Gay e Noh

Da Ravenhill a Zeami

Pubblicato il 15/03/2002 / di / ateatro n. 031

Mother Clap’s Molly House
di Mark Ravenhill

ALDWICH THEATRE
COVENT GARDEN
 
Regia: Nicholas Hytner
Musica: Matthew Scott
Coreografia: Giles Cadle
Luci : Rick Fisher
 
Dopo essere stato trasferito dal National Theatre, Southbank, continuerà fino al 16 marzo la programmazione del “musical” di Ravenhill sulla diversa consapevolezza della realtà gay di oggi rispetto a ieri.
Mark Ravenhill viene considerato uno dei capisaldi del “in-yer-face theatre” o anche teatro di rottura, aggressivo e provocativo come suggerisce il nome stesso scelto per questa corrente di nuovi scrittori britannici degli anni ’90.
Per poter dire di avere visto uno spettacolo “in-yer-face” ci si deve sicuramente sentire confrontati con scene e linguaggio decisamente trasgressivo, sesso, violenza e umiliazione che in qualche modo provocano e si scontrano con l’inautenticità dei nostri tabù e delle nostre paure, provocando il pubblico a una reazione, qualsiasi.
Può essere la voglia di uscire perché non capaci di sostenere un tale “affronto alla decenza”, o saltare sul palco e “SSTTOOPPPP, The show can’t go on”. Oppure, tornare a casa, con la voglia di rivedere uno spettacolo simile, dove quello stato di subbuglio, non chiaramente giustificato, viene apprezzato avendo sicuramente smosso qualcosa, masochismo o presa di coscenza?
Mark Ravenhill, sfacciato scrittore britannico che con il suo Shopping and Fucking (tra l’altro attualmente messo in scena a Genova dal Teatro della Tosse) ha sbalordito Shaftesbury Avenue (West End) facendo parlare di sé su scala internazionale ed è diventato un’icona della nuova drammaturgia inglese.

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Il racconto di Ravenhill si basa su un fenomeno sociale ricorrente nel 18° secolo, dove uomini – eterosessuali e non – pagavano per indossare abbigliamento femminile e per poter automaticamente “giocare” ruoli adatti all’abito.
Anche se in modo molto generale, questa storia mi ha riportato al testo di Jean Genet, Il balcone, dove uomini facoltosi della città pagavano la “Madre” del bordello per essere liberi di indossare per un breve momento le vesti che desideravano e viverne le fantasie più intime in una loro realtà illusoria.
Anche il testo di Ravenhill solleva alcune questioni sulla realtà sociale e sull’identità sessuale; i ruoli giocati ne fanno un motivo di racconto e rappresentazione .
Siamo a Londra, 1726 e Mrs Tull incorre in problemi finanziari. Il lavoro è vicino al fallimento, le sgualdrine del quartiere diventano sempre più esigenti, il marito muore. Un uomo si presenta vestito da donna e l’apprendista scompare di notte tornando con strane scuse.
Come farà Mrs Tull a recuperare la situazione?
Contemporaneamente nel secondo atto, con semplici cambiamenti di set, siamo catapultati nel 2001, dove Will e Josh, nel loro lussuoso appartamento di città, tra droga, uomini e rock & roll si annoiano, dopo avere apertamente simulato atti sessuali e sfoggiato mutandine firmate rigorosamente Calvin Klein.
Se considero questo spettacolo come semplice divertimento, mi sono goduta momenti come gli interventi celesti del “cupido post-gay” che interviene con gorgheggi musicali, il gran finale alla “Village People”, o l’atmosfera di gioco e scoperta che permea in particolare il primo atto.
Lo stile, decisamente forzato e un po’ kitsch, ha reso i personaggi una caricatura di loro stessi perdendo spesso qualsiasi connotazione reale.
Se guardo al contesto sociale, Ravenhill critica chiaramente la realtà di oggi in cui sentimenti e altruismo non esistono più. Resta solamente il sesso, privato di alcuna connotazione romantica e dove il singolo trionfa nella sua individualità ed egoismo.

