Il teatro yoruba

(parte prima)

Pubblicato il 02/08/2002 / di / ateatro n. 039

La Nigeria ha avuto una tradizione letteraria più lunga di qualsiasi altra colonia inglese in Africa. Quando gli inglesi, alla fine del secolo diciannovesimo, si addentrarono nel territorio yoruba, non trovarono capanne di agricoltori ma città fiorenti, in cui esisteva una cultura elaborata e vivace, con luoghi di culto, di mercato e palcoscenici per gli spettacoli; trovarono poesia e scultura. All’inizio del 1900 furono fondate scuole pubbliche in lingua inglese, di conseguenza la letteratura inglese, con un accento particolare su Shakespeare, rappresentava la parte più cospicua della formazione scolastica.
Nel 1948 nacque l’Università di Ibadan, che doveva seguire standard imposti dall’Università di Londra e inevitabilmente la Facoltà di Arte organizzava corsi sulla cultura inglese, oltre che sugli immancabili classici europei.
Non sorprende il fatto che, in questa cultura trapiantata, il teatro indigeno abbia impiegato molto tempo a emergere, infatti l’innovazione culturale non era incoraggiata dai professori.
Il metodo più sicuro per soddisfare la richiesta scolastica era fare riferimento ai capisaldi della cultura occidentale, da Molière ai greci.
Il teatro che troviamo finalmente oggi in Nigeria è il risultato di secoli di esperienze e prende origine dalla vita stessa della gente, dalla sua religione, dalla sua storia.

GLI YORUBA
Gli yoruba costituiscono una delle principali tribù della Nigeria, insieme agli Ibo e agli Hausa. La loro sede originaria è la Nigeria, ma si possono trovare anche in altre parti dell’Africa, come ad esempio la regione del Dahomey. G.J. Afolabi scrive:

L’area culturale tipica degli yoruba coincide con le sei regioni della Nigeria occidentale: Oyo, Ibadan, Abeokuta, Ijebu, Ondo, Lagos.1

L’economia yoruba è al 50% di tipo agricolo: una delle colture principali è quella del cacao, di cui gli yoruba sono fra i maggiori esportatori nazionali. Altri prodotti tipici sonno l’olio di palma ( da cui viene ricavato anche il vino di palma, bevanda usata sia per le cerimonie sacre che nella vita di tutti i giorni), la cola e l’igname (sorta di tubero simile alla patata), simbolo di prosperità e vita nella credenza tradizionale. Il tema del raccolto è fondamentale nella drammaturgia indigena, per quanto anche la caccia e la pesca siano attività abbastanza importanti nella vita yoruba.
Negli ultimi decenni la Nigeria ha avuto un forte sviluppo nel settore petrolifero, divenendo una delle maggiori esportatrici africane ma non mancano nel paese industrie di trasformazione e manifatturiere, fra cui le più sviluppate sono quella tessile, di prodotti agricoli , di materiale da costruzione e di metallurgia leggera.
Nel territorio yoruba le città sono vaste e popolate e rivestono un ruolo importante anche dal punto di vista religioso: Ife, ad esempio, è vista da ogni yoruba il proprio luogo d’origine, una città santa e l’Oni (sacerdote) di Ife è considerato un capo spirituale.
La religione domina la vita di questo popolo:

Il concetto di base, il modo di vedere il mondo, nelle società tribali dell’Africa occidentale, è costituito dall’idea che la realtà più immediata è quella spirituale. 2

La filosofia è basata su una profonda armonia, in cui uomini e dei sono sullo stesso piano e le divinità hanno caratteristiche fortemente umanizzate; l’idea centrale è quella della qualità ciclica dell’esistenza, parallela alla qualità ciclica della natura e i riti mostrano il ciclo ripetitivo della morte e della rinascita. Dilatandosi fra passato e futuro, la vita umana si estende fino agli spiriti di coloro che sono morti e di coloro che non sono ancora nati. Il mediatore fra vivi, morti e coloro che seguiranno è l’abiku child, un bambino che, nato per morire, tormenta sua madre: incontra infatti la morte nella prima infanzia, ma rinasce ancora dalla stessa mamma, per morire di nuovo. Il bambino abiku è una personificazione dei poteri della morte, è il simbolo di una delle idee centrali nella religione yoruba, quella della reincarnazione. Rappresenta di conseguenza anche il futuro.
La divinità suprema che presiede al pantheon yoruba è Olorun, dotato di onnipresenza, onniscienza e onnipotenza: è considerato troppo perfetto per essere oggetto di culto. Dopo Olorun vengono le altre divinità maggiori o orisha: Esu, il diavolo, Ifa, la divinità profeta, Obatala, capostipite degli orisha insieme alla moglie Oduduwa, Sango, dio del lampo e del tuono, infine Ogun, dio del metallo e della guerra (principalmente). Dopo gli orisha seguono gli spiriti divinizzati degli antenati e altri spiriti minori. Agemo è capo degli spiriti ancestrali e presiede alcuni culti dei morti, con Eluku e Oro. Importante è l’Egungun, culto di molti spiriti che possono manifestarsi in qualsiasi momento ma soprattutto in occasioni importanti (v. nascita, matrimonio, morte).
C’è infine un numero minore di orisha:

