#politicopoetico | Lo spettacolo e il suo mistero: l’arte come azione politica

Un'intervista ad Andrea Paolucci sulla realizzazione di Il Labirinto

Pubblicato il 01/07/2021 / di / ateatro n. 179

L’ultima produzione del Teatro dell’Argine, Il Labirinto. Uno spettacolo post-teatrale in realtà virtuale , ha occupato dal 18 al 27 giugno 2021 le aule dell’Istituto Aldini Valeriani a Bologna. Lo spettacolo è stato ideato da GiacoImo Armaroli, Nicola Bonazzi, Mattia De Luca, Giulia Franzaresi, Andrea Paolucci; scritto da Giacomo Armaroli, Nicola Bonazzi, Mattia De Luca, Giulia Franzaresi, Silvia Lamboglia; diretto da Andrea Paolucci.

Andrea Paolucci, cosa significa ideare e dirigere uno spettacolo post-teatrale? È finito il teatro?

Ci siamo interrogati molto, vista la natura dello spettacolo, se chiamarlo “teatrale”, Nello sviluppo lo abbiamo chiamato “esperienza”. Non c’è teatro ovvero non c’è quella interazione dal vivo tra spettatore e attore che lì in flagranza fanno le loro cose, affinché possa avvenire la magia del teatro. Non ci sono attori dal vivo, ci sono molti pattern citati in questa strana esperienza tra cinema, videogioco e l’esperienza sensoriale alla Vargas; ci sono certamente attori, ma sono più vicini al linguaggio cinematografico che non a quello teatrale. Tuttavia ci sembrava che il teatro – per quanto non quello di una definizione accademica – fosse ancora presente in quella capacità dello spettatore di mutare la percezione di quello che vede, filtrandola, mettendola in relazione con l’accadimento digitale. Il tipo di interazione che lo spettatore può fare rende comunque un incontro tra reale e virtuale. L’attore è virtuale ma lo spettatore è reale e questo è molto teatrale.

Al lavoro su Il Labirinto (ph. Davide Saccà)

Il “post” che abbiamo voluto usare non vuole essere etichetta ma è più un gioco di comunicazione. Il progetto è nato prima della pandemia, ben prima quindi di porsi la domanda: “Il teatro come cambierà? Che cosa succederà di tutto questo digitale che ha invaso le nostre settimane, i nostri mesi di lockdown?= La questione è rimasta in disparte, perché il progetto era nato ed era pronto e avrebbe dovuto debuttare esattamente un anno fa. Si tratta quindi di questioni che abbiamo affrontato prima della pandemia, che poi, con l’assenza del teatro, ha costretto tutti a fare un ragionamento sul teatro. Dunque il “post-teatrale” sarebbe una piccola provocazione. Ovviamente il teatro non è finito e questo non vuole essere uno spettacolo che sta al dopo, o che si propone come modello. E’ sicuramente un modo per uscire dalla zona di comfort della compagnia, del nostro gruppo sempre attento ai temi ma sempre alla ricerca del linguaggio giusto.

Come avete lavorato?

Non siamo una compagnia con una estetica definita. Abbiamo sperimentato la narrazione, abbiamo sperimentato l’antica italiana, ci siamo confrontati con progetti di spettacoli itineranti, partecipati. Abbiamo attraversato molte delle estetiche che in questi ultimi trent’anni hanno scardinato le tre unità aristoteliche, con progetti in cui il contenitore veniva dopo. Ci interessava ovviamente molto il contenuto e se per raccontare quel contenuto era necessaria una sedia e un attore seduto lì sopra, la narrazione in quel momento ci veniva in aiuto. Abbiamo immaginato progetti dove in scena dovessero esserci centinaia e centinaia di adolescenti; ci siamo immaginati spettacoli per un piccolo ensemble di attori o spettacoli dove magari la parte di spettatore e attore veniva molto mischiata, in una sorta di gioco di ruolo dove ci si muoveva quasi senza notare il confine tra chi doveva guardare e chi doveva agire. Arriviamo oggi a questo spettacolo con una tecnologia così presente non perché legata al momento storico che stiamo attraversando, ma semplicemente perché in questo momento quella tecnologia ci permetteva di presentare al meglio la storia che volevamo raccontare.

