Dall’archivio di ateatro. Pasqua con Judith e Julian

("il manifesto", 20 aprile 1987)

Pubblicato il 11/04/2015 / di / ateatro n. 153

Al centro, un lungo tavolo di legno chiaro, basso e circondato da cuscini e tappeti. Tutto intorno, addossata alle pareti di una fragile e accogliente struttura di legno, una grande tavolata. Al primo tavolo si sistemano gli ospiti dei Living Theatre, mentre la seconda accoglie gli “invitati-spettatori”. Ingombrano la mensa piatti imbanditi piuttosto parcamente, vino e succo d’uva, la matzah (il pane azzimo, cioè
non lievitato), ciotole piene d’acqua. Le note di un flauto, accompagnato da una cantilena, danno inizio alla cerimonia.

Judith Malina e Julian Beck

Judith Malina e Julian Beck

È l’”Haggadah per il Seder di Passover”, ovvero la cena pasquale secondo la tradizione ebraica presentata per tre sere al Salone Pier Lombardo di Milano, all’interno del Festival Internazionale di Cultura Ebraica.
È una cerimonia che il Living ha sempre continuato a celebrare in forma privata, lungo tutta la sua storia. Una storia ormai lunga, quella del gruppo americano, che parte dall’underground newyorkese degli anni Cinquanta, quando due giovani allievi di Piscator, Julian Beck e sua moglie Judith Malina, si lanciano alla scoperta di Pirandello, Brecht e Artaud.
Poi ci saranno l’esplosione di spettacoli-denuncia di straordinario e violento iperrealismo, The Brig (sulla demenza del militarismo) e The Connection (sui tossicodipendenti), la reinvenzione del teatro con
Mysteries, Antigone e Frankenstein, fino a scardinare la forma stessa dello spettacolo con gli slanci utopici di Paradise Now.
Il Living ha sempre rifiutato la tentazione dell’isola felice, anche quando sarebbe stato facile e gratificante, sull’onda del successo e della mitizzazione. Al contrario, si è spinto ogni volta verso
il nocciolo delle contraddizioni per attraversarle e farsi attraversare da esse, con una coerenza pagata a caro prezzo, dalle barricate del maggio parigino alle galere brasiliane, sempre con la stessa travolgente intensità (proprio su questa “ingenuità” si appuntavano gli sguardi di sufficienza per le teorie economico-social-politiche illustrate negli spettacoli post-Paradise).
Ancora oggi il Living continua a vivere e lottare per la propria sopravvivenza, ma trasformato in nucleo internazionale e diffuso, di qua e di là dall’oceano.
Julian Beck – e nella sua posizione si riflette anche quella del Living – non poteva probabilmente definirsi “religioso”. Parlava di sé come di un militante anarchico, in lotta per spezzare catene e barriere,
a cominciare da quelle delle ideologie, dai fanatismi delle ortodossie, per una rivoluzione non-violenta (proprio durante gli “anni di piombo”, quando il suo “messaggio” sembrava meno accettabile, fuori dal tempo, il Living aveva voluto stabilirsi in Italia…).
Era tuttavia possibile, con qualche forzatura, leggere nello slancio che animava Beck e il Living qualche venatura profetica, quasi mistica; non a caso, alcuni loro spettacoli sono interpretabili attraverso i testi sacri dell’ebraismo – a cominciare dalla Rivoluzione di Paradise Now,costruita su una struttura ripresa dalla Kabbalah.
Questo “doppio binario” trova qualche riflesso in altri aspetti. La scelta stessa di dedicarsi al teatro contravveniva, per esempio, a un precetto implicito della religione ebraica, che evita la rappresentazione come forma di idolatria, D’altro canto uno dei fili conduttori dell’attività del Living è stato il continuo tentativo di superare, all’interno della forma dello spettacolo, proprio la rappresentazione: con un’immedesimazione realistica che finiva per ingannare il pubblico (“questa è realtà, non è teatro… restituiteci i soldi del biglietto…”); con un coinvolgimento dello spettatore che tendeva a equipararlo all’attore; o ancora con la convinzione da agit prop che vedeva gli effetti del la rappresentazione diffondersi per contagio nell’intera società.
Dietro la scelta di celebrare pubblicamente la cena pasquale s’intravedono queste tensioni contrastanti, e un intelligente tentativo di mediarle: se la storia del Living è un continuo tentativo di ritualizzare il teatro, questa è, al contrario ma coerentemente, una spettacolarizzazione del rito. Judith (figlia di un rabbino, oltre a essere da sempre la regista del gruppo di cui è anche la guida carismatica, soprattutto dopo la morte, due anni fa, di Julian) si è preoccupata della legittimità dell’operazione: “quando ce l’hanno proposto, abbiamo meditato a lungo.Ma nel testo del Seder sta scritto: “chi ha fame venga e mangi”. Perciò si tratta di una festa aperta a tutto il mondo, ebrei e non-ebrei”.
Non c’è invece nessun bisogno di giustificare l’interesse del Living per questa particolare ricorrenza: con la cena pasquale la liturgia ebraica rinnova ogni anno il ricordo e l’esperienza della liberazione dalla schiavitù dei Faraoni, “perché un tempo eravamo schiavi e poi siamo stati liberati e se ora fossimo schiavi, dovremmo guardare alla nostra libertà”. Proprio per guardare alla prospettiva della liberazione,
per ricordarsi delle tante schia vitù dei Presente, per rinnovare l’impegno a costruire un futuro di libertà, ecco questa “Haggadah per Seder di Passover”, ovvero in angloebraico “Racconto della Sequenza
del Passaggio”

