Un concerto con dentro il teatro. La voce di Ermanna Montanari in Luṣ

Pubblicato il 16/02/2015 / di / ateatro n. 152

Uno che l’abbia conosciuta nella prima versione stregonesca, la Bèlda-Ermanna Montanari di Lu, giusto vent’anni fa, deve farsi una ragione del tempo passato e assumere come postura ricettiva proprio lo sconcerto di fronte a questa sua rinascita – rimessa in vita, direbbe forse il regista Marco Martinelli – che la proietta in una dimensione temporale ancor più sfuggente. Si sa, «morir non puote alcuna fata mai», come ricordava sghignazzando la grottesca Alcina dell’omonimo spettacolo cult interpretato dall’attrice delle Albe. E in qualche modo queste figure femminili cui Montanari dà corpo e voce nelle sue – interpretazioni non è la parola giusta – evocazioni, queste mistiche terrigne incarnate nelle sue rianimazioni, hanno tutte una matrice comune, un fondo di ancestrale irrequietezza, una vocazione eretica, un qualche barlume sensitivo unito a un’anarchica irriducibilità alla rappresentazione (da Alcina alla Bèlda, dalla medievale Rosvita alla suora rock de La mano, dalla Daura dei Refrattari all’asina Fatima di Siamo asini o pedanti?, ma anche, in qualche grado, la Tonina del Pantani, la madre dolorosa del “pirata”, e perfino la recente Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari vissuti come esercizio spirituale).

Ermanna Montanari in Luṣ (foto Luca Del Pia)

Ermanna Montanari in Luṣ (foto Luca Del Pia)

Lo scarto che misuriamo tra il nostro sguardo “fuori dal tempo” e l’apparire sonoro di questa figura ammaliante ci restituisce allora la possibilità di un ascolto ineffabile, rivela la distanza relativa dal nucleo antropologico sepolto vivo sotto un presente falsamente assoluto. Basta infatti smuovere un po’ la spessore del silenzio – basta che un archetto sfreghi le sue prime note su una corda – e un sortilegio ci avvinghia. Perché l’attrice, nella sua staticità ieratica, è tutt’uno con lo spazio scenico e questo a sua volta è inscindibile da uno spazio sonoro che si satura rapidamente e risucchia lo spettatore ascoltante (uno spettatore “tutto orecchi”) in un ambiente riverberante di presenze acustiche, un paesaggio sonoro “aumentato”. I suoni si allargano, si smagliano, si rincorrono in un loop irrisolto, in un canone sghembo, tortuoso, sempre più denso, agglutinante, e non si può fare a meno di guardare questa musica che cresce, non si sa più se dentro o fuori di noi, in una spirale psichica governata dal medium perturbante della voce in scena.

Ed eccola lì, allora, la Bèlda resuscitata, indomita, postmoderna, in piedi sopra una pedana bianca a forma di pianoforte a coda. Una fattucchiera altera e beffarda, un’incantatrice che sbuca dalle croste del tempo, un’Alcina alla deriva su un isolotto al bordo della visione, ma ben piantata al centro di un arcipelago di segni che gli acquerelli di Margherita Manzelli, dilatati nelle proiezioni sul fondale, s’incaricano di riassumere per chi ancora voglia tenere gli occhi aperti. Lavorando la voce al microfono come vetro sulla fiamma, Ermanna Montanari s’ingloba alchemicamente con le sorgenti sonore che sgorgano dalle altre due isole ai lati del palco. Contrabbasso (Daniele Roccato) e live electronics (Luigi Ceccarelli) creano un flusso sonoro ininterrotto, un tunnel acustico, una spessa corda tesa tra la performatività e il canto, su cui l’attrice avanza in equilibrio, senza esitazioni, il corpo chiuso in un abito bianco rigido, come una calla capovolta, sgualcita e maculata di sangue, presagi raggrumati.

Ermanna Montanari in Luṣ (foto Luca Del Pia)

Ermanna Montanari in Luṣ (foto Luca Del Pia)

Dal profondo delle campagne romagnole, Nevio Spadoni ha tirato fuori questa potente figura di veggente e guaritrice, vittima dell’ipocrisia degli uomini. La Bèlda, «quella che nessuno può vedere» ma che tutti chiamano quando c’è bisogno, e a lei «tocca sbrogliare le matasse», guarire il sindaco col singhiozzo, la ragazzetta col mal d’amore. La Bèlda che a modo suo va in cerca della luce e sconta i pregiudizi della gente. Il prete del paese arriva a far disseppellire sua madre, e lei si vendicherà colpendolo con un maleficio di morte.

Il testo sembra tagliato con la stessa roncola che la protagonista tiene in mano per tutto lo spettacolo. È una maledizione e una preghiera, un canto ipnotico e un’interminabile formula magica. Poco o nulla è dato capire allo spettatore non romagnolo delle parole in stretto dialetto. E questo, se si vuole, toglie di mezzo i problemi – le scorciatoie – della semantica e costringe a fare i conti con la dimensione della pura fonè (ma se non si vuole, se proprio s’insiste a tenere gli occhi aperti, c’è la traduzione italiana del testo proiettata sul fondale).

Ermanna Montanari in Luṣ (foto Luca Del Pia)

Ermanna Montanari in Luṣ (foto Luca Del Pia)

Nella storica versione del 1995, lo stesso anno di pubblicazione del libro di Spadoni, l’attrice stava per tutto il tempo su una struttura metallica sospesa a un metro dal suolo, in abito da sposa, assurta in una specie di gabbia. La sua voce era continuo scavo di gola, rovello di corde vocali, raucedini sfumate, le emissioni si sdoppiavano, cercavano gli armonici, le diplofonie che diventeranno poi uno dei tratti tecnici caratteristici del lavoro di Montanari. Era una voce tutta rivolta all’interno, all’introspezione sonora. Nella nuova versione, che ha debuttato al Teatro delle passioni di Modena, il «canto in dialetto romagnolo» è sola voce, non ha più bisogno di rendere plasticamente l’elevazione, la possessione, non ha più bisogno neppure della presenza danzante del prete (Luigi Dadina). E la voce è ora tutta rivolta verso l’esterno, tutta estrovertita, rivolta cioè non più verso il soggetto ma verso l’oggetto, ovvero verso il farsi della musica. Ma è un rivolgersi all’orizzontalità della ricerca e dell’espressione vocale che risente per forza dell’esperienza della verticalità che ha alle spalle (la prima versione). È una voce matura, completa perché ha dentro (dentro appunto, non fuori) anche l’altra. In questo senso le due versioni sono complementari, e come sarebbe bello e istruttivo poterle vedere (almeno in video) insieme, o sperimentare la sovrapposizione delle due tracce audio in un’unica banda sonora. Una Lu al quadrato, debordante e sfrangiata, fatta di scarti, contrasti, variazioni. Di vertigine temporale.

Questo spettacolo insomma è un concerto, sì, ma un concerto con dentro il teatro (perché «le fate morir sempre non ponno…»).

 




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