Le riprese di Il Labirinto (ph. Alessandra Corsini)

Questo spettacolo sta dentro a un progetto più ampio che si chiama Politico Poetico ed è stato il nostro tentativo di provare a uscire dalla nostra zona di comfort, per vedere cosa potevamo ancora fare noi come compagnia in rapporto al lavoro con gli adolescenti. Fin dalla nostra nascita nel 1994 c’era già la voglia di lavorare con i ragazzi per farli diventare spettatori, una sorta di audience development ante litteram, volto non a formare spettatori ma a dare ai ragazzi gli strumenti che dà il teatro, per comprendere meglio sé stessi e il mondo. Quindi il teatro come strumento e non come fine. 25 anni fa non era così banale.
Dopo questi anni e dopo avere lavorando coprendo tutte le fasce d’età da zero a vent’anni attraverso varie azioni, laboratori nelle scuole e tanta tanta attività, ci siamo detti: “Adesso cos’altro possiamo fare?”. Tra l’altro gestiamo anche un teatro con la sua programmazione e dove sono presenti tanti spettacoli per le nuove generazioni, dove far confluire i nostri ragazzi anche come spettatori.
Ma a parte il binomio laboratorio-spettacolo, cos’altro fare per immaginare nuove cose con i ragazzi? Politico Poetico è stata la risposta a questa domanda. Abbiamo fatto dei laboratori per due anni passando attraverso la pandemia, attraverso la DaD e via dicendo, ma questa volta parlando di temi non teatrali. Abbiamo scelto di andare nelle scuole e di chiedere ai ragazzi quale era secondo loro un piccolo progetto che avrebbe potuto trasformare la città, renderla un pochino più sostenibile sotto il profilo ambientale, dei diritti, di una economia circolare, lo spreco, il riuso, tante azioni che l’agenda 2030 con i suoi 17 obiettivi dovrebbe avere a cuore per la sopravvivenza del pianeta. Ci è sembrato uno strumento sufficientemente ampio per ricavare un piccolo progetto per un miglioramento nella propria scuola, nel proprio condominio. In realtà lo spettacolo nasce dalla volontà di far lavorare i ragazzi su temi alti, facendo loro immaginare progetti concreti. Per un anno abbiamo fatto incontri con gli esperti, chiedendo loro quali erano gli argomenti che potevano interessargli di più, sapendo che molti di loro già scendevano in piazza per i Fridays for Future, sapendo che già molti di loro erano attivi nei collettivi di Libera, che erano attenti ai temi dei diritti: per esempio molti di loro sono attentissimi al tema dell’identità di genere e alla possibilità di avere pari dignità sessuale. Con tutto questo costruiamo dei progetti, impariamo a mettere in campo le idee e a raccontarle.

