Mettiamoci all’opera

Quattro domande a Fillippo Del Corno sul teatro musicale

Pubblicato il 01/07/2001 / di / ateatro n. 014

Qualche settimana fa Filippo Del Corno ha presentato la sua “opera a fumetti” ispirata a Buzzati: un lavoro interessante – oltre che per i risultati artistici – anche per le modalità produttive, per la riflessione sulla forma di un moderno teatro musicale che ne è il presupposto, per la contaminazione con il rock e per l’uso di nuove tecnologie (Watch Out, lo stesso software usato per la Lolita di Ronconi).

Le domande

1) quali sono le forme di teatro musicale che non si possono-devono più fare e perché (in breve); credo siano motivi sia di ordine estetico che economico produttivo;
2) quali si possono invece praticare, che modelli ci sono (o ti piacciono); 2a. (ma a qs punto anche qualcosa sul tuo principio costruttivo “architettonico” di assemblaggio, che di fatto “sostituisce la regia);
3) che rapporto ci può essere con le nuove tecnologie (diapositive, video); (e anche con i videoclip)
4) in un teatro musicale di questo genere che ruolo ha l’attore-cantante-interprete?

Le risposte

1) L’opera lirica è un genere che ha una sua precisa connotazione derivante dai meccanismi produttivi e dalle sollecitazioni culturali che tra il ‘700 e il ‘900 ne hanno fatto il modello di espressione teatrale più popolare. Un aspetto rilevante è costituito dal fatto che la grande diffusione popolare andava di pari passo con un’elevatissima qualità artistica della creazione musicale e teatrale. Questo modello correva insieme alle trasformazioni sociali e culturali della propria epoca fino a che non si è verificato un progressivo distacco: credo che la storia del teatro sia ricchissima di generi teatrali che a un certo punto non riescono più a parlare un linguaggio credibile per i contemporanei. Per quello che so (anche se ne so poco e non so spiegare il perché) è successo alla tragedia classica, alla sacra rappresentazione, al teatro elisabettiano, al teatro verista, e così via. Oggi bisogna prendere atto che non si può fare l’opera con soprani, tenori e baritoni che interpretano personaggi su palcoscenici affollati di scenografie realistiche, con cori bande e orchestre, replicando quindi esattamente la stessa cornice di Traviata. E’ come se Verdi avesse fatto in pieno Ottocento un’opera barocca, con cantanti castrati, orchestre d’archi, recitativi accompagnati dal cembalo, trame scombiccherate e prodigi scenici con fuochi d’artificio. E’ per questo che sono molto scettico sul fatto che oggi un compositore possa parlare usando i vocaboli di una tradizione antica e ormai superata, anche se tenta di inserire in questa cornice modalità espressive di dirompente contemporaneità sperimentale. E’ come incorniciare Pollock dentro un altare barocco. Può essere stimolante, ma solo se lo fai per primo (e in musica ci ha già pensato Cage).
2) Il teatro musicale è invece sempre esistito: l’unione tra parola, musica e gesto scenico da Eschilo a Monteverdi, da Haendel a Wagner ha assunto forme molto diverse tra loro pur mantenendo un principio unificante. E’ ancora possibile, e credo lo sarà sempre, fare teatro musicale, purché mantenga sempre un alto grado di quello che si può definire il tratto essenziale dell’espressione artistica del nostro tempo, ossia quella cosa definita con un termine semplicistico ma efficace “contaminazione”. Oggi il teatro musicale deve essere contaminato, deve tentare di intrecciare linguaggi e pratiche artistiche lontanissime, proponendosi di essere una sorta di laboratorio permanente tra le tantissime possibilità diverse di espressione verbale, musicale e corporea. Per questo ho fatto un’opera a fumetti e magari farò un’opera a cartoni animati, ma ho fatto anche un’opera sui pensieri di un acrobata (personificato contemporaneamente da un attore, un danzatore e un violoncellista, oltre che dalle sue proprie fotografie) e mi piacerebbe fare un’istant opera, un’opera di inchiesta giornalistica. E un po’ alla rinfusa vorrei dire che il teatro musicale che mi interessa fare utilizza pochi cantanti e comunque mai cantanti che si debbano psicologicamente identificare con il loro personaggio così come invece deve assolutamente fare (e guai se non lo facesse) il soprano che interpreta Violetta Valery.
