Potenza e atto del teatro. Gabbiano per la regia di Carmelo Rifici

Pubblicato il 01/02/2016 / di / ateatro n. 157

Non vi sarebbe il gabbiano se non vi fosse il lago. Il testo complesso e vorticoso che Cechov intitolò al primo, con tutto il suo ampio spettro di significati simbolici, trova respiro profondo e inquieto nel secondo, nel suo riverberare misterioso. Con un’intensità direttamente proporzionale alla loro temperatura emotiva, tutti i personaggi sono mossi dal lago, ne sono attratti o respinti, ammaliati o infastiditi. Andare aldilà delle convenzionali betulle delle vecchie messinscene per indicarne il senso vuol dire fare i conti con la sua presenza pervasiva e sfuggente, buco nero dell’anima e specchio dei moti interiori: «Questo parlare sempre d’amore… è il lago che vi strega», dice infatti azzardando una diagnosi collettiva il dottor Dorn, l’unico ironicamente disincantato, che osserva e commenta eventi e personaggi e nel quale non è difficile riconoscere un doppio dello stesso Cechov, scrittore e medico (non a caso Luca Ronconi se ne fece interprete quando, nel 2009, mise in scena l’opera con il pudico titolo di Un altro gabbiano). Se il gabbiano è dunque tensione all’arte – urgenza, desiderio o velleità – non sarà che il lago e il teatro sono in Cechov la stessa cosa?

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Se l’è chiesto Carmelo Rifici affrontando il capolavoro russo per LuganoInScena (l’abbiamo visto al Goldoni di Venezia) e risolvendo l’equivalenza con un’operazione che mette in luce l’alienazione dei personaggi, ossessionati dalla rappresentazione di sé sul palcoscenico della vita. Ma una vita vissuta come da “addormentati” e perciò sempre risucchiata verso il basso, la meschinità, l’opportunismo. Il lago rimanda l’immagine della piccolezza di tutti i personaggi, prigionieri delle loro false triangolazioni amorose (nell’opera, tagliava corto Cechov, ci sono «un sacco di parole sulla letteratura, poca azione, cinque tonnellate di amore») e dei loro tentativi di esistere: il giovane Konstantin che scrive un dramma sull’anima universale; sua madre Irina, attrice affermata, che ne tarpa gli slanci accusandolo di decadentismo e immaturità; la giovane aspirante attrice Nina, di cui è follemente innamorato Kostantin ma che viene sedotta da Trigorin, scrittore di successo, il quale però ha una relazione con Irina; la dura Mascia, che ha un figlio con Medvedenko ma è disperatamente innamorata di Kostantin… Tutti si affannano a «costruire romanzi sulla propria vita» per poi doversi scontrare con la realtà. Tutti vorrebbero vivere una vita che non è la loro e ognuno potrebbe far propria la definizione che il vecchio Sorin, fratello di Irina, dà di se stesso: «L’homme qui a voulu»: «In gioventù avrei voluto diventare uno scrittore, e non ci sono riuscito; avrei voluto essere un buon parlatore, e parlo in modo spaventoso, […] avrei voluto sposarmi, e non mi sono sposato; avrei voluto stare sempre in città e finisco la mia vita in campagna, ecco tutto».

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Eimuntas Nekrosius, nella sua forte rilettura del 2000, cercò di avvicinare il più possibile questo lago-teatro al pubblico, quasi di farlo toccare agli spettatori con quei secchi portati dagli attori fino al proscenio. Nel Gabbiano firmato di Rifici il lago sembra invece restare non detto, non rappresentato, ma è proprio perché l’identificazione tra lago e teatro trasforma l’intero palcoscenico in uno specchio lacustre sul quale si riflette e si depotenzia (Guy Debord direbbe s’allontana nella rappresentazione) la spinta ideale di ciascun personaggio. Tutta l’opera quindi, e non solo il frammento dell’opera di Kostantin interpretato da Nina, diventa teatro nel teatro, mentre l’agile scenografia di Margherita Palli asseconda la mise en abîme con un fondale rosso di onde al tramonto, che a tratti sembra entrare scena come un’alta marea, e praticabili che sono di volta in volta palco, tavoli, passerelle sul lago.

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Quanto agli attori, verrebbe da riprendere una battuta dallo stesso Gabbiano: «I grandi talenti sono pochi, ma l’attore medio è migliorato». Perché tutti gli interpreti assolvono discretamente il loro compito, senza tuttavia slanci apprezzabili, se si escludono le estroversioni di Anahì Traversi nei panni di una Nina che nella prima parte è un po’ una Lolita e alla fine si avvolge nei drappi rossi neanche fosse Sarah Bernhardt ritratta da Nadar. Debole il Kostantin di Emiliano Masala, che diventa isterico nei dialoghi con la madre, evanescente e immaturo in quelli con Nina. Poco credibile la Mascia dark di Mariangela Granelli. La presenza più interessante è quella di Fausto Russo Alesi, non tanto per la qualità del suo cinico Trigorin quanto perché, incarnando qui lo scrittore di successo, dà vita all’altra faccia (l’altra età) del giovane scrittore, ovvero di quel ruolo che l’attore ben conosce per averlo interpretato nell’allestimento di Nekrosius. Trigorin è in atto ciò che Kostantin è in potenza, è ciò che il giovane diventerebbe se non scegliesse di sottrarvisi con il suicidio.

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Ma Alesi-Trigorin è oggi anche il compimento artistico dell’Alesi-Kostantin che è stato. E su questa relazione, sul fatto cioè che i due personaggi sono due versanti temporali di una medesima figura esistenziale (potenza e atto del teatro), insiste la regia di Rifici. Così quando Kostantin giunge alla sconsolante conclusione: «Ho tanto parlato di forme nuove e adesso mi rendo conto che scivolo anch’io nelle convenzioni», la frase viene ripetuta anche da Trigorin; quando l’aspirante drammaturgo, prima di spararsi, uccide Nina strozzandola (ed è l’unica vera forzatura del regista all’inconscio testuale), anche lo scrittore affermato prende per il collo il gabbiano impagliato rimasto lì ad attenderlo dalla sua prima visita alla casa sul lago. Come se Cechov avesse voluto mostrarci contemporaneamente le due scelte possibili dello stesso personaggio. Nessun volo, in ogni caso. Forse perché anche lo spirito, come ricorda l’umile Medvedenko, è fatto di materia.




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