Corpo di classe: Ritorno a Reims ovvero Didier Eribon secondo Thomas Ostermeier

Lo spettacolo in scena al Piccolo Teatro Melato con Sonia Bergamasco, Rosario Lisma e Tommy Kuti

Pubblicato il 16/10/2019 / di / ateatro n. 169

Da tempo l’opinione pubblica e la politica italiane sono attraversate da quella che viene definita “ondata populista”. La destra e il Movimento 5 Stelle la cavalcano. La sinistra inorridisce e rabbrividisce, ma non ha niente da dire e ancor meno da proporre.
Qualche politologo nostrano ha azzardato le sue acute analisi, ma nessuno si è davvero sporcato le mani per indagare le ragioni profonde di questa svolta, che nasce anche dalla delusione di milioni di elettori che per decenni avevano votato con orgoglio per i comunisti e i socialisti. La riflessione sul disastro politico della sinistra è un tabù prima di tutto per i suoi dirigenti politici, che dal 1989 si sono ridotti a esecutori fallimentari di una straordinaria eredità politica e culturale, nutrita di ideali di eguaglianza e di lotte durissime: oltre un secolo di faticose conquiste, pressoché dissolte in pochi decenni. La politica progressista si è ridotta a una serie di operazioni politiche furbesche, un opportunismo che non ha fermato l’emorragia dei voti.
Non vale solo per l’Italia. E’ l’Europa di Salvini, Farage, Le Pen… La stagione dei sovranisti e delle “democrature”. E di Trump, che fa l’America “great again”.
In Francia c’è chi è stato costretto a interrogarsi su questa mutazione antropologica. Il filosofo Didier Eribon è un figlio di operai elevato al paradiso della docenza universitaria e poi beatificato dalla televisione di alta cultura, con una folgorante apparizione nella mitica Apostrophes di Bernard Pivot nel 1989 per lanciare la sua provocatoria biografia di Michel Foucault. Alla morte del padre – con cui aveva da tempo rotto ogni rapporto – Eribon ha deciso di tornare ai luoghi dell’origine, per ritrovarsi ma anche per capire come un militante comunista avesse alla fine votato per il Front National, come molti altri francesi.

Ritorno a Reims, regia Thomas Ostermeier | Foto © Masiar Pasquali

Ritorno a Reims (pubblicato in Francia nel 2009 e tradotto in Italia da Bompiani nel 2017) è un’autobiografia che intreccia in ogni frase filosofia, psicoanalisi e sociologia. Non la sociologia delle statistiche e dei grandi numeri, ma quella che analizza le pratiche della vita quotidiana, sulla scia di Pierre Bourdieu: microstorie che rendono visibili le tracce del dominio nel corpo sociale e individuale. In Francia e Germania Ritorno a Reims ha suscitato dibattiti e polemiche, in Italia è passato quasi inosservato. Sulla scia di Eribon si è mosso di recente anche il più giovane Edouard Louis, un altro exploit editoriale in Francia con Il caso Eddy Bellegueule, tradotto sempre da Bompiani nel 2014. In Italia Louis ha attirato l’attenzione della compagnia Deflorian-Tagliarini, che ci sta lavorando con Francesco Alberici come protagonista (Non è un caso che Daria Deflorian si sia misurata con un’altra autrice francese che deve molto a Pierre Bourdieu, Annie Ernaux, che con le sue minuziose autofiction ha sezionato la propria vita – e la condizione femminile – attraverso quella della madre).
Eribon, come Louis, è un intellettuale di famiglia proletaria che s’interroga sulla propria origine, sulla propria ascesa culturale e sociale ma anche sul destino della classe sociale di provenienza. Non dev’essere stato facile mettersi a nudo, e non è stato facile accettare la proposta del regista Thomas Ostermeier, che non gli ha chiesto solo di portare in teatro il suo libro-confessione, ma anche di farsi riprendere insieme a sua madre, nella sua dimora “proletaria”.

