#BP2016 | Multi o transdisciplinarietà? Non è una questione di gender

I circuiti, i giovani, il multidisciplinare

Pubblicato il 29/02/2016 / di / ateatro n. #BP2016 , 157 , Passioni e saperi

Non voglio entrare nei gangli dei tecnicismi perché credo si sia detto molto, forse troppo, in questi mesi, e cito il davvero ben fatto dossier di “Hystrio”, le lucide riflessioni di Porcheddu, di De Capitani, e della stessa Commissione Prosa.
Mi interessa qui addentrarmi in una riflessione sui contenuti, visto che i meccanismi sono stati già sufficientemente sviscerati.
La multidisciplinarietà è senz’altro un’opportunità, prima di tutto perché ti impone di ripensare e di riconsiderare quello che fai in maniera più ampia; già solo riflettere sugli obiettivi a media distanza, anziché all’indomani per ieri, è un esercizio da vedere di buon grado.
Cosa vuol dire “multidisciplinaretà”? Davvero stiamo parlando di una parcellizzazione di generi dello spettacolo? Generi? dobbiamo riallenarci alla memoria lunga.
Il teatro nasce multidisciplinare. Come è cominciato tutto questo? Diceva Calasso… 2500 anni fa i generi si mescolavano tra loro, in una unione che riusciva a fare vibrare all’unisono tutte le corde dell’emotività.
Per questo non è una questione di gender, per questo (anche se è cacofonico) mi piace di più il concetto di transdisciplinarietà, che non è termine statico, ma suggerisce un passaggio, un attraversamento. Un meticciato artistico, che potrebbe fare pensare ad una nuova concezione della scena contemporanea. Oltre il genere, dentro i generi: significa riconnettersi con la pratica della democrazia, anche in campo artistico, soprattutto in campo artistico. E’ una questione di linguaggi scenici che devono rimettersi a dialogare tra loro. Si tratta di ripensare ad una estetica teatrale, di guardare oltre, di allargare le griglie per approdare a creazioni artistiche che utilizzano più linguaggi scenici in maniera trasversale. Significa ampliare l’offerta e la circolazione delle opere.
Quindi è chiaro che non è esaustivo riconoscere i 3 o 4 linguaggi per numeri percentuali (per chi non lo sapesse 70% disciplina prevalente e 30% le altre… significa per noi 154 recite di prosa, 33 di danza e 33 di musica: e se si facesse la 4° disciplina? non è al momento contemplato dal decreto).
Ma in un decreto che è “amministrativo”, in questa prima fase, forse, non si poteva fare altrimenti, per la tutela della sussistenza dei minimi numerici. Sono altrettanto persuasa che la griglia numerica, in futuro, andrà superata, altrimenti si perderà il senso vero di questa esigenza di trasversalità artistica.
Opportunità: noi abbiamo dovuto operare per una ulteriore ricognizione dell’offerta e della domanda culturale in toscana. E la toscana è ricca e fervida di iniziative culturali e musicali. Ci siamo accorti che soprattutto in estate l’offerta musicale è amplissima, borghi, chiostri, piazze (chi più ne ha più ne metta) pervasi ovunque da concerti di ogni tipologia, spesso gratuiti. Quindi inserirsi in questa selva non è stata impresa facile. Ma abbiamo anche imparato, che d’estate, in alcune località, ai confini dell’offerta turistica, la musica poteva essere veicolo prezioso di coinvolgimento turistico, laddove Pirandello o Fibre Parallele, Giselle o Giulio d’Anna, poco avrebbero incuriosito platee di famiglie in vacanza, molte straniere. Abbiamo re-imparato che la musica abbatte i confini linguistici e riesce a coinvolgere anche i molti turisti che animano la toscana.
Ma d’inverno, come le cicale, quel suono diffuso un po’ si spegneva.
Allora abbiamo operato per una rinnovata analisi di contesto dei territori “ripensando” al nostro ruolo di raccordo. E’ stato importante concentrarsi su un rinnovato processo di autovalutazione delle nostre funzioni istituzionali e questo è stato fonte di idee e suggestioni per sperimentare meccanismi innovativi.
Abbiamo cercato di capire dove non era presente offerta musicale e da lì abbiamo ricominciato: programmando concerti da camera in piccoli teatri che non avevano risorse per programmare concerti di grandi organici musicali o musica contemporanea dove la consueta offerta culturale era incentrata su proposte tradizionali. Abbiamo cercato di integrare e non sovrapporre.