“Le anime delicate potrebbero risentirsi, ma senza alcun dubbio Ravenhill accusa la trasformazione del sesso in uno sporco affare” (“The Guardian”)

Nel complesso ho trovato una certa lentezza nella messa in scena, e una volta uscita dal teatro ero più annoiata che in subbuglio. Il linguaggio e le scene “hard” hanno sicuramente rispettato la corrente di cui Ravenhill fa’ parte, ma non basta.
È sicuramente un “teatro-musical” di nuova concezione, dove oltre al racconto si vuole lanciare un messaggio.

NOH performance
FUNABENKEI E TAMAKATSURA
di AKIRA MATSUI

At SOAS, NOH GROUP, Università di Londra
Teatro-Conferenza condotti da Dr. David Hughes, specializzato in musicologia orientale
Festival di Brighton / Marzo 2002

600 anni fa, il maestro giapponese Zeami, disse: “Ogni fenomeno nell’universo si sviluppa attraverso una specifica progressione”. Anche il canto di un uccello o il rumore di un insetto seguono questa progressione. Questo è chiamato Jo, Ha, Kyu.

Motokiyo Zeami (d.C. 1363-1443) è il fondatore del teatro NOH. Egli fuse due stili teatrali, Sarugaku una forma di divertimento prevalentemente circense o teatro di strada; e Dergaku, che ha le sue origini nei canti e danze popolari.
Nonostante questo teatro, sviluppatosi nel tempo, sia nella forma che nella tecnica, possa sembrare estremamente stilizzato e difficile da comprendere per la cultura occidentale, in realtà le sue convenzioni si basano su un’accurata osservazione dei semplici risvolti della natura e della sua progressione ritmica.

Jo = inizio o apertura;
Ha = pausa o sviluppo;
Khy = climax
.

Ogni singolo gesto, così come l’intera rappresentazione nella sua globalità, segue questa struttura della progressione costante.
I temi affrontati e la drammaturgia sono estremamente semplici. Il crescendo di singole emozioni è presentato grazie alla composizione dell’uso dello spazio (geometria) e della musica.
I principali temi trattati sono la compassione, la tolleranza, l’amore, la gelosia, la vendetta e lo spirito del samurai.
Una persona triste non parlerà dei suoi sentimenti, ma si esprimerà servendosi di immagini tratte dalla natura, per esempio “l’estate è finita”. Le emozioni si spiegano mediante la natura. Raramente il personaggio si esprime attraverso il proprio ego, ma sempre come un riflesso della natura stessa.
Come nel teatro greco, il teatro NOH mantiene una gerarchia interna escludendo inoltre le donne i cui ruoli sono interpretati da uomini. I ruoli principali (SHITÈ) richiedono l’uso della maschera.
E’ stato invitato a condurre questo spettacolo Akira Matsui, maestro di una della cinque principali scuole di teatro classico NOH, la scuola Kita. Negli ultimi 25 anni è stato molto attivo nel diffondere la cultura NOH in tutto il mondo, organizzando spettacoli e stages in USA, Canada, Australia, Inghilterra, Germania, India, Indonesia, Polonia. E’ stato coinvolto in progetti su Shakespeare, Georgia O’Keefe, WB Yeats. Nel ’98 è stato designato dal Governo Giapponese come asset importante per la cultura giapponese, ricevendo un riconoscimento al merito per la cultura.
In quest’occasione, sono stati rappresentati alcuni estratti da tre principali testi classici spesso ricorrenti nelle storie NOH.

