Massa e potere di Claudio Collovà da Elias Canetti

La porta, la scarica e il gatto di Michel

Pubblicato il 09/12/2015 / di / ateatro n. 156

Uno specchio che non riflette è anche una porta, è elemento verticale, è quindi altare e skené posto al centro della sacralità, equilibrato elemento, ruotato e basculante, talvolta si apre ed è ciò che sovrasta la centralità del palcoscenico. Un attore, seduto davanti a questo imponente oggetto scenico, dà le spalle al pubblico e indossa un cappello: è Claudio Collovà attore e sacerdote, regista e demiurgo. Un indice verso, talvolta il palmo di una mano scandisce il tempo scenico, un tempo però cristallino che si dilata in modo mai causale, piuttosto ciclico semmai.  In scena con Collovà infatti troviamo ventitré attori e tre fantocci che animano un cerchio temporale scenico che emana una verità presente nell’istante, rivelazione teatrale esteticamente raffinata e politicamente urgente. È questa la riedizione di Massa e Potere da Elias Canetti, progetto del 2010, di nuovo allestito, dopo il debutto alle Orestiadi di Gibellina, con la collaborazione dell’omonima Fondazione e grazie alla produzione del Teatro Mediterraneo Occupato.
Meritevole e decisiva è la determinazione intrapresa per la ripresa di uno spettacolo tratto da una opera come Massa e potere, in un tempo come quello che viviamo, in cui terrorismo e potere agiscono con efficacia, grazie alla energia della collettività. Claudio Collovà, drammaturgo artigiano e sensibile artista apprezzato e prodotto in ambito internazionale, intraprende uno studio nuovo per un allestimento prodotto dai giovani di uno spazio negato, quello del Teatro Mediterraneo Occupato di Palermo, sua città d’appartenenza. L’accesso a questo palcoscenico d’eccezione è annunciato da un gigantografico ritratto di Franco Scaldati su una delle pareti, antistanti lo spazio teatrale: è  indubbiamente un appropriato invito a lasciare fuori dal luogo ogni impertinente banalità.
Nel 1960 Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981, pubblica Massa e potere (Masse und Macht), una opera politica, ma anche sociologica e culturale, e molto altro ancora, per questo di difficile classificazione in un genere saggistico o (anche azzardiamo) poetico. Canetti, molteplice curioso scrittore, appena ventenne decide di prendere le distanze dal concetto di “massa” e di cominciare a decodificare un fenomeno,  lasciandosi disgustare da un saggio già scritto sul tema, dal titolo Psicologia delle masse e analisi dell’io di Sigmund Freud. A differenza del testo di Psicologia delle folle di Gustave Le Bon – da Canetti considerato invece un esauriente testo sulla descrizione del concetto di massa, sebbene anch’esso intriso di un giudizio negativo nei confronti di questa grandezza collettiva – Freud sembra temere la massa, per Canetti invece essa rappresenta qualcosa a cui ambire, un contagio a cui aspirare, per divenire parte di una “metamorfosi”. Collovà ci racconta questa metamorfosi e ci fa assistere alla sua interpretazione del concetto di “scarica”.

“Nella scarica si gettano le divisioni e tutti – rivela Canetti – si sentono uguali. In quella densità, in cui i corpi si accalcano e fra essi quasi non c’è spazio, ciascuno è vicino all’altro come a se stesso. Enorme è il sollievo che ne deriva. È in virtù di questo istante di felicità, in cui nessuno è di più, nes­suno è meglio d’un altro, che gli uomini diventano massa. Ma l’istante della scarica, tanto agognato e tanto feli­ce, porta in sé un particolare pericolo. È viziato da un’il­lusione di fondo: gli uomini che d’improvviso si sentono uguali, non sono divenuti veramente e per sempre ugua­li.”

