Noi siamo qui di Lenka Lagronová nella mise-en-éspace di Clara Gebbia

L'autrice ceca a Roma per In Altre Parole, Festival internazionale di drammaturgia contemporanea

Pubblicato il 05/12/2015 / di / ateatro n. 156

Noi siamo qui

A Roma, tra il 27 ottobre e il 3 novembre 2015, si è svolta la decima edizione di In Altre Parole, Festival internazionale di drammaturgia contemporanea, organizzato dall’Associazione Culturale Platea e curato da Pino Tierno e Simone Trecca. Un pubblico italiano di specialisti e appassionati ha avito modo di confrontarsi con una panoramica delle migliori produzioni originali del teatro contemporaneo, in uno scambio culturale che ha atraversati i limiti nazionali, con testi di Lenka Lagronová, Hanoch Levin, Alberto Conejero, Giovanni Arpino, Michael Nathanson, Ignasi García Barba e i testi brevi della rassegna World Climate Change – Quanto Tempo Manca? per la sensibilizzazione ai cambiamenti climatici.

Il testo che ha aperto il festival, Noi siamo qui, adattamento a opera della regista Clara Gebbia dell’originale ceco di Lenka Lagronová Z prachu hvězd (Dalla polvere di stelle), ha già superato le cinquanta repliche al Teatro Nazionale di Praga (regia di Štěpán Pácl).
La struttura del breve testo è semplice, sintetica, quasi scarna;: poche voci si alternano e intrecciano nello spazio quotidiano di una cucina senza mai realmente toccarsi.
Tre sorelle, una madre, un vicino di casa, cinque solitudini che si avvicendano senza soluzione di continuità dibattendosi nei propri piccoli mondi individuali ed ermetici. Táňa e Dáša rievocano un amore perduto o mai realmente vissuto, comunque fallito, in una giustapposizione di monologhi che non diviene mai dialogo. Le figure maschili generate dalle loro mancate esperienze vanno a coincidere in una inquietante creatura bifronte, doppia espressione della stessa sostanza, di un uomo tanto fortemente desiderato quanto costantemente rifiutato.

Nel dibattito si inserisce una madre pragmatica e apparentemente anaffettiva, che rinfaccia il proprio vissuto alle figlie e alimenta lo stridente contrasto tra il distacco individualistico, suo vanto nei confronti della sua famiglia, e la profonda solitudine in cui vive.
Ad eccitare la quiete isterica della scena interviene il signor Jarda. Il nuovo vicino di casa si presenta timidamente alle donne, protetto da uno scudo di tartine meticolosamente preparate, offerte in segno di pace. Giunto solo per una visita, egli invece rimane e aggiunge la propria voce alla preesistente sovrapposizione delle altre.
Kája è probabilmente il personaggio più complesso della pièce. È la figlia più giovane, trascorre le sue giornate compiendo innumerevoli tentativi di contatto con una qualsiasi civiltà extraterrestre ma è paradossalmente affetta da sindrome di Asperger, una forma di autismo che le impedisce ogni contatto profondo con il prossimo. Effettua calcoli di probabilità per localizzare una stella simile alla nostra intorno alla quale possa ruotare un pianeta simile al nostro che sia abbastanza vicino da ricevere, prima o poi, i segnali che invia con la sua radio a transistor.
Kája perpetua l’interesse del padre defunto, suicida di cui lo spettatore non arriva a conoscere quasi nulla oltre una passione per lo spazio che rasenta i limiti della follia. In questo senso, la figura del padre arricchisce e completa il ritratto unitario di uomo-idea contenuto nella pièce. All’uomo superficialmente amico e amante mancato delle due sorelle maggiori si aggiunge la figura di un padre isolato nella propria inadeguatezza e distante dalla realtà e dalla famiglia fino all’atto estremo di fuga dalla vita. Kája è anche il ritmo del testo e della rappresentazione; il suo conto alla rovescia che inizia e termina con l’incipit e la fine della pièce e il suo ripetitivo e costante richiamo, “Qui Kája, qui Kája, mi sentite?” scandiscono gli interventi dei personaggi, costituiscono la componente fonica della sostanziale frammentarietà che il testo presenta.
Ognuno di loro, nella più o meno inconsapevole separatezza della propria vita dalle altre, compie i propri gesti rituali, ribadisce le proprie erronee convinzioni, persiste ineluttabilmente nella stasi opprimente della propria vita.
Finché non arriva una risposta dallo spazio.