Poi abbiamo detto ai ragazzi: “Vi mettiamo a disposizione una grande piazza, la piazza più grande di Bologna. Vi mettiamo a disposizione 100 cassette della frutta e una domenica di giugno vi chiediamo di salire su queste cassette per raccontare il vostro progetto. C’è chi ha immaginato il bagno gender fluid nella propria scuola, chi ha immaginato di creare un piccolo mercatino degli abiti usati all’interno del proprio quartiere, insomma tante piccole idee che, con l’aiuto nostro e degli esperti che abbiamo chiamato, si sono trasformati in quella domenica in piazza Maggiore in tanti piccoli monologhi con tanti ragazzi sopra quelle cassette che somigliavano tanto a dei palcoscenici a parlare di cose che a loro stavano a cuore e che il teatro aveva concesso loro di esprimere e costruire nella maniera migliore. Quindi il teatro come strumento che si mette a servizio dei ragazzi per qualcosa che non è lo spettacolo ma che è comunque un atto di presenza all’interno della città e che diventa praticamente un atto poetico.
Le foto che abbiamo di quel momento sono molto belle perché abbiamo fermato dei momenti indimenticabili, considerando che c’è la pandemia. Abbiamo raccolto più di 500 ragazzi e avevamo circa 370 monologhi da far raccontare in quella giornata degli speakers’ corner.
Questa esperienza è l’altra faccia della medaglia del Labirinto. O meglio, è l’altra faccia della medaglia di quello che abbiamo chiamato il Parlamento con gli speakers’ corner, per dare voce a quei ragazzi che non hanno la possibilità di far sentire la loro voce. Dopo 25 anni ci siamo accorti, avendo lavorato in situazioni di fragilità e disagio, che l’adolescenza non è solo quella sorridente e solare, ma c’è anche un’altra adolescenza, in stato di fragilità o di pericolo, come la definizione ufficiale definisce questi ragazzi, seguiti da varie istituzioni legate al mondo della giustizia minorile. Sono ragazzi e ragazze seguiti dai servizi sociali, quelli delle dipendenze, quelli che già a 11-12 anni affrontano il coma etilico… c’è comunque un sottobosco anche nella ricca Bologna, nella ricca Italia, anche nel potente Occidente, in cui esiste un’adolescenza fragile e in parte dimenticata, fino a quando non tocca un tuo figlio o un tuo nipote, un ragazzo che non avrà mai la forza di alzarsi in piedi su una cassetta e dire “Io ci sono e ho questa idea per il futuro”.
Questo spettacolo prova a pescare lì. Per otto mesi due anni fa abbiamo iniziato a intervistare chi si occupa di questi ragazzi, un mondo di esperti che ci hanno raccontato delle storie. Ne abbiamo scelte 14. Non le più belle, non le più rappresentative, ma quelle che in qualche modo ci hanno detto qualcosa. Così siamo andati a costruire 14 piccoli… Corti cinematografici? Atti unici? Li stiamo chiamando “esperienze” perché ci hanno parlato per la loro potenza, per la loro suggestività. Parliamo di ragazzi che hanno a che fare con il tema dell’autolesionismo, della prostituzione minorile, del bullismo. La nostra non vuole certo essere una classifica delle 14 storie più rappresentative. Non parliamo di altri temi altrettanto importanti che hanno a che fare con quell’età: per esempio non è venuta fuori nessuna storia che abbia a che fare con il tema dei disturbi alimentari, per esempio bulimia o anoressia.
Andando a raccogliere queste storie, facendoci attraversare da queste suggestioni, ci siamo interrogati su quale potesse essere lo strumento migliore per raccontarle e ci siamo detti che la realtà virtuale poteva darci una mano. Sicuramente il cinema o il teatro stesso, ma anche la letteratura, sicuramente possono e sanno raccontare tutto questo. Ma quando indossi quel visore, tu puoi essere letteralmente quel ragazzino. Suoni, scenografie, mondi fantastici, suggestioni… Puoi costruire quello che vuoi, tramite quel visore puoi toccare oggetti, prenderli in mano, ma potrai anche guardandoti le mani accorgerti che non sono le tue mani ma sono quelle di una bambina di 12 anni. Nel gioco, nell’esperienza a cui parteciperai, ti accorgerai che potrai camminare dentro questa stanza virtuale. Ogni spettatore ha un’area di gioco di 7×7 metri quadri, ma nella visione potranno essere corridoi o un labirinto, un giardino pubblico, la camera di un ragazzino hikikomori. Quindi le scene intorno a te cambiano, il tuo corpo cambia. La realtà virtuale ti permette di fare un’esperienza molto particolare. Anche emotivamente, emozionalmente tocca vari recettori; per noi questo linguaggio era molto interessante per questo motivo.