Ritorno a Reims, regia Thomas Ostermeier | Foto © Masiar Pasquali

La vergogna è un sentimento complesso. Eribon era fuggito da Reims per vivere la propria sessualità fuori dalla grettezza della provincia. Ha dichiarato pubblicamente la propria omosessualità, ne ha scritto, ne ha fatto un punto di forza, dopo il bullismo, le discriminazioni, le violenze. Su quella scelta ha costruito buona parte della sua identità. Poi, dopo i decenni parigini, ha voluto tornare a Reims, ed è riuscito a raccontarsi attraverso la scrittura. Ma la richiesta di farsi riprendere lo aveva bloccato: le parole non hanno la violenza oscena delle immagini, la loro evidenza documentaria.
“Quando Thomas mi ha chiesto di filmare una scena a casa di mia madre, ho risposto che no, che non era possibile”. Il raffinato intellettuale cosmopolita non voleva mostrare la miseria dell’inferno dei sobborghi, i luoghi dimenticati da cui era riuscito a riscattarsi. “E’ stato Geoffroy, il mio compagno, a dirmi: ‘Sei riuscito a superare la vergogna sessuale, e non sei in grado di superare quella di classe?’”
Oggi pare più facile rivendicare i diritti dei “diversi” che quelli dei “poveri”. Anche su questo, proprio a partire dal libro di Eribon, in Germania si è innestata una dura polemica politica. Ritorno a Reims dimostra che è possibile fare i conti con un padre maschilista, omofobo, alcolizzato, violento. Ma nella società del successo a tutti i costi, non è possibile sentirsi orgogliosi di due genitori incatenati alla loro condizione operaia. E per le anime belle della gauche, è inconcepibile che questi ex comunisti votino per Le Pen.

Ritorno a Reims, regia Thomas Ostermeier | Foto © Masiar Pasquali

La radiografia di Eribon coglie con agghiacciante precisione il tradimento dei ceti popolari da parte dei leader politici. In Francia è stata evidentissima la svolta che nel 1983 portò il presidente François Mitterrand da scelte “di sinistra” alla “politica del rigore”. Una evoluzione analoga c’è stata in Germania, Gran Bretagna, Italia… In nome della “modernità”, la sinistra ha abbandonato le proprie parole d’ordine, che sono state sequestrate, pervertite e rilanciate dalle destre. Quello del linguaggio – e dunque della dimensione simbolica – è un altro dei piani di analisi di Eribon e Ostermeier: una volta “noi” e “loro” designava le classi subalterne e il ceto dominante, ora contrappone “gli italiani”, “i francesi”, “gli americani” (e fino a poco tempo fa “i padani”) agli “altri”, ovvero agli immigrati. Il nemico di classe è scomparso: non ha più un nome, è diventato invisibile. Se non lo puoi nominare, non lo puoi combattere.
Sono diventate invisibili – o ridotte a caricatura – anche le classi subalterne. “Quando lo si vede in televisione, nei talk show, chi arriva dalle periferie dev’essere volgare, ubriacone, violento. Ci sono eccezioni, come Ken Loach o i fratelli Dardenne, ma non ne posso più di chi al cinema ci mostra per l’ennesima volta le pene d’amore di una pianista…”, si irrita Ostermeier. Questa invisibilità delle classi subalterne al cinema e in teatro non è solo un problema estetico, è un problema politico: “A questa mancanza di rappresentazione corrisponde una mancanza di rappresentanza politica.”
Sembra di essere tornati ai tempi del naturalismo, o del neorealismo… Ma oggi non è più possibile “rappresentare”, ovvero portare in scena, come allora, “la realtà” e il suo scandalo. Riprodurre in scena o sullo schermo la violenza sociale significa spettacolarizzarla, con il rischio di nascondere le cause e i meccanismi del dominio. Per avvicinarsi alla verità, è prima necessario decostruire il reale, così come ci viene presentato – o così come viene spettacolarizzato. Per farlo, Ostermeier ricorre a un dispositivo complesso, che stratifica diversi livelli di realtà. Ha immaginato uno studio di registrazione, dove un’attrice deve sovrapporre la sua voce fuori campo alle immagini di un documentario sulla crisi della sinistra. Nello spettacolo (prodotto dal Piccolo Teatro e allestito al Teatro Studio Melato), la protagonista (Sonia Bergamasco) è una benpensante progressista con qualche sprazzo da diva, politicamente corretta e inoffensiva. Nella versione italiana il regista (Rosario Lisma) è il prototipo dell’artista impegnato, animato dalle migliori intenzioni e inoffensivo. Nella cabina di regia staziona il tecnico che gestisce la produzione e controlla il budget: per il ruolo Ostermeier ha scelto Tommy Kuti, rapper “afroitaliano” allievo di Fabri Fibra, che di recente ha pubblicato l’autobiografico Ci rido sopra. Crescere con la pelle nera nell’Italia di Salvini (Rizzoli, 2019).
Il documentario “finzionalizza” il viaggio di Eribon da Parigi al sobborgo di Reims dove vive sua madre: il treno, i luoghi della giovinezza, l’incontro nel salotto di casa, il caffè, le fotografie… Il filmato utilizza anche immagini di repertorio, per accompagnare la riflessione storica sulla catastrofica smobilitazione della sinistra. Il dispositivo di Ostermeier prevede nelle diverse edizioni (finora inglese, francese, tedesca e italiana) due tipi di adattamento. Sul versante documentario, oltre a Mitterrand e a Gordon Brown, vediamo le immagini di politici “locali” e momenti di lotta “nazionali”. Sul fronte teatrale, il regista ha chiesto ai suoi tre attori di portare nello spettacolo anche il loro vissuto. Nella versione tedesca, la protagonista Nina Hoss rievocava la figura del padre, comunista quando il partito era fuorilegge in Germania, militante sindacale inserito nelle liste nere. In quella francese, l’attore senegalese Blade MC AliMBaye raccontava del nonno, costretto a risalire la Francia per combattere contro i nazisti, ma escluso dalla parata vittoriosa di un esercito che sotto l’Arc de Triomphe doveva essere tutto bianco, e poi massacrato al ritorno in patria. In Italia, alla fatidica domanda “Ma di fronte a tutto questo, tu che cosa fai?”, Rosario Lisma mostra dal suo telefonino la registrazione del comizio anti-Leghista che ha tenuto per le elezioni comunali di Mazara del Vallo. E naturalmente, come sempre negli spettacoli di Ostermeier, ci sono le fratture brechtiane in cui l’attore rompe la quarta parete e si rivolge direttamente al pubblico: Lisma chiede di lanciare l’urlo, forse liberatorio, “Berlusconi non è cattivo”, mente Kuti vuole i battimani del pubblico per accompagnare le sue rime rap.

