Il teatro è solo bianco? Oltre gli stereotipi, l’Altro

In risposta alla provocazione di Janet Suzman

Pubblicato il 26/01/2015 / di / ateatro n. 152

“Il teatro è una invenzione dei bianchi, degli europei”: è questa la sbalorditiva e scioccante affermazione dell’attrice e regista sudafricana Janet Suzman, che sostiene convinta che questa tradizione, cominciata con la tragedia greca e continuata con Shakespeare, non abiti “il Dna di neri ed asiatici”.
Le parole di Suzman, che ha un curriculum vitae segnato da lotte antirazziste e antiapartheid, nascono come risposta alla collega e scrittrice Meera Syal, che lamentava la scarsa presenza di asiatici nello star system teatrale.

Meera Syal

Meera Syal

E’ scoppiato il finimondo. La dichiarazione è stata ripresa dalle più importanti testate di lingua inglese ed è stata accusata di razzismo o peggio di atroce ritorno all’eugenetica culturale.
Ma Janet Suzman non è, per la sua biografia, classificabile come razzista. Le sue lotte dimostrano il contrario.

Othello, regia di Janet Suzman

Othello, regia di Janet Suzman

Allora come si accompagna una personalità così poliedrica, aperta al mondo, con una una visione così piatta del teatro?
La tesi di un teatro nato bianco è facilmente smontabile. Il teatro non ha colore. Lo spettacolo teatrale, la rappresentazione, muoversi in una scena immaginaria di fronte a un pubblico, non è appannaggio di una cultura, ma (ed è davvero banale sottolinearlo) dell’intera umanità.
Si può dire che ogni cultura abbia creato il suo modo di fare teatro.
Il teatro è nato per propiziarsi una divinità o per mettere insieme i vari momenti della vita di un uomo. Si faceva teatro in occasione di una nascita o si rappresentava la vita del morto durante il suo funerale. Poteva essere legato a periodi fertili, dopo una grande siccità. Si “rappresentava” per festeggiare un’unione matrimoniale o per deliziare l’antenato totemico da cui si voleva protezione o salvezza. Se apriamo la storia del teatro di Cesare Molinari, scopriamo che tutti praticavano qualche forma di teatro, dalle popolazione di lingua Nahuatl in Messico agli australiani Kamilaroi. Quest’ultimi per esempio delimitavano uno spazio dove inserivano dei fantocci che rappresentavano gli spiriti degli antenati.
Il teatro moderno occidentale invece, si sa, nasce in Grecia nel V secolo a. C. e si sviluppa come lo conosciamo. Inutile su questo soffermarci troppo. Ma nel mondo ci sono altre forme teatrali. Basti pensare ai Griot dell’Africa Subsahariana, al Kabuki in Giappone o al Bharatanatyam in India che miscelano la danza, la poesia, l’arte drammaturgica, il ritmo, il mito. Il Bharatanatyam è teatro del corpo e della mente. Un teatro legato alla divinità che però attraverso chi lo esegue diventa qualcosa di congiunto alla terra; nei suoi movimenti ritmati e a tratti forsennati lega il corpo allo spirito. È meditazione, ma anche la più pura forma di teatro. Esempi analoghi si possono fare per ogni angolo delle terre emerse.
Tuttavia l’affermazione di Suzman non va liquidaa con una scrollata di spalle. Quella frase – “Il teatro è un’invenzione dei bianchi” – ci dice qualcosa di più di quello che forse l’autrice stessa sospetta. Ci racconta di un’Europa (o più in generale di un mondo occidentale) poco curioso, che non sa che il suo teatro è legato agli altri per temi, preoccupazioni, modi di agire o ragioni d’essere. Lo stesso Shakespeare senza legami con “il fuori” non potrebbe esistere. Basti vedere quanti riferimenti, anche casuali, al mondo arabo islamico possono emergere dalla lettura di opere come Macbeth o Tito Andronico. L’Altro non è presente solo attraverso personaggi, parole, situazioni, fonti… A volte fa parte dell’ossatura stessa di un’opera che ormai canonizziamo come immortale. Il mondo era interconnesso allora come oggi. Ed forse il nostro più grande errore è che ce ne dimentichiamo. Forse quel teatro “invenzione dei bianchi” ci dovrebbe mettere in guardia sulla canonizzazione dei classici. Canonizzare qualcosa significa erigerli un piedistallo e in fondo farlo morire, perché nessuno si azzarderebbe più a trasformarlo o a renderlo parole vivo. Chi lo fa viene accusato di semplificare, o non addirittura lesa maestà. È successo recentemente al Teatro Argentina quando Antonio Latella ha stravolto lo schema visivo di Natale in Casa Cupiello di Eduardo De Filippo. Il suo gesto anarchico è piaciuto a molti, mentre altri lo hanno considerato una follia senza senso. Quanto della sottomissione al classico ha pesato sul giudizio che alcuni critici hanno dato al lavoro intenso di Antonio Latella? Un classico di norma non andrebbe mai canonizzato. E dichiarare l’opera di Shakespeare “bianca” significa non avere idea di quanto un’opera d’arte sia al centro di un passaggio di lingue, culture, sapori, odori, relazioni.
Inoltre, e questo va sottolineato con forza, le parole di Janet Suzman denotano qualcosa di ancora più preoccupante, ovvero che l’altro, nelle sue costruzioni artistiche, per molto tempo non è stato nemmeno preso in considerazione. Fenomeni storici come la tratta degli schiavi e il colonialismo hanno fatto in modo che la parola dell’altro non solo fosse cancellata dal potere, ma di fatto capovolta. L’altro non era soggetto dell’arte, ma un oggetto immobile raccontato attraverso stereotipi che lo demonizzavano e lo inferiorizzavano. Quando l’altro è riuscito a prendere la parola, dapprima lo ha fatto attraverso la letteratura, perché di fatto scrivere, prendere un calamo e un foglio era più facile che mettere su uno spettacolo teatrale.