Questa presunta uguaglianza è resa in scena in vari momenti ma la sua esatta descrizione, non solo per cenni, avviene in due momenti ben precisi in cui gli attori avanzano in proscenio apparentemente accalcati tra i loro corpi, ed ecco che cominciano a cantare dapprima sottovoce e poi a voce sostenuta due brani, uno alla volta e in momenti separati. La mère Michel, brano francese del XVII secolo, o più esattamente filastrocca per bambini, di cui esiste anche un racconto dei primi del Novecento, parla di una donna che ha perduto il suo gatto, di cui si prende gioco un uomo che passa sotto la sua finestra mentre lei lo urla e promette baci come ricompensa. Questo testo viene cantato dagli attori fino a quando un gesto delle loro mani non li obbligherà a chiudere le palpebre, ma non per morire o accasciarsi, semplicemente per divenire come degli zombie che indietreggiando tremanti e ciechi, un po’ come i ballerini dell’ultimo video di David Bowie (Blackstar, 2015 n.d.r.), scandiranno con passi veloci e concitati gli orologi umani che sono diventati, incarnando l’idea di “scarica” di cui si diceva, uscendo in fila dalla porta che sovrasta il centro della scena. Oltre a evocare un’ambientazione giocosa questo testo ci fa pensare alla concezione di “potere” così come essa viene descritta da Canetti, usando la metafora del potere del gatto sul topo, un esercizio di dominio psicologico più che fisico. Non è quindi un caso che i corpi ordinatamente disposti in proscenio abbiano bocche spalancate, come per mangiare avidamente o come nell’atto di una mostruosa smorfia degna di un deformante sorriso da selfie. Le note di Einstein on the Beach composte da Philip Glass per Robert Wilson recano senso alla potenza evocate da esatte coreografie. I movimenti degli attori talvolta rallentati, talaltra troppo concitati, descrivono una idea fuori dalla massa, mentre un attore agita un palmo quasi per caso come per afferrare un pensiero, dirigendolo dalla parte opposta rispetto agli altri tanti in scena. Ma presto tutti cominceranno a dirigere segni con le mani, come fossero sordi, ma la lingua che segnano non è quella italiana. Di italiano in effetti ci sarà solo l’aiuto spezzato invocato nell’unica e ultima breve frase pronunciata prima della fine dello spettacolo.

La Libertà di Eugène Delacroix ritrae lo stesso pittore con un cappello e ci sembra che nel dipinto umano tracciato da Collovà, il suo stare sulla scena, corrisponda e concordi con l’autoritratto voluto da Delacroix, collocatosi anche lui dalla stessa parte del quadro scenico, per buona parte della durata dello spettacolo, ovvero sulla sinistra rispetto alla visuale dello spettatore, anche lui con un cappello. Il pittore francese però imbraccia un fucile, a differenza di Collovà che usa le sue mani. Esse scandiscono ciò che avviene e ordinano l’apparente informale umanità che grava sulla scena con elegante sgomento. Inoltre Collovà sta al centro di questa metaforica porta (simbolo di “libertà”?) all’inizio della pièce e si identifica con essa e la domina. Le luci che disegnano la sagoma di Collovà evocano talvolta il gioco d’ombre di Orson Welles nel Terzo uomo di Carol Reed, altre volte ci sembra di stare dentro un teatro di posa mentre si sta girando Metropolis di Fritz Lang. Tuttavia qui si sta descrivendo Elias Canetti e un dato che mai sfugge è la forza della massa, in questo caso attoriale, che non viene indebolita se non da un’aggressione esterna, ed è per questo che ogni volta che un attore cade o sembra fermarsi, un altro lo soccorre rialzandolo o lo accompagna perché continui il suo percorso, fatto di distanze e direzioni nello spazio, con abiti diversi ma con un unico drappo rosso che ne identifichi l’unità e molto altro che non occorre raccontare in questa sede. Il modo in cui si apre lo spettacolo, che merita di essere visto e rivisto per leggere dentro di esso sempre nuove modalità di godimento estetico e civile, attraverso video e sipari di luce abbattuti dall’alto come strappi, ci ricorda che non solo per Canetti “la mano” è simbolo di potere e “quando il ramo si spezza nella mano, nasce il bastone”.  I bastoni usati da questi attori sono protesi, dapprima imitano gli animali e poi divengono esseri umani dotati di potere, i bastoni possono trafiggere o divenire croci in un cimitero di vivi, condannati all’esistenza.
È probabile che questa massa descritta da Collovà abbia occhi di opale come quelli della femme fatale “che fu fatale”, cantati nel secondo brano che precede una seconda “scarica”, ma che potrebbe essere stata anche la prima, il tempo come si accennava non è importante, si vive l’istante in scena e lo si ripete ossessivamente anche simulando un pasto o correndo intorno a un cadavere fantoccio, maldestramente e con molti ritardi perché spesso il fazzolettone bianco su cui si piange capita che cada e necessita di essere raccolto, cadono con esso anche i pezzi del corpo del finto morto. Così come in un tourbillon de la vie anche per gli odierni Jules e Jim spettatori di questo spettacolo, potrebbe forse valere il consiglio del barocco Händel: Lascia la spina cogli la rosa, filosofia di vita che ben si sposava ai tempi rivoluzionari di Canetti, ma anche alle vite dei due protagonisti che danno il titolo con i loro nomi a un film di François Truffaut, suo contemporaneo. Per lo spettatore del 2015 potrebbe di certo valere questa esortazione, ma anche una di quelle sempre attuali con cui si apre questo lavoro di Collovà e che Canetti ben descrive: “nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi”. Dietro gli attori e il regista che nella loro umana nudità danno le spalle e si svelano come interpreti, l’ignoto siamo noi spettatori, rivelati a noi stessi.

Visto al TMO di Palermo il 4 dicembre 2015.
Dal 13 al 18 dicembre in replica a Napoli, L’Asilo.




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