Il tragico come polarità. Cechov secondo Končalovskij

Pubblicato il 29/10/2018 / di / ateatro n. 166

Il tragico come polarità, ovvero come reciproca dipendenza e scambio tra commedia e tragedia, è la cifra di ogni interpretazione del teatro di Cechov che assuma il “tradimento” stanislavskiano quale imprescindibile movimento dialettico implicito nell’opera stessa del drammaturgo russo. Ciò vale in particolare per il lascito estremo di Cechov, quel Giardino dei ciliegi che l’autore vedeva come un vaudeville («La prossima commedia sarà da ridere… molto da ridere», annunciava già nel marzo 1901) e che Stanislavskij fin dalla prima lettura capovolse in un dramma: «Questa non è una commedia né una farsa come avete scritto, ma è una tragedia», rispondeva a Cechov, confessando che gli attori al quarto atto avevano pianto. Da quel 17 gennaio 1904, quando debuttò al Teatro d’Arte di Mosca, nessuna messa in scena del Giardino ha potuto prescindere da questo carattere ambivalente dell’opera, da questa doppia interpretazione, procedendo sul crinale tra commedia e dramma pur scivolando inevitabilmente verso l’uno o l’altro versante, di volta in volta inclinando verso letture più ideologiche o leggere, serie o comiche, realistiche o surreali.

Il giardino dei ciliegi

Quella di Andrej Končalovskij, andata in scena a Venezia in un Teatro Goldoni tutto esaurito per i tre giorni di repliche, è una versione che trascorre rapidamente da un piano interpretativo all’altro, ma che, probabilmente proprio per non perdere l’equilibrio emotivo, non si alza mai al livello del solo tragico consentito alla contemporaneità, quello raggiunto, appunto, attraverso il comico. Si tratta di un’opera di raffinatissima confezione, punto d’arrivo della rilettura cechoviana del maestro russo che giunge al Giardino dei ciliegi dopo essersi misurato con Zio Vanja (ne aveva girato una versione cinematografica nel 1970) e Tre sorelle, entrambi proposti anche in Italia nel 2014. Una trilogia compatta e coerente, con lo stesso cast dei primi due spettacoli (quello impeccabile del Mossovet Theater di Mosca, l’accademia teatrale di Stato) e lo stesso impianto scenografico firmato da Ruscian Ismaghilov.
Un naturalismo d’impronta stanislavskiana informa tutto lo spettacolo, con una cura dei dettagli che si rivela in una certa luce sul grammofono, nella tazzina che si rompe scivolando a terra dal vassoio, nei panni stesi, nello scovolo per pulire le canne del fucile, nella pistola che appare per pochi secondi (e che, unico caso in Cechov, non sparerà). Ma tutto è piuttosto freddo, non riverbera la vita degli oggetti, l’usura del tempo. Gli splendidi costumi di Tamara Eschba risultano “troppo” indovinati e belli, al punto da sembrare quel che sono: finti. Non c’è un filo di polvere sugli stivali lustri. Non c’è un’ammaccatura sul grammofono, che del resto non ha voce, la musichetta d’epoca non esce dalla sua tromba lucida.

Il giardino dei ciliegi

Dalle pieghe del testo emergono invece alcune scene di pura invenzione registica che aprono scorci di intenso realismo magico, come l’irrompere di una banda di musicisti ebrei, con tanto di payot. Sono appena accennati in Cechov, mentre ora disegnano con il loro girotondo sfrenato il nuovo spazio scenico della seconda parte dello spettacolo, per poi continuare a suonare fuori scena. Ma soprattutto le apparizioni della defunta madre di Ljuba determinano, ben aldilà del dettato cechoviano, una espansione immaginifica dell’opera. Il semplice miraggio di Ljuba, che intravede la donna attraversare il giardino, s’incarna allora in una dama bianca con ombrellino, che ritorna silenziosa anche in un altro passaggio della pièce e poi nella scena conclusiva, tra i mobili accatastati della casa ormai venduta all’asta, accanto a Firs, l’anziano servitore che rifiutò l’emancipazione quando fu abolita la servitù della gleba e ora è stato dimenticato in un armadio (nel «vecchio caro armadio» dei ricordi di un secolo). Due fantasmi di un mondo ormai scomparso, di un’epoca finita per sempre.

Il giardino dei ciliegi

Gli attori percorrono lo spazio scenico con una precisione e un affiatamento che fanno intuire la portata del lavoro collettivo nella definizione dei caratteri. Spiccano la Ljuba di Julia Vysotskaya, moglie del regista e interprete in suoi numerosi film e spettacoli teatrali, e il Lopachin di Vitaly Kiscenko. Ma come sempre in Cechov non c’è un vero protagonista della pièce, come non c’è mai un centro dell’azione. Lo sviluppo dell’opera è disseminato di occasioni e spunti drammaturgici che creano una specie di coro, ma non in senso classico, perché ciascun personaggio conserva la sua individualità. La singola personalità emerge nei dettagli insignificanti, nei dialoghi fuorvianti, negli spunti farseschi, nella dilatazione dei tempi che Končalovskij risolve in cromatismi sia recitativi (l’espressività affettata, il brio dei dialoghi) sia propriamente nel lentissimo venir meno della luce alla fine di ciascuna delle due parti dello spettacolo.

Il giardino dei ciliegi

Colpisce la lettura depotenziata della figura di Trofimov, l’eterno studente dai toni fortemente politici e dai proclami prerivoluzionari (si pensi all’afflato messianico del personaggio nella versione di Strehler), che qui risulta appiattita, svuotata, “politicamente corretta”. Viene da pensare che non ci sia più spazio nella Russia di oggi per utopie umanitarie e speranze di cambiamento tanto profonde. E in questa direzione va forse anche la scelta didascalica della regia, che inframezza e scandisce lo spettacolo con foto e lettere di Cechov (alla moglie O’lga Knipper, a Stanislavskij, a Nemirovič-Dančenko) proiettate su uno schermo che scende a coprire i cambi di scena.

Andrej Končalovskij

Rappresentato in lingua originale con sopratitoli in italiano, lo spettacolo è stato proposto in Italia con il patrocinio del Governo della Federazione Russa nell’ambito del programma delle “Stagioni Russe”, un’ampia iniziativa che, riprendendo il marchio di Serghej Djaghilev, intende promuovere la cultura russa nel nostro Paese. Fa impressione l’impegno del regime putiniano in questa direzione: il programma, che terminerà a fine 2018, prevede più di 130 eventi, tra cui 35 mostre, 37 spettacoli teatrali, 63 concerti sinfonici, 55 balletti, nonché appuntamenti circensi e progetti cinematografici. Lo scambio con il Mossovet Theater si tradurrà per il Teatro Stabile del Veneto nella proposta a Mosca, il prossimo dicembre, delle Baruffe chiozzotte di Goldoni con la regia di Paolo Valerio.




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