Il teatro musicale che mi interessa fare non occupa il luogo scenico con la simulazione di ambienti dove si dovrebbe svolgere l’azione, ma inventandosi sempre nuove forme di spazializzazione dell’evento scenico. Il teatro musicale che mi interessa fare può chiamarsi ancora opera, purché non sia qualcosa che abbia gli stessi criteri di narrazione teatrale e modalità produttive che si utilizzerebbero per allestire La Traviata. E’ difficile indicare un modello proprio perché l’opera di oggi non può trovare espressione in un modello preciso e replicabile: forse il modello giusto è non avere modelli. La conseguenza è una radicale trasformazione del ruolo del compositore: non si tratta di scrivere solo della buona musica su un testo fatto da qualcun altro perché venga messo in scena da qualcun altro ancora e poi replicato chissà dove da chissà chi. Oggi il compositore deve (dovrebbe) costruirsi ogni volta una squadra diversa che possa progettare insieme a lui ogni volta il percorso creativo giusto per quello che si vuole raccontare; un percorso che sarà inevitabilmente sperimentale e accidentato, ad altissimo grado di contaminazione tra le diverse esperienze che sono coinvolte.
Per Orfeo a fumetti, ma anche in altre precedenti esperienze di teatro musicale, ho fatto lavorare separatamente le persone coinvolte nel progetto, assemblando il risultato del loro lavoro solo all’ultimo momento. Ho scelto insieme a Manuel Cicchetti le tavole del libro di Buzzati e ci siamo scambiati molte idee su quale doveva essere l’impatto visivo del risultato finale. Dopodiché ho lasciato che fosse lui, insieme a Mario Flandoli e Donatella Di Prete, a imbastire la regia delle immagini e il progetto di scenografia multimediale. Intanto scrivevo la partitura dell’opera, e insieme a Carlo Boccadoro abbiamo realizzato prove separate con cantanti e strumentisti. Inoltre mi incontravo spesso con Omar Pedrini, gli facevo ascoltare quello che stavo scrivendo e insieme abbiamo scelto i pezzi per i suoi interventi, continuando a scambiarci idee e stimoli nuovi. Terminata la partitura ho potuto dare a Cicchetti e Flandoli una scansione temporale precisa della musica per sincronizzare le immagini. Infine ci sono state le prove con cantanti e musicisti insieme; poche ore a ridosso della prima ci siamo incontrati finalmente tutti, e abbiamo messo insieme musica, immagini, canzoni, scene e luci.
E’ un sistema di lavoro che ritengo molto efficace, anche se è piuttosto rischioso; ma mi interessa mantenere molto alte le singole temperature creative di interpreti e collaboratori, e questo avviene se ciascuno lavora alla propria parte sentendo una grande libertà e contemporaneamente la responsabilità di fare qualcosa che dovrà poi armonizzarsi con il resto del progetto. Mi sembra che preparare con grande cura i singoli ingredienti e mescolarli soltanto alla fine dia un gusto di imprevedibilità, ma quindi anche di sorpresa, all’evento scenico.
La partecipazione di Omar Pedrini a Orfeo a fumetti è stato uno degli ingredienti più interessanti e stimolanti, ma anche rischiosi, da preparare. La contaminazione come tratto distintivo di un nuovo teatro musicale impone il confronto con gli altri linguaggi musicali che popolano la nostra contemporaneità. Lavorare con stili, idee e pratiche diverse fa’ nascere tantissimi nuovi stimoli creativi, e spesso questi stimoli passano anche al pubblico che ascolta, che conosce e sperimenta insieme agli autori stessi nuove possibilità espressive. In Orfeo a fumetti avere in scena una rockstar è stata una naturale conseguenza della genialissima intuizione di Buzzati: il potere magico e incantatorio del cantore mitico oggi si incarna nel carisma