L’episodio biblico dell’Esodo è un luogo canonico della meditazione politica, per secoli metafora obbligata – quasi eccessiva – di ogni liberazione:

“La rivoluzione che quivi troverà non già la sua fine, bensì il suo inizio di organizzazione, non sarà una rivoluzione di breve respiro. L’attuale generazione assomiglia agli Ebrei che Mosé condusse attraverso il deserto. Non solo deve conquistare un nuovo mondo: deve perire per far posto agli uomini nati per un nuovo mondo.”
(Marx, 1948; questa citazione, come altre, è ripresa da Esodo e Rivoluzione di Michael Walzer, Feltrinelli 1986).

Il ricordo dell’Esodo non poteva non risucchiare il Living, diventando momento di riflessione collettiva,
occasione d’incontro e d’interpretazione. Non per ricordare una liberazione avvenuta – o meglio conquistata – una volta per sempre, ma per ricordare le possibilità, la necessità della liberazione: una liberazione
da conquistare ogni giorno.
Il rituale che precede la cena vera e propria si snoda per quasi due ore, e illustra minuziosamente le ragioni della celebrazione del Pesach, la Pasqua ebraica, secondo la tradizione rabbinica, ma la interpreta liberamente; e, quando è il caso, la critica e la corregge puntigliosamente. In omaggio alla parità dei sessi, l’Altissimo diventa “Uno Santo-Una Santa”. Nella forma aperta di questo rituale trovano un ruolo e una funzione, con tutta la loro efficacia poetica, alcuni brani dei Canti della Rivoluzione
di Julian Beck e l’intramontabile Urlo di Allen Ginsberg. E poi niente carne, perché di sangue al mondo ne è stato già sparso fin troppo:

“Siamo arrivati ad una migliore comprensione
del nostro rapporto con le altre creature di Dio
e ci sentiamo più vicini a loro
e non uccidiamo per mangiare”.

E se l’agnello è un simbolo veramente irrinunciabile, Judith ci ha portato una microscopica pecorella giocattolo, che mostra con convinzione e ironia al momento opportuno.
E, a differenza del vecchio rituale, sono rigorosamente proibite maledizioni e richieste di vendette. Il tutto debitamente illustrato e intervallato dai gesti previsti: abluzioni, piatti che vengono scoperti e poi nuovamente
coperti, bicchieri che vengono alzati, riempiti e così via. L’atmosfera è quotidiana, come dovesse essere una festa in famiglia, attraversata a volte da un brivido quasi solenne.