Ritorno a Reims, regia Thomas Ostermeier | Foto © Masiar Pasquali

C’è la realtà in cui hanno vissuto gli Eribon, ormai proiettata nel passato. C’è il libro in cui lo stesso Eribon racconta il suo viaggio, mescolando realtà e riflessione, passato e presente, in una sofisticata autofiction. C’è il documentario in cui si rimettono in scena sia il “ritorno” di Eribon sia il suo testo, e la sua scrittura. Ci sono gli spezzoni di filmati storici. C’è l’immaginario, con una sequenza di La bella e la bestia di Jean Cocteau e la metamorfosi di Jean Marais. Ci sono i volti di operai e operaie, in una galleria di ritratti in bianco e nero. C’è il finto studio radiofonico in cui incontriamo i personaggi. C’è la recitazione degli attori, che sono i tre personaggi ma a tratti sono anche sé stessi. Tra loro, un’attrice che dà la voce a un uomo mentre racconta la propria vita. C’è il video sul telefonino di Lisma. C’è la quarta parete che viene infranta, per riattivare il “qui e ora” dell’evento teatrale. C’è la società dello spettacolo in cui siamo immersi. Ci sono le menzogne dei politici e le teorie del complotto… La frizione tra questi “livelli di realtà” vuole produrre nello spettatore un diverso livello di consapevolezza, un germe di pensiero critico. Non si tratta di trasmettere un messaggio, quanto di condividere un’esperienza.
Il documentario si conclude con un invito alla sinistra: deve risalire la china. E’ generico, volontaristico e un po’ retorico, come il regista del documentario su Eribon, che rinuncia agli aspetti intimistici a favore del messagio politico. L’ultima parola va a Kuti: finché ad andare in televisione saranno “loro”, le teste parlanti bianche e benpensanti, quelli che vediamo nei talk show, non ce la possiamo fare: “Dobbiamo prenderci la parola, raccontarci da soli.”
Rispetto ai temi affrontati da Eribon, Ostermeier non vuole distrazioni. Si fida della complessità del suo dispositivo e della reattività intellettuale e civile del pubblico. Con un rigore protestante, concede pochissimo all’emozione e nulla agli effetti speciali. La lettura di Sonia Bergamasco, a metà strada tra la lezione e la confessione, occupa buona parte delle due ore di spettacolo. Restano aperte le ferite insieme estetiche e politiche che hanno incuriosito e appassionato il regista: come dare corpo, volto, voce, agli invisibili della società contemporanea? Quale può essere la loro rappresentazione estetica, e quale la loro rappresentanza politica?
Eribon intreccia la sensibilità personale, quella sociologica e quella politica. Negli ultimi mesi, non si è unito alla condanna dei gilets jaunes. Il 19 gennaio 2019, al culmine dell’ondata di proteste, ha dichiarato a Canal+: “E’ possibile non condividere tutti i mezzi e tutte le parole che vengono utilizzati per esprimere la collera, ma è evidente che c’è una violenza sociale che viene esercitata sui corpi, sugli individui, nel lavoro, nei redditi di cui possono disporre le persone. Dicono che sono violenti perché sfondano la vetrina di Chanel sugli Champs Elysées. Mi spiace per la vetrina di Chanel, ma gli individui che protestano, i loro figli, le loro famiglie, sono da sempre vittime: della precarietà del lavoro, della miseria dei guadagni, della disoccupazione, dei contratti a termine. Questa è una violenza estrema. E’ questa la violenza sociale. Se si parla di violenza, per cominciare bisogna parlare di questa violenza. E quando queste persone scendono per protestare contro la violenza sociale di cui sono vittime, ecco che arrivano i reparti anti-sommossa che spara proiettili di gomma che cavano gli occhi. (…) Vengono repressi da una violenza poliziesca davvero sorprendente. Se il grande dialogo si fa a colpi di Flash ball, allora questo governo regna con il terrore”.
Si può anche non concordare con le analisi contenute in Ritorno a Reims. La classe operaia è stata annichilita anche – e forse prima di tutto – dalla globalizzazione e dalla delocalizzazione dei grandi impianti industriali. La deriva della sinistra è frutto anche della necessità di allargare la propria base elettorale. La mancanza di un’alternativa al capitalismo selvaggio in cui siamo sprofondati, prima che un problema economico e politico, investe la filosofia e l’immaginario. Le riflessioni dopo teatro potrebbero allargarsi all’infinito: i complotti, l’impoverimento dei ceti medi, i giovani, i diritti, il welfare state, la crisi ambientale…

