Mito e politica, erotismo e sentimentalismo: una invettiva per l’Europa

Hôtel Europe di Bernard-Henri Lévy alla Fenice

Pubblicato il 18/07/2014 / di / ateatro n. 150

Il mito dell’Europa sembra sopravvivere solo ai suoi margini, a piazza Maidan, dove la bandiera europea spuntava dalle barricate accanto a quella ucraina; a Lampedusa, a cui migliaia di disperati guardano ancora come alla porta di un continente di pace e prosperità; a Sarajevo, la città multiculturale martoriata dal conflitto jugoslavo, che spera nell’ingresso nella UE. Per il resto, “l’Europa non è più niente, è soltanto un nome”, un progetto tradito, un’entità ormai disgregata, come ci ricorda Bernard-Henri Lévy in Hôtel Europe, proponendo provocatoriamente di traferire la sede della Commissione europea proprio nella capitale bosniaca e di ritrovare le fondamenta della casa comune europea a partire dalla Grecia, dalla Sicilia, dai fragili confini orientali.
Monologo tagliato sulle misure dell’attore francese Jacques Weber, Hôtel Europe ha debuttato in prima assoluta alla Fenice di Venezia dopo un’anteprima in giugno a Sarajevo, per approdare in settembre al Théâtre de l’Atelier di Parigi. Al regista bosniaco Dino Mustafić va il merito di aver saputo contenere l’energia prorompente del protagonista, anche grazie a una scenografia che ne polarizza gli slanci tra gli arredi di una camera d’albergo (un letto, un tavolino, una vasca da bagno) e i supporti elettronici di una reitarata distrazione dal primo livello testuale (un telefono cellulare e un computer portatile perennemente collegato a internet, su cui l’uomo cerca notizie e ispirazione). «È la storia – dichiara Lévy – di un uomo profondamente europeo nel cuore e nello spirito che, chiuso in una camera a Sarajevo, a cent’anni di distanza dal primo conflitto mondiale e a venti dal dramma che ha colpito la ex-Jugoslavia, deve preparare un discorso sull’Europa ma fatica a realizzarlo perché prova uno scontento interiore ed indefinito. Davanti ai suoi occhi passano personaggi come Putin o Marine Le Pen, figure agli antipodi dello stesso concetto d’Europa… Poi c’è un colpo di scena che fa sì che il discorso alla fine potrà essere pronunciato. Ma il cuore della pièce è il malessere della civiltà europea, un grido di rabbia contro chi l’ha provocato, la volontà di dare l’allarme ai miei concittadini d’oggi e di ridare concretezza al sogno europeo».

Jacques Weber

Jacques Weber

Nella propria decadenza fisica e mentale (si confonde, si ripete, si ritrae, non sa mettere in piedi il suo discorso), l’anziano intellettuale incarna sulla scena la decadenza dello stesso Vecchio continente. Fissato con il sesso, a metà tra Strauss-Kahn e un Casanova fuori tempo massimo, l’uomo vorrebbe provarci con la ragazza della reception, ripensa ai segnalibri porno infilati nei volumi dell’École normale supérieure, ripercorre una personalissima (e molto francese) geografia erotica del continente attraverso le amanti possedute nelle diverse città. La geopolitica ridotta a melenso sentimentalismo.

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L’invettiva si fa tagliente quando trova un bersaglio preciso contro cui puntare il dito, il banchiere Gerhard, Putin, Le Pen, Izetbegovic, Berlusconi (ma puntuali le trite battute su fellatio e bunga bunga). Il j’accuse sembra in realtà un lungo sfogo che centrifuga titoli di cronaca e cenni filosofici, ammiccamenti cinematografici e letterari, Papa Francesco e Lord Byron, i miti greci e la strage di Utoya, Paul Claudel e Lili Marlene, Platone e Pasolini, per culminare in un confronto tra Husserl e Heidegger. Il richiamo del primo all’eroismo della ragione viene indicato da Lévy come l’essenza dell’ideale europeo. Con questo climax poteva agevolmente trovare concludere lo spettacolo, che invece riprende e si dilunga in uno schema ormai prevedibile per un’altra mezz’ora. Calorosi comunque gli applausi del pubblico all’interprete e all’autore, presente in sala tra invitati illustri e scampoli di mondanità. Marsilio editore ha pubblicato per l’occasione il testo del “dramma in cinque atti”, nella versione di Sara Prencipe, con testo francese a fronte.
Tutto sommato, un’operazione di intelligenza commerciale, e questo certo non è un delitto. Del resto a BHL non manca l’esperienza dell’imprenditore. Quanto allo spirito europeo, presentato come “antidoto a ogni forma di violenza” per “le sue sicure matrici storiche e intellettuali”, il “nuovo filosofo” francese sembra avere per la sua concreta affermazione poche idee e piuttosto vecchiotte, a sentire i facili slogan sessantottini che sigillano il blob contestatorio di Hôtel Europe: «Un’unica soluzione, la rivoluzione. Un unico rimedio, il ritorno del coraggio e della furiosa chimica dei sogni». BHL mostra in realtà la solita disinvoltura di giudizio storico e politico, finalizzata forse più a occupare la scena mediatica che a cercare di comprendere e interpretare. Il doppio anniversario di Sarajevo era un’occasione imperdibile per l’intellettuale engagé, già autore di imbarazzanti prese di posizione sulle questioni più disparate, dalla Libia all’Ucraina, da Cesare Battisti a Matteo Renzi. Ma qui il drammaturgo veste i panni inconsistenti del moralista. E con la lisa stoffa del prête-à-penser d’oltralpe, oggi è difficile pensare anche solo di rattoppare il malandato tessuto culturale e politico europeo.




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