Partecipare a un’esperienza di questo genere suscita sempre reazioni contrastanti. C’è, per un non ebreo, la curiosità quasi antropologica di conoscere usi e costumi diversi, confrontando riti che sembrano magari
somigliarsi, ma che lasciano intravedere differenze e distinzioni profonde.
Ma c’è anche la sensazione di trovarsi come semplici spettatori di fronte a un evento che per altri ha in qualche modo un carattere sacro: il disagio quindi di sentirsi degli intrusi, di rubare qualcosa che non ci appartiene e che per altri ha un diverso valore. E tuttavia in questo caso rito e spettacolo finiscono inevitabilmente per confondersi: forse la differenza tra l’uno e l’altro è avvertita tra gli attori (o meglio, il coro che scandisce la liturgia) e gli spettatori, che rispondono con le loro azioni alle indicazioni e possono intervenire, magari citando a memoria un brano di Se questa è un uomo, in commosso
ricordo di Primo Levi. Perché quello che il Living costruisce non è ovviamente interpretabile – almeno non per tutti – come pura e semplice espressione di una religiosità. L’invito alla tolleranza
che anima ogni frase, ogni gesto, ha una portata più ampia: è rivolto – e coinvolge – tutti coloro che si siano radunati in questa occasione.

Affascina e respinge allo stesso modo anche il rapporto con la tradizione: reinventata, è vero, in modi certo nuovi, adattata agli ideali e alle esigenze dei Living. Ma con il rischio sempre presente che la morsa torni a chiudersi, che il fantasma ricompaia con tutte le sue vecchie catene. Ma anche questa è una lezione: impossibile ignorare le proprie radici, un conto sempre aperto, da aggiornare senza sosta. Per riprendere la bella
citazione di Benjamin che il Living ha voluto come epigrafe finale del “libretto” della serata: “Articolare storicamente il passato significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nel momento del pericolo”.

Affiora anche un’altra tradizione, quella del Living, con il suo stile entusiasticamente spontaneista, quell’alfabeto teatrale di base riscoperto dal gruppo e primo fondamento di molta pratica teatrale, quel gusto del godimento del corpo… È anche una testimonianza di un modo di essere che misura la distanza con gesti e parole che riportano a un passato non troppo lontano e si proiettano nella realtà attuale: troppo diversa,
certo, ma anche troppo uguale, nel riproporsi delle identiche ingiustizie.
Anche la tradizione del gruppo teatrale, per strane vie, ha dunque riconosciuto la necessità di sancire la propria esistenza condensandosi nella torma di un rituale: un rituale certamente da reinventare ogni volta, ma che trova il conforto dl gesti scanditi, della parola ritmata, di un sistema di regole precise in cui riconoscersi l’un l’altro.

Terminata la cena, come conclusione, un abbraccio totale che raccoglie tutti – o quasi – i partecipanti, all’unisono con un grande respiro. Un momento volutamente “magico”, cercato e costruito con cura e amore, chiamando
in causa sentimenti forse elementari e spesso accantonati, a realizzare per un attimo l’invocazione utopica lanciata nel corso della serata:

“Quando diventeremo il collettivo assoluto
saremo come sognatori
di un sogno
diventato realtà…”

Utopia, forse. Ma in qualche modo implicita nella “inestirpabile sovversione” (Bloch) della storta dell’Esodo. Sovversione ricordata ogni primavera e incessantemente rilanciata:

“Non sapete il digiuno che preferisce? desistere dalle inique trame, sciogliere i vincoli del giogo, mandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo” (Isaia 58:8)

Prima ancora, tuttavia, viene la pratica di una vera e propria “ecologia della mente” basata sulla tolleranza e sul rispetto dell’altro: un patrimonio di una cultura come quella ebraica che non conosce né dogmi né
eresie. Un patrimonio che il Living ha trasformato nella pratica di una non violenza attiva.




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