Olaudah Equiano

Olaudah Equiano

Olaudah Equiano, scrivendo la sua biografia di schiavo, nel titolo non ha solo messo il suo nome da schiavo accanto al suo nome africano, ma ha rivendicato anche la sua autorialità, con quel commovente written by himself. Non è un testo sotto dettatura, sembra dirci Equiano, ma è uscito direttamente dai suoi polpastrelli. È chiaro che il gesto letterario di Equiano ci metterà un po’ di tempo per diventare gesto teatrale. Il teatro, non ce lo scordiamo, è questione di luci, costumi, palcoscenici. E’ necessario trovare un luogo dove farlo e serve un capitale iniziale da investire. Inoltre, e questo di certo non è un aspetto secondario, deve esistere un pubblico capace di recepirlo. Il Kabuki e il Bharatanatyam nei loro luoghi di origine avevano il proprio pubblico. Ma nel mondo “bianco”, per riprendere l’affermazione di Suzman, quanti erano pronti a recepire le rappresentazioni teatrali dell’altro?
Oggi siamo in un mondo diverso. In molti ambiti – dalla letteratura all’arte contemporanea – c’è una grande voglia di confrontarsi, di demolire gli stereotipi, di costruire un nuovo dialogo fecondo. Nel cinema e soprattutto nel teatro è tutto ancora più difficile. Molto probabilmente, dipende ancora dalla lettura che si fa del corpo dell’attore. Che cosa ci trasmette questo corpo? E cosa vogliamo sia rappresentato? Il corpo dell’attore è ancora purtroppo legato a quello che il potere egemonico vuole che racconti. E anche se il colonialismo storico è finito da tempo, il corpo è ancora soggetto a dinamiche neocoloniali che lo trasformano e a volte lo ridicolizzano.

Lorraine Lorraine Hansberry

Lorraine Lorraine Hansberry

Non è un caso che opere eccelse come quelle del premio Nobel nigeriano Wole Soyinka o dell’afroamericana Lorraine Hansberry non vengano adeguatamente rappresentate. Si adducono mille scuse. Si ha paura di scioccare un pubblico ormai abituato alle parole di Shakespeare o di Eschilo. Il teatro, ed è forse questo il sottotesto doloroso delle parole scioccanti dell’attrice sudafricana Suzman, è di fatto, in parte, diventato conservatore. Ha troppa paura di osare. Ed è in quel colore bianco che oggi si rifugia, per non essere messo in crisi nelle sue certezze dialettiche.
Certo, per fortuna questo non vale per tutto il teatro.
Ma non possiamo nasconderci che una visione eurocentrica del teatro non solo c’è, ma è anche dominante.
Quelle di Suzman forse sono solo le parole di chi è spaventato dal futuro. Di chi ha paura di storie nuove che possono smuoverci e farci perdere ogni coordinata.
Il razzismo forse in tutto questo c’entra poco. Forse si tratta più banalmente di paura di vivere, della maledetta paura di volare che ci tiene a terra.




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