La Grecia di Robert Wilson

Odyssey in scena al Piccolo Teatro di Milano

Pubblicato il 13/10/2015 / di / ateatro n. 156

A distanza di due anni torna al Piccolo Teatro di Milano Robert Wilson con Odyssey. Una coraggiosa coproduzione del Teatro di Milano con il Teatro Nazionale di Grecia che ha debuttato nel 2012 ad Atene, in quella che, per quanto sembra dimenticato da tutti, è stata la culla della civiltà occidentale.
Bisogna avere coraggio a investire in un progetto che uno sguardo realista sul futuro avrebbe senz’altro bocciato come fallimentare, destinato a franare come sembra accadere, in questo frangente storico, a tutto quanto ha a che fare con la Grecia. Invece ha vinto lo sguardo incantato, la poesia che riscatta il reale dall’opacità del calcolo economico, dallo sguardo cieco di bellezza degli sciacalli della finanza. Sarà una magra consolazione… ma un qualche riscatto, la Grecia, attraverso questo spettacolo lo ha avuto.

Evi Fylaktou

Foto di Evi Fylaktou

È la creazione di un mago al servizio della fantasia come Wilson ad averne restituito un po’ di dignità con la messa in scena di un suo mito fondante. E non è un caso che Wilson sia un potente – nel senso artistico oltre che economico – americano. Forse solo da oltreoceano si poteva avere il giusto sguardo sulla Grecia, scavalcare le miserie e gli ottundimenti della vecchia Europa, per compiere un gesto artistico così importante e così inaspettatamente politico. Forse solo una cultura che è, o è stata, Impero come la Grecia duemilacinquecento anni fa, una cultura forte soprattutto del potere di produrre – nel bene e nel male – fantasie e miti, può restituire il valore della stessa potenza al Paese che è la fons et origo dell’Occidente. Apparentemente lo spettacolo non ha nulla di politico, come sembra valere per tutte le opere di Wilson. E però il suo ‘teatro mitico’, come spesso è stato definito, anche questa volta ha un impatto politico.
L’Ulisse, che vediamo in scena al Teatro Strehler, può risultare addirittura parodistico tanta è la leggerezza che Wilson ha dichiaratamente voluto insufflare nell’opera, per correggere un ricordo giovanile di pesantezza per una messa in scena di un’Odissea vista in Grecia. Si ride alle espressioni caricaturali dei personaggi, alle gag che intervallano i passaggi di scena; a volte sembra di entrare in un grande cartoon della Walt Disney, tanto forte è il magnetismo visivo delle scene o di personaggi che possono ricordare sequenze di Fantasia (1940) o Cenerentola (1950): dalla sfilata in serie di sagome nere che si stagliano sul fondo, ai guizzi civettuoli della serva di Penelope Euriclea. Altre volte sembra di riconoscere immagini che sono oramai icone consacrate del thesaurus immaginale collettivo: matrone patinate, stese di fianco su triclini che oltre a divinità greche ricordano pose della Dietrich; Ulisse con le fattezze da Discobolo, o con spalle rivolte al pubblico in posa da Viandante di Turner; fanciulle sdraiate accanto a un’aragosta che rimandano all’ultimo divertissement di Cattelan sui muri di Rimini; sirene con le fattezze da uccellacci che somigliano ai costumi piumati di Alexander McQueen…per ricordarne solo qualcuna.

