Autoritratto di una generazione in crisi

La scena della crisi, la crisi della scena. Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni della Compagnia Deflorian/Tagliarini

Pubblicato il 12/03/2015 / di / ateatro n. 153
Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni

Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni

In scena al Teatro Filodrammatici di Milano, un’occasione di riflettere sul presente: l’ultimo lavoro della Compagnia Deflorian/Tagliarini, Premio Ubu 2014 per la ‘Novità italiana o ricerca drammaturgica’, Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Grecia, una istantanea dalla crisi. Quattro donne sulla settantina, senza figli, decidono di farla finita.
Non è una patologia depressiva, ma una decisione convinta, assertiva. Lo dice il biglietto appoggiato in ordine sul tavolo della cucina, tra le pillole e la vodka:

“Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, per non essere di peso, a voi, alla società.”

Si preparano, si trovano in questo bilocale, prendono dei sonniferi insieme agli alcolici, il modo più sicuro per andarsene dolcemente. Una tragedia o un atto estremo di compostezza e dignità? Un suicidio politico?
Antonio Tagliarini e Daria Deflorian sono in scena con il loro ‘tentativo’. Provano a rappresentare questo momento di fine, di disperazione, di ricerca, di dignità. Tutto intorno parla di crisi, precarietà, difficoltà. E quindi? Ce ne andiamo tutti?
Daria esordisce in scena dichiarando un fallimento. Non si può. Se quelle quattro donne, che poi anche quella è un’invenzione letteraria, un’immagine creata da Petros Markaris per il romanzo L’esattore; se quelle quattro donne hanno deciso di andare via, come possiamo noi invece stare qui e raccontare? Come la rappresentazione può restituire quel momento?
Qui e ora c’è il pubblico, noi che guardiamo. Anche noi, che cosa possiamo pensare?
L’inizio dello spettacolo è un’apertura alla tentazione di sottrarsi. Di fronte a un grande dolore io posso anche non farcela. Posso anche dire di no.
Andiamo in scena? No. Mettiamo in scena? No.
E progressivamente assistiamo come allo svuotare una valigia di pensieri, a provare a giustapporre a questa immagine le nostre.
Ecco quello che apparentemente si costruisce. Gli altri sono la rappresentazione di noi. Dopo Daria, il monologo di Monica Piseddu, l’altra interprete, viene a prenderci qualcosa dentro.
Nella nostra parte più intima è ancora un no, un racconto del presente, trenta-quarantenni senza futuro, almeno per come ce la raccontano e la domanda “Ma posso andare avanti così? Posso ancora aspettare?”
Dubbi… E sull’orlo di questo baratro intervengono anche momenti comici. Antonio Tagliarini si immagina il proprio funerale. Valentino Villa dice caparbio dei suoi tentativi di mettere in scena.
Nel senso di fermarci un attimo e prendere atto, dirsi per un momento ‘dove sono e come sto?’, in questo presente instabile. E allora, nella piccola consapevolezza, forse posso fare qualcosa.
I quattro performer non sono mai mimetici, non sono mai personaggi. Certamente ogni tanto diventano le quattro donne, ma appena si sovrappongono, subito devono poi ‘andare via’, lasciare che quell’immagine sia generativa per noi, che non si fermi a ‘una storia’, che non entri nel frigorifero del telegiornale, che continui a chiamarci in causa. Nemmeno il sirtaki finale della rappresentazione si danza. E’ solo evocato, raccontato, ma non serve certamente farlo. Lo immagino ed è già il mio, la danza dello spettatore.
La ricerca di questa “Trilogia dell’invisibile” di Antonio Tagliarini e Daria Deflorian è anche un libro (edito da Titivillus).
Al Filodrammatici è approdato anche il lavoro precedente a Ce ne andiamo…, il delicato Reality, la storia di una donna polacca che nell’anonimato della sua vita ha annotato cronologicamente in 31 categorie e oltre 700 quaderni la sua realtà, tutti i fatti che le sono accaduti. Un’occasione per riflettere insieme su una nostra modalità un po’ passiva di stare nelle cose, anche su quello che ci stanno raccontando, ‘non serve a nulla provarci’, ‘state calmi’, finestra su un’apparente fine che in realtà può costituire l’alba di un inizio.




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