Cuckoo di e con Jaha Koo

Per raccontare gli stessi problemi, in Corea del Sud e da una prospettiva giovanile, in Cuckoo (visto al LAC di Lugano per il FIT) Jaha Koo dialoga con tre irresistibili cuociriso parlanti: con disperata ironia, racconta in soggettiva la bolla finanziaria asiatica, la crisi economica, i diktat del capitalismo globale, lo sfruttamento sul lavoro, le proteste di piazza e la repressione della polizia, i suicidi… E mette in scena la propria solitudine, in un mondo invaso dalla tecnologia, in cui parliamo con gli elettrodomestici.

Cuckoo di e con Jaha Koo

Per Eribon e Ostermeier, ma anche per Jaha Koo, il terreno dello scontro è, prima ancora del linguaggio come strumento di dominio ideologico, il “corpo di classe”. Corpo sociale, e soprattutto individuale.
E’ il riso pressato nel contenitore di plastica monodose di cui si sfamano i coreani. E’ il corpo del ragazzo stritolato mentre faceva manutenzione nella metropolitana di Seoul.
E’ il corpo dell’anziana madre di Eribon, che ormai fatica a camminare, le gambe gonfie dopo anni di lavoro in piedi. Lei era felice di farsi riprendere dalla troupe di Ostermeier, racconta Eribon, ma non ha potuto vedersi sullo schermo. E’ scomparsa poco prima del debutto dello spettacolo. Lei, che di fronte alla raffica di battute omofobe del marito davanti al televisore, gli sussurrava: “Ma dai, lasciali vivere”.

Ritorno a Reims
dal libro di Didier Eribon
world copyright Editions Fayard, Paris
traduzione di Annalisa Romani
© 2017 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani
drammaturgia Florian Borchmeyer
traduzione Roberto Menin
regia Thomas Ostermeier
scene Nina Wetzel
light design Erich Schneider
sound design Jochen Jezussek
film Sébastien Dupouey, Thomas Ostermeier
camera Marcus Lenz, Sébastien Dupouey
suono (film) Peter Carstens
musiche Nils Ostendorf
con Sonia Bergamasco, Rosario Lisma, Tommy Kuti
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Fondazione Romaeuropa
in collaborazione con Schaubühne, Berlino

produzione prima versione Schaubühne Berlin con Manchester international Festival, HOME Manchester, Théâtre de la Ville de Paris




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