Così abbiamo inaugurato le attività musicali con un importante progetto: “Rinnovati ai Rinnovati”, il Teatro dei Rinnovati di Siena, per chi non lo conoscesse, all’interno del Palazzo Comunale, è uno dei teatri più belli del mondo ma, come ha detto qualche settimana fa Celestini, “non si capisce bene se è un teatro o un museo” (ed è un teatro di 600 posti). La stessa percezione ce la hanno gli oltre 10.000 studenti fuori sede che abitano la città: abbiamo ideato, con la complicità dell’ufficio per la cittadinanza studentesca dell’Università di Siena, una rassegna musicale specificatamente dedicata ai giovani. Con Dario Brunori (peraltro ex studente dello stesso ateneo senese) ad inaugurarla e, tra gli altri, il rapper d’ispirazione letteraria Murubutu fondatore del collettivo reggiano La Kattiveria, a continuarla.
E’ stata una scommessa vinta. Oltre 200 giovani hanno sottoscritto un abbonamento a 6 concerti (e i giovani, si sa, non amano l’abbonamento, non corrisponde al precariato esistenziale nel quale sono immersi) e abbiamo avuto una media presenze di oltre 300 giovani (con picchi di 500 presenze) che per la prima volta entravano in quel teatro, intimoriti dalla sua aulicità. Abbiamo “spostato” il teatro, lo abbiamo avvicinato ai giovani. Queste sono opportunità.
Ma ci sono delle zone d’ombra per quanto riguarda le attività musicali.
A cominciare dalle modalità operative. E’ stato molto complicato “accordare gli strumenti”, con gli operatori musicali, che sono per lo più “privati”. Spiegare loro che il pagamento anticipato per le istituzioni a funzione pubblica è impossibile, non è impresa facile. Mi sono trovata a discutere animatamente con un aspirante partner: ipotizzava che qualora avessi avuto un contributo aggiuntivo dal Mibact per la musica avrei dovuto darne una percentuale a lui, e non è stato facile fargli capire che i fondi pubblici non si possono cedere a terzi, non sono utili; allora ci ha provato con le esigue risorse dei Comuni, dimentico di quanto gli avevo appena detto sul Mibact, e infine ci ha provato con gli incassi, e gli ho spiegato che quelli li condividiamo con i comuni per coprire una minima parte dei costi artistici/organizzativi. Abbiamo capito entrambi che era meglio parlare di un concerto per volta con un compenso prestabilito. Ora andiamo d’accordissimo.
Questo per spiegare che i meccanismi organizzativi delle imprese musicali sono assai difformi da quelle dei circuiti per modalità, tempi e contrattualistica, ma impareremo a conoscerci.
E poi le risorse. Grande è stata la sorpresa quando a fronte di un considerevole impegno economico aggiuntivo (circa 200.000euro) per realizzare le attività musicali e un’ottima valutazione alfa numerica, il Mibact non ha riconosciuto a FTS un euro in più, anzi 5.000 circa in meno rispetto al 2014.
Perché? Le risorse aggiuntive destinate ai circuiti multidisciplinari sono state quasi inesistenti e non sono state sufficienti ad assorbire le necessità economiche di due importanti circuiti in più.
Per aggiungere offerta musicale di qualità servono risorse adeguate. E’ necessario un sostegno concreto e proporzionato all’investimento perché non le possiamo attingere dagli enti locali, già in crisi, e tantomeno dai cittadini, ancora più in difficoltà. Altrimenti ci troveremmo costretti a programmare Pelù, Nannini, Jovanotti (per citare artisti toscani). Nulla in contrario ma non hanno, appunto, bisogno del sostegno pubblico. In mancanza di risorse possiamo solo fare distribuzione e non riusciamo a fare educazione alla musica, e in mancanza di educazione alla musica possiamo solo distribuire chi non ha bisogno di essere promosso e sostenuto.
E’ una contraddizione che, qualora fosse reiterata nel 2016, sarebbe destinata a mettere in crisi anche il sistema produttivo per i suoi stretti legami con i circuiti distributivi e che ci costringerebbe a contrarre, anziché ampliare le opportunità distributive.
Ma noi abbiamo un’altra funzione. Nonostante ciò che pensino taluni di alcuni – se non di tutti – noi circuiti, noi non siamo solo dispenser di borderaux e cachet. Dobbiamo porci con i territori da fautori di un pensiero teatrale, è la nostra vocazione istituzionale; ma ce lo chiedono gli stessi territori, che da soli non hanno risorse economiche e umane per attivare progetti educativi e formativi.
Progetti di promozione e formazione del pubblico, appunto. Ricambio generazionale, appunto. Che è la fatica più grande, la più invisibile, non indicizzabile, non quantificabile.
In questo senso non ci è ancora chiaro come utilizzare il nuovo dispositivo musicale, che peraltro ci appassiona perché, per citare Ezio Bosso a Sanremo, la musica ti insegna la cosa più importante: ascoltare.

Patrizia Coletta B.P. 27 febbraio 2016




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