Qual è la reazione dello spettatore?

È veramente molto immersivo, per cui tu sai di essere dentro una stanza vuota e non c’è nessuno lì a farti del male e nulla dovrebbe preoccuparti perché è tutto finto, però ci sono piccole azioni da compiere e una di queste e salire una scala a pioli, noi vedendo da fuori vediamo questi giocatori, questi spettatori mimano un po’ alla Marceau una salita che per loro è reale. Per esempio uno degli amici che è venuto a fare un’anteprima ha mollato i pioli della scala e quindi è caduto. Chiaramente non è caduto ma nella sua realtà stava precipitando di un metro nel vuoto e ha tirato un urlo veramente inquietante e abbiamo capito che le emozioni lì dentro, per quanto tu lo sappia che è tutto finto, sono moltiplicate. Per cui il cervello ti fa credere che è vero.

Ha ancora senso parlare di reale? Perché?

Nonostante tutta questa artificialità, nonostante questo artificioso modo di raccontare quello che abbiamo incontrato e capito, quello che vorremmo mettere davanti agli occhi dello spettatore, pur essendo così tecnologico e virtuale, è assolutamente concreto e reale. Lo spettacolo non deve portare sulla scena necessariamente il reale, qualunque sia, virtuale o reale, su un palcoscenico, all’aperto o al chiuso: deve portare un mistero, una domanda. Deve portare a una zona che va interpretata e mettere lì il reale.
Questo spettacolo ti pone al centro in maniera iperrealistica, pur essendo estremamente artificioso. Ti pone al centro di alcune questioni che ti aprono davanti il mistero. Quindi l’obiettivo non è far credere alla gente di essere davvero su quella scala a pioli, ma è farle credere che è in cima a quella scala a pioli che si svelerà il mistero che sta cercando. Quindi in qualche modo noi costruiamo una “superrealtà”, in maniera superartificiosa, per riuscire ad arrivare in quella zona di indicibile e di misterioso e mistico che poi è la bellezza del teatro.

Quali sono state le reazioni dei giovani coinvolti?

I giovani in questo linguaggio sono molto più forti di noi- E’ un videogioco anche alla loro portata, non c’è playstation che non abbia la possibilità di essere collegata con un visore. Sono davvero scafati, ma sulla base dei nostri test qui si smanetta anche poco, per cui anche se si fanno cose strane non sono abituati a interagire con quel genere di oggetto che conoscono come videogioco ma ache appare più vicino al teatro, al cinema o a una installazione. Quindi con altri tempi e con altri obiettivi. Lo strumento è lo stesso, ma la declinazione è diversa. Molti di loro sono molto affascinati da questa nuova modalità, qualcuno ha detto: “Meglio di Netflix”. Hanno capito che l’obiettivo era di raccontare storie.

Se la poesia e la politica sono un fare nel rito civile del teatro, può esistere politico senza poetico?

Per noi la poesia è assolutamente poetica, è assolutamente politica. Noi facciamo e lavoriamo nel bello per riuscire a smuovere leve, a sgranchire ingranaggi, a muovere coscienze, a spostare i punti di vista. Il nostro fare attraverso la poesia, la bellezza e l’arte è assolutamente propedeutico a un cambiamento. Che sia il cambiamento di una giornata dove vedi uno spettacolo bello e ti senti più leggero; che sia uno spettacolo che ti smuove le leve in testa e ti aggancia e ti fa ragionare su certe cose; che sia uno spettacolo che non capisci ma che ti smuove dentro nella pancia, nelle viscere, ti tocca, ti vibra ad altezza stomaco; qualunque sia poi la modalità con cui l’arte agisce sul tuo essere, è sempre un’azione politica. Non so quanto la politica possa essere poetica, ma lo dovrebbe essere la politica con la “P” maiuscola: un atto di bellezza. Dovrebbe esserlo, ma non credo che lo sia.




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