quasi sciamanico di una rock-star. E’ così che ho deciso di coinvolgere Omar Pedrini, leader dei Timoria, ossia del gruppo più interessante e innovativo nella scena del rock italiano. Ma soprattutto quando ho visto un concerto dei Timoria dal vivo, la straordinaria potenza della presenza scenica di Omar mi ha convinto definitivamente: il mio Orfi non poteva essere che lui. La grande considerazione che ho per il lavoro di Pedrini mi ha spinto a invitarlo a far parte del progetto non come puro esecutore, ma anche nella sua veste di autore, facendo incontrare la sua e la mia esperienza compositiva nel suo terzo intervento, dove con la sua canzone E’ così facile la voce di Omar Pedrini veniva accompagnata da una mia versione strumentale del pezzo.
Orfeo a fumetti è un’esperienza di teatro musicale abbastanza strana, per il suo percorso produttivo, per le singole personalità che hanno partecipato alla realizzazione, e forse per il punto di partenza, ossia l’idea di fare un’opera su un libro a fumetti di un grande scrittore-pittore che riguarda il mito che ha dato vita a tantissime altre esperienze di opere liriche e balletti. Ma Orfeo a fumetti è un lavoro che riprende la lezione di tanto teatro musicale novecentesco, rispondendo a criteri di brevità (secchezza narrativa), praticità (impianto scenico facilmente trasportabile e adattabile), e soprattutto economicità. In quest’opera a fumetti non c’è un’orchestra di ente lirico, ma un ensemble di sei strumenti; non ci sono cinque cantanti divi più otto comprimari, ma tre cantanti di musica antica, con un bagaglio di grande preparazione e professionalità; non c’è coro; non ci sono comparse; non c’è quasi allestimento; non c’è struttura produttiva (l’intera produzione è stata realizzata dal lavoro di un’unica persona, Andrea Minetto). Inoltre questa agile povertà mi ha permesso di scegliere uno per uno i collaboratori, senza dover cedere a compromessi di nessun tipo, e realizzare completamente quello che volevo.
3) Le nuove tecnologie sono ingredienti di contaminazione proprio perché sanno abitare lo spazio scenico in maniera molto diversa da quelle tradizionali. Purché non siano un feticcio le nuove tecnologie sono a volte indispensabili per capire quella che è la giusta direzione anche per il compositore stesso. Se non fossi venuto a conoscenza delle possibilità del software di WatchOut non avrei potuto scrivere la musica di Orfeo a fumetti così come è.
Watch Out è un software che permette di “animare” tavole disegnate, muovendole sullo schermo, miscelando ingressi e uscite delle proiezioni, diminuendo e aumentando intensità e gradazioni dei colori. Mi ha affascinato perché era proprio quello che era necessario per simulare quel movimento che il lettore imprime alle immagini di un libro a fumetti, sfogliando le pagine a diverse velocità, concentrando la propria attenzione su un particolare e tornando poi a cogliere l’immagine nel suo insieme. Watch Out permette inoltre di gestire i testi del fumetto in scansioni cronologiche precise, facendo apparire e sparire i balloons della medesima immagine seguendo il ritmo della parola cantata. In questa maniera l’adesione della parola cantata alla parola scritta e quindi narrativamente “detta” dai personaggi o dalle didascalie può essere totale; nella mia prospettiva poter controllare questo aspetto era fondamentale. Il farsi della parola cantata in parola scritta e quindi parola agita dalla storia è uno degli strumenti drammaturgici che secondo me rendono interessante l’esperimento di un’opera a fumetti.

4) Il cantante d’opera tradizionale è morto: basta vedere la triste fine di Pavarotti per capire che quel ruolo si è definitivamente esaurito. Devo aggiungere che non mi dispiace troppo: non ho mai amato quel tipo di cantante e i duelli Callas-Tebaldi mi sono sempre sembrati ancora più stupidi di quelli sportivi. Almeno nello sport chi arriva primo vince.

Oliviero_Ponte_di_Pino




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