Londra 2011-2014: l’impossibile spettacolo della rivolta

Little Revolution, Almeida Theatre, Londra, 26 agosto – 4 ottobre 2014

Pubblicato il 25/09/2014 / di / ateatro n. 151

Sembravano un film già mentre accadevano, in quell’agosto caldo del 2011. Ora i ‘riots’, i disordini che scoppiarono a Londra in seguito all’uccisione dello spacciatore Mark Duggan da parte della Metropolitan Police, sono il soggetto di un nuovo spettacolo all’Almeida Theatre.
Il ricordo è ancora vivo: orde di ragazzini armati in marcia contro la polizia, palazzi e autobus in fiamme, sciacalli all’assalto di negozi, milioni di danni a esercizi privati, cinque persone uccise, decine di feriti, più di 3000 arrestati, mille processati in direttissima. Anche Twitter sembrava sul punto di scoppiare: era forse una rivoluzione sull’onda di quella egiziana? Ma contro cosa? E soprattutto in nome di cosa?
Per tre giorni e tre notti, la civiltà e la legge si erano eclissate nella città di Sua Maestà, ma nessuno sapeva dire precisamente perché. Si avanzavano ipotesi: proteste contro il razzismo della polizia, contro l’austerità di Cameron, contro l’assenza di opportunità per i giovani, o tutto questo insieme. C’era anche chi vedeva nei rioters l’espressione della crisi delle ideologie nella società inglese, il trionfo del consumismo più becero e l’esplosione di un disagio sociale le cui cause andavano cercate nel neoliberismo della Thatcher. Per il governo erano semplici vandali.
Dopo il primo dramma-documentario di Gillian Slovo prodotto dal Tricycle Theatre nel novembre 2011, a tre mesi dai fatti, ecco arrivare tre anni dopo la versione di Alecky Blythe, reginetta del verbatim theatre (per chi non conosce la terminologia britannica, si tratta di ‘teatro-documentario’ in cui gli attori ripetono parola per parola il contenuto di interviste con persone reali). Oltre che due spettacoli teatrali, i riots hanno già ispirato numerosi documentari per il piccolo e grande schermo, ma a guardarne qualsiasi tentativo di rappresentazione si ha l’impressione che le sommosse del 2011 sfuggano a una visione d’insieme. E Little Revolution parla soprattutto dell’impossibilità di rappresentarli.

Little Revolution, Michael Shaeffer e Imogen Stubbs (Manuel Harlan)

Little Revolution, Michael Shaeffer e Imogen Stubbs (Manuel Harlan)

Blythe si mette in gioco di persona: mette in scena sé stessa mentre tre anni fa, con l’afflato della documentarista, si dirige verso Hackney con il suo registratore per intervistare i facinorosi, le loro vittime e i semplici curiosi. Con la sua compagnia, Recorded Delivery, Blythe ha inventato un metodo tutto suo per riversare il contenuto delle sue ricerche sulla scena. Gli attori in scena, sia professionisti sia non professionisti (un gruppo di volontari), indossano auricolari in cui ascoltano la voce registrata della persona che stanno interpretando, ripetendo ‘in diretta’ non solo il contenuto, ma anche l’accento, la cadenza, il ritmo del parlato individuale, compresi gli errori grammaticali. Blythe può così spettacolarizzare l’ambiguo concetto di ‘autenticità’ e metterlo a nudo: ‘Sono una drammaturga, scrivo documentary plays, ti andrebbe di dirmi cosa ne pensi di quello che sta succedendo?’, chiede la Blythe alle persone che tenta goffamente di intervistare nelle strade di Hackney, quasi prendendosi in giro da sola. Ma il gioco costante con i meccanismi metateatrali rende questa documentary play molto meno ingenua di quanto la definizione del genere farebbe pensare. Ormai abbiamo imparato da tempo che il montaggio non è mai oggettivo, e che la selezione e giustapposizione del materiale, nonché la recitazione stessa, appaiono ampiamente ‘teatrali’; il tentativo di rimuovere la finzione dalla scena è un paradosso sfruttato fino all’ultima goccia in tutte le sue opportunità performative, senza mai rimuovere la cornice, l’atto stesso dello scrivere una documentary play dalla scena.
Dal percorso individuale della Blythe emergono personaggi gustosamente emblematici della fauna dell’East End londinese: dagli hippie che vogliono sostenere la comunità locale (ma che si rivelano essere più ‘middle-class’ della media), al barbiere caraibico che mette il naso dappertutto; dall’attivista che distribuisce volantini contro la polizia ai giovanotti qualunquisti e disoccupati, al giornalaio cingalese il cui baracchino è stato incendiato; dalla mamma del ragazzino mulatto che viene sempre perquisito senza ragione dai bobby, al consigliere comunale che vive nel quartiere da quattro generazioni.

Little Revolution, Rez Kempton e il  Community Chorus (Manuel Harlan)

Little Revolution, Rez Kempton e il Community Chorus (Manuel Harlan)

Mentre assistiamo alle vicende di un gruppo di residenti del Pembury Estate di fronte al groviglio dei riots, sullo sfondo appaiono minacciosi i tentacoli di Marks & Spencer, simbolo del consumismo britannico, che offre torte gratis per un tea party in onore dell’elusivo spirito di comunità nel condominio più malfamato di Hackney. Le risate costruite dalla Blythe non sono mai politicamente scorrette: non ridiamo dei rioters, ma delle nostre stesse reazioni di fronte a loro, rivelando aspetti profondi della Britannia più uncool. E ci fa sentire inadeguati, seduti in quel teatro-boutique per benpensanti che è l’Almeida, mentre speriamo che la Blythe ci mostri finalmente il volto dei senza nome, mentre assaporiamo la possibilità di osservarne un esemplare ‘autentico’ da vicino, quasi fossimo allo zoo.
Ma i rioters sono i protagonisti assenti. Mancano le loro ragioni, le loro parole, il loro punto di vista. Ci sono però i racconti degli gli altri personaggi e i loro inutili tentativi di capire. E questo non solo perché la Blythe ha privilegiato conversazioni con persone della sua stessa classe sociale, la ‘confortable middle-class’ che non ha partecipato ai riots, ma perché Little Revolution ci racconta dell’ineguatezza e all’incapacità del teatro stesso – e in particolare di quel teatro, l’Almeida – a dare voce ai senza voce. E in questo modo teatralizza perfettamente, per via negativa, questo garbuglio sociologico, evitando sapientemente la trappola della via positiva, che ci avrebbe senz’altro deluso.




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