Ci vuol coraggio a diventare se stessi

Silvia Calderoni protagonista di MDLSX dei Motus a Santarcangelo

Pubblicato il 25/07/2015 / di / ateatro n. 155

Tra le novità interessanti viste quest’anno al Festival di Santarcangelo dei Teatri una riflessione la merita senz’altro lo spettacolo MDLSX dei Motus.
Le esperienze biografiche di Silvia Calderoni, connesse alla sua natura androgina, hanno spinto il gruppo riminese ad affrontare insieme all’attrice – che ne è parte da dieci anni – sul suo chiaro desiderio, il confine fra maschile e femminile. Un confine che permea tutta l’opera, un processo di scavo che in MDLSX diviene ritmato coming out di rara sperimentalità teatrale.
I motivi che stimolano l’attenzione per questo lavoro sono tanti, a cominciare dallo stupore che si prova quando ci si accorge che quello a cui si assiste non è quello che ci si aspettava. La sorpresa è scoprire che quanto portato in scena con generosità e bellezza da Silvia Calderoni non ha niente della retorica gender o transgender, tanto diffusa di questi tempi quanto ahimè necessaria, vista l’insopprimibile resistenza omofobica e sessuofobica con cui si deve ancora anacronisticamente fare i conti. Qui, nel teatrino della Collegiata, adiacente alla chiesa dedicata alla Beata Vergine del Rosario, la retorica gender è sgretolata sotto la sapienza drammaturgica con cui Daniela Nicolò e Silvia Calderoni catturano le ‘giuste’ parole e le tessono con tutti gli elementi dello spettacolo, orchestrati da Enrico Casagrande e dalla stessa Nicolò. E si sgretola anche sotto l’effetto dell’esplosione di energia che solo una profonda onestà e sincerità possono sprigionare.

Foto di Ilenia Caleo

foto di Ilenia Caleo

La sincerità a cui si assiste non è, banalmente, la vicenda personale della protagonista in scena; frammenti biografici che emergono a stralci nei filmini recuperati dall’archivio di famiglia e che ne ritraggono dapprima l’innocenza di bimba alle prese con il karaoke, poi l’adolescenza irrequieta. Video montati con immagini create ex novo e riprese che Silvia Calderoni fa di se stessa con una telecamera, in diretta durante l’azione sul palco, che hanno l’effetto di creare, proprio rispetto a questa azione attuale e reale, un contrappunto carico di energia. Un’energia esplosiva dettata ritmicamente dalla scansione musicale: un djset che, coerentemente alla passione dell’attrice, puntella traccia dopo traccia il susseguirsi delle scene, dei quadri che scorrono seguendo i tempi della sua metamorfosi. La musica si fa carne attraverso il corpo esposto con generosità in scena e ci riporta attraverso suoni, immagini e colori negli anni ottanta e novanta. E la metamorfosi fatta di personificazioni, vestimenti e svestimenti, è corredata da filmini di metamorfosi in natura, di piante e fiori che sbocciano nella bellezza delle forme in continuo mutamento.
Qui la vicenda personale è ‘più vera’ perché trasfigurata attraverso la finzione; sono le parole di Jeffrey Eugenides a mescolarsi a quelle di Silvia: in scena a offrirsi al pubblico è Cal, contrazione di Calderoni e Calliope, la protagonista di Middlesex, il romanzo di Eugenides. Saranno le origini greche dell’autore ma le figure del mito ricorrono nella narrazione a esplicitare la diversità: Apollo, Dioniso, Tiresia, Ermafrodito, Cassandra… che non sono semplici nomi, ma universali fantastici, costellazioni di senso di una cultura antica che non contempla discriminazioni sessuali, conosce l’ambiguità di genere e tiene insieme le differenze.

Foto di Claudio Penna

foto di Claudio Penna

E l’esito di questa trasfigurazione è fondamentale perché non si assiste a un riduttivo biografismo, alla piccolezza di un mero caso personalistico. Qui il personale, l’‘umano troppo umano’, da cui siamo subissati nella miseria dei programmi televisivi o nei social network, raggiunge, per amplificazione, le altezze dell’universale, e perciò è ‘più vero’ attraverso la finzione. In questo senso è valevole per tutti, è collettivo, è mitico e politico al tempo stesso, due dimensioni profondamente connesse a cui ogni forma di teatro in grado di parlare al mondo dovrebbe aspirare. È valevole per tutti nel senso che ciò a cui assistiamo non è tanto, o non è solo, la scoperta dell’identità (diversa perché rifiutata dalla società, dalla mentalità predominante) quanto il coraggio che ci vuole a diventare se stessi, e di fronte al quale conta poco se siamo femminili, maschili o un misto tra i due. E questo, nella riuscita o nel fallimento, riguarda, indistintamente, in maniera unica e irripetibile tutti.

Foto di Ilenia Caleo

foto di Ilenia Caleo

È l’”immagine innata” di cui parla James Hillman, ossia l’idea che, al di là delle dinamiche familiari e le predisposizioni genetiche, ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che richiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter esser vissuta. Perciò alla fine, di ritorno a casa, al padre che chiede se non sarebbe stato più facile rimanere com’era, Cal risponde “io sono sempre stato così”.
È l’immagine che chiama ciascuna vita a un destino, e per dipanare questa immagine, che abbiamo visto scorrere come un film sul palco di Santarcangelo, occorre appunto tutta la vita.




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