Z prachu hvezd al Teatro Maznioonale di Praga: la locandina

La mise en éspace del 27 ottobre, nella sala Squarzina del Teatro Argentina, una forma aperta, non conclusa né definitiva, ben si adatta al testo, mantenendone le caratteristiche formali e accordandosi con la non definitezza nel contenuto. La recitazione di attori giovanissimi (oltre a Daniela Piperno nel ruolo della madre, e gli allievi Alessandra Cimino, Giulia Jacopino, Giulia Malavasi, Pietro Marone) dove nel testo originale sono presenti personaggi di mezza età non ha tolto nulla al significato della pièce, e a detta dell’autrice stessa ha offerto un punto di vista nuovo, un’altra possibile declinazione dei temi trattati dal testo.
L’impegno della regista e dramaturg si è focalizzato sulla resa dei molteplici contenuti esistenziali dell’opera: come sfondo un universo freddo e buio regolato dalla dogmatica equazione di Drake, universo dove si verifica una continua oscillazione tra la lontananza e la prossimità rispetto tanto alle creature extraterrestri quanto al proprio vicino di casa o alla propria figlia o sorella.
È volutamente privilegiata, insieme alla costante della incapacità di comunicare, la descrizione di un’altra ferita del nostro presente, la tolleranza, che sembra essere sempre inversamente proporzionale alla vicinanza di chi dobbiamo tollerare.

Il testo si apre così a una molteplicità di interpretazioni e questioni: la possibilità di accettare l’Altro, sia esso incarnato in un extraterrestre o nel nostro vicino di casa, in una fede o una cultura diverse dalla propria, il rifiuto dell’altro, del nuovo, del cambiamento, l’inevitabilità della solitudine fino all’autodistruzione, o invece, finalmente, la possibilità di sopportare, accettare, comunicare e infine riuscire a condividere.
Il testo ceco era stato letto e analizzato dagli studenti di boemistica della Sapiebnzam, che ne hanno studiato anche le caratteristiche linguistiche. La mise en éspace del 27 ottobre è stata seguita, il giorno successivo, dal seminario tenutosi presso il Dipartimento di Slavistica dell’Università La Sapienza di Roma, a Villa Mirafiori (curato da chi scrive), con il dialogo tra Lenka Lagronová e Clara Gebbia coordinato da Annalisa Cosentino e reso possibile grazie all’interpretariato di Lucia Casadei.

Lenka Lagranova

Lenka Lagronová ha studiato storia dell’arte a Brno e poi drammaturgia alla DAMU di Praga, formandosi come ‘dramaturg’. Durante gli studi alla DAMU ha cominciato a scrivere testi per il teatro che hanno quasi immediatamente riscosso successo; le sue opere sono state messe in scena su territorio nazionale dal 1988, negli anni Novanta ha collaborato con il regista Petr Lébl, una delle personalità più incisive del teatro ceco di fine Novecento. Nel 1997 ha vinto il premio Alfréd Radok per la sua pièce Terezka (Terezka), l’opera radiofonica Vstaň, prosím tě (Alzati, per favore) è stata premiata dalla Radio ceca nel 1999 e nel 2002 (Prix Bohemia); ha partecipato a numerosi Festival in Repubblica Ceca e in Slovacchia e i suoi testi continuano ad essere messi in scena in patria e all’estero.
Come molti tra i più rilevanti autori europei per il teatro, Lenka Lagronová è sensibile alle tematiche del presente; la condizione e il ruolo della donna nella civiltà contemporanea, la riflessione sulla storia, la solitudine, la comunicazione e l’incomunicabilità, fino alla condizione esistenziale dell’uomo, sono argomenti che sente vicini e pressanti, e dei quali scrive talvolta osservandoli attraverso una lente autobiografica.




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