A Palermo il Minimo Teatro Festival 2016

La rassegna di corti teatrali organizzata dal Piccolo Teatro Patafisico

Pubblicato il 29/03/2016 / di / ateatro n. 158

MTF_2016_web Il Minimo Teatro Festival, iniziativa palermitana dedicata ai corti di teatro, ha portato in scena tra il 18 e il 20 marzo undici spettacoli selezionati da una giuria, tra le cinquanta proposte arrivate da tutta Italia, per concorrere alla votazione finale, così da confrontarsi anche davanti a un pubblico: gli spettatori hanno premiato Ori et kami di e con Sabrina Vicari. Non si può non essere d’accordo con la giuria popolare, che ha fatto trionfare il teatro fisico e la danza. Più deboli si sono mostrati gli spettacoli che hanno inteso esibire micro narrazioni, nel filone di un teatro di parola forse oggi poco adatto o appartenente agli under 35 dei giorni nostri, a cui in realtà si rivolge il festival.
Sappiamo che il teatro non è un hobby, ma molti tra i candidati erano attori o registi che non fanno del teatro il loro lavoro principale: è tra loro, e non tra i professionisti, che non a caso si sono ravvisate inevitabili carenze da teatro amatoriale o una comicità più adatta a un pubblico televisivo da sabato sera, piuttosto che a quello abituato alla drammaturgia contemporanea. Nei giorni del festival i locali del Patafisico hanno anche ospitato un workshop di butoh, tenuto dalla coreografa e regista Marie-Gabrielle Rotie e dal compositore Nick Parkin, entrambi docenti della Goldsmith University di Londra.
A ideare la kermesse è stato il Piccolo Teatro Patafisico, che ha sede nell’ex manicomio di Palermo, in collaborazione con M’Arte, il Teatro Libero Incontroazione di Palermo e diARia; la giuria era formata dalle tre organizzatrici del Patafisico, che collaborano con diARia, affiancate da Giuseppe Cutino e Sabrina Petyx di M’Arte; da Luca Mazzone del Teatro Libero; e dai critici teatrali Claudia Cannella e Roberto Giambrone.
La giuria ha decretato vincitori della sesta edizione 2016 il milanese Lorenzo Covello e il palermitano Quinzio Quiescenti con Una vita a matita; oltre ad aggiudicarsi un contributo per la produzione, vedranno la loro opera presente nella prossima stagione del Teatro Libero di Palermo. Si tratta di una brillante dimostrazione di professionalità attoriale, ma anche acrobatica, mimica e circense. Il testo è intriso di tematiche anticrisi, dapprima spiegate da una voce femminile registrata, mentre sul palco troviamo i due autori-attori in tuta da operai o da tecnici, illuminati da una luce a led. Il pretesto del dramma sono le feste di compleanno e l’angosciante attesa che le caratterizza. I temi presi in esame in questo primo studio, su cui in seguito giocheranno con le parole e con i loro corpi i due performer, sono i pop corn, la lingua di Menelik e le candeline, oggetti questi tra i personaggi con cui l’intrattenimento ha luogo sul palcoscenico. Per esagerare la plausibilità grottesca della ricerca surreale dei due ricercatori, Covello e Quiescenti provano per qualche minuto a far scoppiettare un chicco di mais su un cucchiaino riscaldandolo con una serie di accendini, ma senza successo. Sembra infatti che questa prima trovata “sensoriale” non sempre riesca, anche se il profumo di pop corn si diffonde rapidamente nella sala. I venti minuti della “vita a matita” evocata nel titolo hanno strappato molteplici applausi e risate. Abbiamo chiesto loro da dove nascesse questa idea, sperando che avessero voluto focalizzare l’attenzione anche sulla precarietà della ricerca italiana, così da renderla in scena non un vero mestiere ma appunto una sorta di paradossale gioco per freaks. “Abbiamo ragionato sulla idea di compleanno”, racconta Quiescenzi, “che in effetti compiamo entrambi nella seconda settimana di marzo (pochissimi giorni prima del festival che hanno vinto, ndr). Siamo vestiti di bianco perché i ricercatori nel nostro immaginario indossano un camice; noi però ci consideriamo artigiani e operai, quindi al camice abbiamo voluto sostituire delle tute da lavoro, per interpretarli”.

Quinzio Quiescenti e Lorenzo Covello

Quinzio Quiescenti e Lorenzo Covello

Ori et kami, andato in scena il 20 marzo nella giornata conclusiva, presenta intelligenti immagini politiche, come le banconote usate per respirare da uno dei molteplici personaggi interpretati in appena dieci minuti, o come la rievocazione di una odierna Coppelia, animata dal suono di un sorriso e dedita al riciclo della carta, che regala delicate movenze e una raffinata interpretazione mimica. La Vicari peraltro è stata in scena nei primi due giorni del festival, sempre a Palermo, ma al Teatro alla Guilla, con Car-ta, dando voce al suono di varie tipologie di carta movimentate dal suo corpo da danzatrice.
È ancora la danza e anche questa volta proveniente da Palermo, come per Vicari, a lasciare un segno suggestivo e metafisicamente ragionato sulla scena, la prima sera, il 18 marzo. Studio a tre ombre di e con Federica Aloisio, Federica Marullo e Gisella Vitrano, agendo su somiglianze e simmetrie, concede un uso autentico del tempo teatrale, non temendone il consumo. Le tre attrici indossano scarpette rosse, evocando la bambina protagonista del Mago di Oz, ma anche “protestando nel segno di una non accettazione della piaga del femminicidio”, ci racconta Vitrano. Troviamo anche la ricerca di Alice attraverso specchi creati da panni stesi e un risveglio multi prospettico e tridimensionale, dato dai tre corpi posizionati esattamente così da formare un cubo umano dilatato sulla scena, così da interrogare lo spettatore su ragioni legate alla fisica, al tempo, allo spazio, una interessante trovata volta a descrivere la condizione comica dell’essere donna.
Infine segnaliamo dalla seconda delle tre giornate di festival il corto di Antonio Grimaldi del Teatro Grimaldello, autore di Puttana e basta con Elvira Buonocore e Alessandro Gioia. La coraggiosa messinscena esibisce i corpi dei due attori, presumibilmente una coppia di amanti, ma potrebbe trattarsi anche di una madre e di un figlio, perché no? La breve ma intensa drammaturgia è caratterizzata da movimenti decisi in senso antiorario che chiariscono la motivazione per cui si inizia dalla fine, dal dramma compiuto, per procedere a ritroso, cercando le ragioni di una realtà violenta che rende bestie mascherate gli uomini, spogliandoli letteralmente della loro dignità e moralità. Una ragione tuttavia non sembra esserci, ma qualche consolazione deriva dall’ascolto di un cantante neomelodico o dalla Callas che in un’aria dalla Carmen ci ricorda che il dolore come l’amore “è un uccello ribelle/ che nessuno potrà mai addomesticare (L’amour est un oiseau rebelle/ que nul ne peut apprivoiser)”.




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InformazioniVincenza Di Vita

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