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Foto di Evi Fylaktou

Le immagini, i miti della nostra cultura, sono incastonate nel mosaico sinfonico che Wilson costruisce con la scena, quella che – ce lo ha ma mostrato magistralmente nel ’76 con il capolavoro Einstein on the Beach – come lo spazio della relatività einsteniana, non è un contenitore vuoto, ma un tutt’uno di cui siamo parte, “un’immagine che agisce come una maschera nei confronti del testo”. E il testo, reso agile dall’intelligente adattamento di Simon Armitage, nel rispetto della natura epica del poema omerico, cattura il pubblico nel flusso della narrazione, trascinandolo più nella dolcezza e musicalità dei termini neogreci che nella comprensione del loro significato. La lingua in bocca alla compagnia ateniese scorre fluida come la musica di Theodoris Ekonomou che, al piano, in un ritaglio d’orchestra sotto il palco, ne detta la concertazione. Non servono a molto i sottotitoli, sarà che le 26 scene compongono quadri riconoscibilissimi di una storia sedimentata nella memoria collettiva ma, come sempre in Wilson, l’impatto è sinestetico, avvolgente e pervasivo, perché i suoi lavori sono partiture in cui gli elementi concorrono in egual misura a comporre un’opera d’arte totale, e tutti i sensi ne sono investiti. Il mito che vediamo dipanarsi nel complesso dell’opera – come ha visto bene Claude Lévy-Strauss nell’analisi tra il principio compositivo della musica e la struttura del mito –, si struttura allo stesso modo della partitura musicale. L’effetto è quindi fiabesco, si è parte della levità del tutto, delle emozioni che scaturiscono da quella che solo uno sguardo miope può giudicare come una composizione fredda o distaccata. Wilson è un mago delle emozioni ottenute per contrasti e sottrazioni, con la rifrazione simbolica delle ombre, il gioco agonale di luce e buio.

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Foto di Evi Fylaktou

Ci si sente quindi parte di tutto questo e però, allo stesso tempo, altrettanto forte è la sensazione della presenza delle immagini di altre odissee che i media, in questo periodo più di quanto sia accaduto due anni fa, ci trasmettono. Sono immagini fantasmatiche, non sono presenti in scena, non sono parte della poetica di Wilson ma emergono, in assenza, nella coscienza dello spettatore per contrasto rispetto a quanto si vede. Wilson ci restituisce il mito dell’eroe Ulisse che la società dominante ha elaborato nel corso delle epoche, ci fa vedere il ‘nostro Ulisse’, immagini rassicuranti e identitarie di prove iniziatiche, lotte con mostri, storie d’amore; Wilson mostra tutto quello che può ricondurre il pubblico, comodamente seduto nella platea del primo teatro stabile italiano, alle reminiscenze delle lezioni al liceo o dei filmati per la televisione. Ma le altre immagini, quelle dei migranti che muoiono per valicare le frontiere, dei migranti inghiottiti dal mare, le immagini che Wilson non sa, non può e non vuole mostrarci, sono troppo pervadenti la nostra quotidianità mediatica per non essere presenti – in absentia – a teatro. E non tanto ogni qual volta si veda a teatro l’Odissea, più o meno adattata al contesto contemporaneo, ma soprattutto quando in scena c’è un lavoro magistrale come quello di Wilson. Non mi stupisce allora di leggere nel libretto di sala il bel testo di Antonio Ferrari che sente letteralmente accanto a sé, vicini di poltrona a teatro, Aylan Kurdi, il bimbo annegato, la cui foto del corpicino riverso sulla spiaggia di Bodrum ha fatto il giro del mondo, Ahmed, il bambino guerriero in fuga da Aleppo, e Mah Gul, la ragazza afgana decapitata dalla famiglia per il suo rifiuto a prostituirsi.

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Foto di Evi Fylaktou

Il genio artistico così evidentemente percepito nel lavoro di Wilson, la grandezza dell’uomo che è tutt’uno con la capacità di creare, di plasmare fantasie in opere d’arte, ci parla anche della sua dignità, della sua identità da difendere e preservare. È quanto si coglie anche nell’ultimo film di Aleksandr Sokurov, Francofonia (2015), dove l’immagine eloquente, che fa da contrappunto alla bellezza delle opere d’arte raccolte al Louvre di una Parigi occupata dai nazisti, è quella di una nave cargo che affonda con un carico di opere inestimabili. Un’immagine sinistra perché tanto paurosamente vicina oggi ai naufragi di carichi umani che costellano le odissee dei migranti, e che fa da eco, di rimbalzo, alla distruzione delle opere d’arte da parte dei fondamentalisti islamici. È l’immagine dell’Europa alla deriva, evidentemente dimentica di sé, incapace di ritrovare la sua identità che ha radici profonde, nella capacità di produrre bellezza, di costruire mondi, la ricchezza che la Grecia ha consegnato al mondo.




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