, un po’ snob, mangia-risorse e destinato ad una manciata di spettatori. O, più semplicemente, ne ignora completamente l’esistenza e la cosa non gli crea nessun problema.

E sono indietro gli artisti, le compagnie, gli addetti ai lavori che vedono svilito il proprio compito e la propria funzione ogni giorno di più, incapaci di trovare una via d’uscita al lento inesorabile shutdown del sistema, tra teatri che chiudono, rassegne e festival cancellati, tournée annullate e un progressivo imbarbarimento delle condizioni minime di dignità lavorativa.
Ma qualcosa sta cambiando: una nuova generazione di teatranti, per lo più quarantenni, da nord a sud, è quotidianamente intento a rimboccarsi le maniche e ad immaginare nuovi modelli e nuove modalità.
Artisti che dialogano con la città, tracciando nuove linee di confronto con gli altri teatri, con le scuole, le università, le istituzioni e i centri che, a diverso titolo e a livello tanto locale che internazionale, si occupano di educazione, di sociale, di cultura e di interculturalità, e con questi scambia metodi, pratiche, strumenti per una nuova idea di formazione, educazione, crescita, ricerca, welfare.
E’ l’identikit di una generazione di giovani artisti, flessibili, creativi, attenti alla responsabilità sociale e alle minoranze, ovviamente europei, decisamente poco interessati al posto fisso e con lo sguardo rivolto al futuro.
E che trovano anche il tempo di fare spettacoli migliori. Già, perché al contrario di quanto si possa pensare, l’apertura e il confronto non toglie tempo alle prove, ma genera nuova linfa e dona un nuovo, rinnovato senso alla produzione artistica.
Chi può, deve ripartire da qui.
Perché abbiamo il dovere, da uomini e donne di cultura, di reagire e di riportare il teatro, ma potremmo dire più in generale le arti performative, quelle visive, la poesia, la letteratura, al ruolo centrale che dovrebbero avere nella crescita di ognuno di noi.
Una cultura diffusa e alla portata di tutti che possa essere reale strumento di benessere per tutti i cittadini.




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