Una sola moltitudine. Gruppi emergenti e piccoli atti poetici alla XVI edizione di OperaPrima

Con i lavori di Cantiere Artaud, Farmacia Zoo:è, Teatro del Lemming

Pubblicato il 21/09/2020 / di / ateatro n. 174

Il pubblico del festival OperaPrima (Foto Loris Slaviero)

Confermando la sua vocazione di ponte fra diverse generazioni di artisti, il festival OperaPrima organizzato a Rovigo dal Lemming ha proposto anche quest’anno spettacoli, laboratori e incontri all’insegna del dialogo fra protagonisti della scena italiana (l’emergenza sanitaria ha reso impossibile la presenza di artisti stranieri) e nuovi talenti.
Si tratta in alcuni casi di una relazione resa esplicita dalla segnalazione di una realtà emergente da parte di maestri riconosciuti (Abbondanza Bertoni ha indicato Valentina Dal Mas, Giuliano Scabia ha promosso Livello 4), in altri di un più libero confronto fra le esperienze di compagnie storiche e quelle di giovani gruppi. Tra questi ultimi, i cinque vincitori di un bando europeo cui hanno partecipato 500 artisti: Farmacia Zoo:è, Cantiere Artaud, Angelo Campolo, Fabio Liberti e CRiB. Tra gli “storici” il Teatro del Carretto, con la prima nazionale di Caligola, Abbondanza Bertoni con Heinas. Forme di minotauri contemporanei, Thierry Parmentier con un laboratorio di teatrodanza, lo stesso Lemming con Metamorfosi di forme mutate.

Heinas di Abbondanza-Bertoni (Foto Loris Slaviero)

L’eco della falena di Cantiere Artaud si ispira alla vita e alle opere di Virginia Woolf e costruisce un luogo della memoria in cui una figura femminile (Sara Bonci) si muove come in un tempo sospeso, incapace di aprire le grandi porte da cui provengono in forma di ombre e presenze maschili (Filippo Mugnai) ricordi, tensioni, malinconie.

Cantiere Artaud, L’eco della falena (Foto Loris Slaviero)

L’ambientazione buia, le attente sagomature, gli abiti scuri, l’attenzione per gli oggetti, l’assenza di parole e di trama orientano verso una lettura simbolista delle scene, in una stilizzazione formale che ricorda il Teatropersona di Aure senza tuttavia raggiungere quella presenza riverberante, perché le azioni rimangono piuttosto meccaniche. «Allo spettatore viene chiesto – spiega il regista Ciro Gallorano – di lasciarsi condurre dentro un labirinto fatto di piccoli gesti e suoni primordiali, silenzi e ombre.» Una ricerca che allude ad archetipi ma non sembra riuscire a coglierne l’energia, pur ricavando alcune belle immagini.

Cantiere Artaud, L’eco della falena (Foto Loris Slaviero)

Su un deciso impianto drammaturgico è invece impostato il nuovo spettacolo di Farmacia Zoo:è, Sarajevo, mon amour, in prima assoluta dopo varie residenze e una ricerca svoltasi anche sul campo. Voce profonda, forte presenza, Gianmarco Busetto è in scena con Carola Minincleri Colussi per raccontare, interpretare e al contempo interrogare la vicenda tragica di quelli che sono stati definiti “Giulietta e Romeo di Sarajevo”.

Lui serbo, lei musulmana, furono uccisi dai cecchini (non si è mai saputo di quale parte) mentre cercavano di attraversare il ponte di Vrbanja per scappare dalla capitale bosniaca dilaniata dalla guerra civile. Era il 19 maggio del 1993. Sarajevo era già sotto assedio da un anno (sarebbe durato, nell’indifferenza dell’Europa, fino al 1996: 1425 giorni) e la pulizia etnica incrociata non poteva tollerare la relazione dei due giovani. Violenze, sopraffazioni, rese dei conti, doppi giochi per arricchirsi sulla pelle di una popolazione ridotta alla fame. Admira e Boško se andavano da Sarajevo «non per paura di morire, ma per paura di abituarsi a tutto questo». Lui cadde per primo. Lei, ferita, si trascinò accanto a lui abbracciandolo e si lasciò morire. I loro corpi rimasero sulla terra di nessuno per otto giorni, finché un cessate il fuoco non permise il recupero delle salme. Canzoni e poesie hanno tramandato la loro storia, e ora questo spettacolo che onestamente ne ricostruisce le ultime drammatiche fasi.

Onestamente, perché i due attori più che incarnare evocano e ricercano i loro personaggi. Sono a fasi alterne (e a volte sovrapposte) narratori esterni, protagonisti della storia e attori che si rivolgono direttamente ai due amanti per indagarne sentimenti e quotidianità. E la coda emotiva di ognuno di questi tre piani interpretativi va a influenzare l’esecuzione e la percezione di quello seguente. La scena è scarna: pugni di coriandoli per evocare la neve, la festa, la città vista dall’alto, la folla in piazza e per le strade; un set di copertoni per costruire barricate, pozzi, tunnel, per creare corse, scontri, spari. Una sorta di scenografia ritmica che nel cuore dello spettacolo prende la forma di un cunicolo nel quale Admina avanza strisciando con una torcia in mano e diventa Giulietta: «…Perché tu sei Boško, cambia nome, che cos’è un nome, che cos’è un serbo…». Dalla parte opposta della galleria, Boško-Romeo riprende la scena che, proiettata sul fondale, diventa una toccante mise en abîme testuale concretizzata nella spirale di copertoni.

Farmacia Zoo:è, Sarajevo, mon amour

Come nel precedente lavoro di Busetto, il convincente 9841/Rukeli, è una multimedialità artigianale ed efficacissima a intervenire in scena con funzioni drammaturgiche. La videocamera, fissa o mossa liberamente dagli attori, proietta primi piani sul fondale-schermo, scandisce le scene, crea prossemiche sorprendenti, moltiplica i corpi, diventa un terzo attore. Scorrono ogni tanto anche immagini di repertorio della città assediata, dando vita per contrasto ad associazioni grottesche, più volte esasperate da una colonna sonora (Su di noi di Pupo) che gioca con un kitsch balcanico che può ricordare i film di Kusturica. Un lavoro che ha ancora ampi margini di miglioramento tecnico e di definizione drammaturgica, ma che conferma l’originalità della ricerca del gruppo veneziano.

Teatro del Lemming, Una sola moltitudine (Foto Loris Slaviero)

Da segnalare anche il progetto Una sola moltitudine con il quale Massimo Munaro e il Lemming hanno portato il teatro nelle case di Rovigo (o sotto casa, nei giardini) nei mesi di solitudine forzata per il lockdown. Proprio perché gli spettatori non potevano andare a teatro, e rifiutando la logica del trasferimento dell’evento spettacolare sulle piattaforme digitali, Munaro ha pensato a dei piccoli atti poetici su testi di Fernando Pessoa da affidare non ai suoi attori ma, «come piccola forma di sostegno e riconoscimento», ad altri attori, della città e non, rimasti senza lavoro e segna sostegni economici. Una poesia, pochi minuti per ritrovare quel contatto diretto tra spettatore e attore, quella presenza qui e ora che resta la natura e il senso del teatro.

Teatro del Lemming, Una sola moltitudine (Foto Loris Slaviero)




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