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Sono arrivata allo spettacolo particolarmente curiosa di osservarlo dal punto di vista del movimento giacché questa tecnica viene spesso paragonata alla Commedia dell’Arte, o alle Danze Balinesi o al Kathakali, in quanto derivano tutte dalla cultura popolare di cui mantengono gli stereotipi pur sviluppandosi nel tempo.
Ogni personaggio, ritornando al senso della ritmica progressione naturale, si muove con una precisione assoluta e ogni minimo movimento ha una sua denominazione, corrisponde ad una situazione o un sentimento. L’insieme di questi movimenti che, se sezionati, diventano un’infinità, dà un senso di precisione assoluta. La richiesta costante di presenza fisica e di spirito, fa sì che questi attori si muovano sul palco come su una piattaforma mobile, un po’ come certi carillons di una volta.
I loro piccoli piedi, in calzini bianchi con il pollice separato dal resto delle dita, la pianta del piede rigorosamente piatta mai inarcata, appoggia prima su un punto preciso del tallone che poi va ad appoggiarsi lentamente sul resto della pianta, susseguendosi con precisa fluidità. A seconda del personaggio le braccia assumeranno una specifica posizione e ripeterà sempre e soltanto un certo tipo di movimenti muovendosi secondo un cammino ben preciso. Peso del corpo in avanti, indietro, collo, spalle, il linguaggio del corpo che segue piccoli movimenti frammentari che ne compongono uno preciso e distinto, tipico di quella maschera.
La rappresentazione si costruisce cumulando tutti quei dettagli superficiali, TAI-YU

TAI = fiore
YU = essenza

Concentrandosi sul TAI, l’interiore, il fenomeno, automaticamente YU, l’espressione si manifesterà. Se TAI è la luna, YU è la luce riflessa (yin/ yang).
Una forte concentrazione aiutata dalla tecnica zen, dove tutto è uno, rende lo spettatore calamitato, incantato dalla fluidità dei movimenti e, pur non comprendendo con immediatezza il significato di ogni gesto, azione e intenzione, si perde in questa compattezza dove nulla è lasciato al caso. Disciplina rigorosa, presenza fisica e scenica. I piedi sembrano scivolare leggeri, poi veloci, poi imponenti, si elevano in aria e ripiombano al suolo con tutto il peso del corpo e suoni sordi. Il corpo, che in una progressione ritmica di movimenti prefissati può essere tanto piccolo, fragile e tentennate nell’impersonare un donna, può trasformarsi, allungarsi, allargarsi e mostrare aggressività e imponenza nell’impersonare per esempio un guerriero. L’attore e le sue dimensioni sono sempre le stesse eppure, sarà un effetto ottico, ma sembra di osservare due persone diverse con un’aura di energia ben distinta.
Maschere più stilizzate alternate a maschere con lunghi e crespi capelli corvini. Espressioni dipinte, la donna fragile o il guerriero. Le figure minori e i bambini non richiedono maschera, ma sempre indossano costumi abbondanti nei decori, nelle forme e nel peso.
I suoni emessi da flauti e tamburi accompagnati da vocalizzi gutturali, dati dalle 4 vocali dell’alfabeto giapponese A E I U, armonici, puntuali e pungenti. (Tamburo: immaginate un piccolo bilanciere dove all’estremità invece dei pesi tondi ci siano due piatti di porcellana da frutta riccamente decorati).
Impossibile non seguire, facile perdersi in quest’onda che nasce in mondi lontani e s’infrange contro le insenature delle nostre scogliere interiori.
Vedere tutto questo ha riconfermato la mia convinzione dell’importanza della tecnica e del “focus” (concentrazione), che permettono all’attore e alla sua esecuzione di rivelarsi nella sua libertà di espressione. Da gabbia-prigione a libertà di espressione.
Ancora una volta, Londra ha permesso di testimoniare una fetta della cultura orientale a noi lontana solo in apparenza, poiché in realtà rispecchia gli elementi naturali universali: fuoco, acqua, aria e terra.
Mi considero fortunata di avere partecipato a questo scorcio di cultura e il fatto che la performance non fosse in un teatro ufficiale, ha reso il tutto molto più accessibile e tangibile permettendo di partecipare a quei momenti di vita intimi, accoglienti e famigliari che si nascondono in tanti angoli della città.
Un ringraziamento particolare al Dr. D. Hughes, professore in musicologia orientale, che ha condotto la serata con grande umiltà e ironia, ripercorrendo piccoli e buffi aneddoti dei suoi primi contatti con il mondo orientale.

Veronica_Picciafuoco




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