Al di sotto delle divinità ci sono numerosi spiriti degli antenati e delle cose. Alcuni dei sono antenati elevati al rango di divinità. Per esempio Shango un tempo era il re di Oyo. Gli dei e gli spiriti degli antenati sono molto vicini fra loro: gli alberi, alcuni terreni, i fiumi etc. potrebbero essere identificati con gli stessi spiriti che li rendono sacri. 3

La tradizione yoruba presenta un aspetto animistico molto vivace e i miti sono permeati da una forte vena poetica:

Per ciascuna delle centinaia di divinità ci sono apposite canzoni, danze, strumenti musicali, inni di lode, simboli, cibi sacrificali coi quali vengono nutrite. Gli yoruba non adorano i simboli ma gli dei da essi rappresentati. Gli dei hanno i loro litigi, le loro storie d’amore, le loro città d’origine e il tutto è in stretta relazione coi luoghi dove, giunti sulla terra, sono adorati sotto forma di roccia o di fiume. 4

A proposito della lingua yoruba, E.Jones scrive:

Tutta la cultura yoruba è custodita nel linguaggio musicale, che dà l’impressione di essere cantato più che parlato. Questi ritmi e queste tonalità non possono essere traslati nella lingua inglese. 5

La questione della lingua nel teatro africano
Il problema della lingua presa in prestito da altre nazioni è uno dei più dibattuti negli ambienti intellettuali e politici africani. Quasi dappertutto esistono programmi radiofonici e televisivi impostati su un sistema perlomeno bilingue: una o più lingue indigene affiancano la lingua che prima la colonizzazione e poi i rapporti internazionali hanno reso sempre più necessaria e hanno organicamente diffuso attraverso l’alfabetizzazione scolastica.
L’uso letterario delle lingue indigene pone, o porrebbe, molti problemi : in primo luogo perché le aree linguistiche non coincidono con quelle degli stati (che ricalcano invece le spartizioni coloniali, indifferenti alle etnie e alle culture locali);bisogna poi considerare che, in parte ancora a causa delle ripartizioni territoriali degli stati, le lingue indigene assunte come lingue nazionali si imporrebbero sulle etnie minori, riproponendo fenomeni di colonialismo linguistico. Infine si deve tenere conto che la codificazione scritta delle lingue indigene, iniziata in generale dai missionari, non è ancora perfetta.
Ma un altro ordine di problemi è forse il più difficile da superare: quello del mercato, quasi sempre infatti le aree linguistiche principali sono troppo esigue per sostenere un mercato di diffusione libraria; scegliere quindi di esprimersi in una lingua europea può quindi diventare un’esigenza di diffusione.
C’è un aneddoto di Labou Tansi, scrittore dell’area del Congo:

Mi hanno chiesto “Perché scrive in francese?” Siccome la domanda mi veniva posta in francese, mi sono stupito e ho detto ” Si può fare altrimenti?” 6

Commentando l’attribuzione del Nobel per la letteratura a Wole Soyinka, Claudio Gorlier disse:

Se Soyinka – già fellow a Cambridge – si affida a un linguaggio di grande rigore letterario, a una retorica drammatica di respiro quasi elisabettiano nelle sue scansioni ma incentrata su diversi livelli di discorso e intessuta di tensioni tragiche e ironia beffarda, egli non consente tuttavia una lettura in chiave riduttiva occidentale. Infatti la sua parola inglese s’impadronisce della crisi dell’individuo trasformandola in crisi della parola stessa, intesa religiosamente come Verbo, senza più certezze assolute, e in Carne, esposta alla corruzione. 7

Lo stesso Gorlier, in un’intervista a Ben Tomolojou, drammaturgo e giornalista nigeriano, nonché art director del “Guardian News Paper” di Lagos, chiede delucidazioni sul problema della lingua in Africa:

D: Veniamo al problema del linguaggio. Lei scrive in inglese ma inserisce passi in yoruba. E’ un compromesso? Come vede il futuro del suo teatro da questo punto di vista?
R: Io penso a un teatro totalmente in lingua africana, nel mio caso yoruba. L’alternativa si può porre in questi termini: dobbiamo giungere a un teatro popolare, nel senso che sia diretto al popolo. Questo teatro, che deve essere in lingua africana, si sta sviluppando ma non esiste ancora. Così noi scriviamo, io scrivo (o meglio costruisco, perché non si tratta solo di parole un testo teatrale) ma questo teatro tende a essere alienato rispetto al popolo. Il nostro futuro teatro dovrà essere del popolo, senza rinunciare alle esperienze, ai risultati e alla lezione del teatro letterario.
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E’ interessante il fatto che, coerentemente a quanto affermato sopra, l’autore non abbia mai voluto pubblicare e diffondere le sue opere all’estero. Lo stesso Soyinka, che scrive esclusivamente in inglese, ha sempre dato aiuto e sostegno alle compagnie teatrali che recitano in yoruba o in altre lingue africane, come quelle di Duro Ladipo, Hubert Ogunde, E.K.Ogunmola tutte nell’ambito dell’opera folk.
L’interesse di Soyinka per la lingua locale emerge anche attraverso la traduzione che egli ha fatto dell’opera The Forest of a Thousand Daemons , originariamente scritta dal romanziere D.O. Fagunwa.
Tomojolou accetta alcuni aspetti dell’idea di Soyinka circa l’impegno dell’artista come mediatore delle verità che sostengono la vita collettiva e quindi anche quello della decolonizzazione della lingua, ma per lui questa decolonizzazione avverrà tout court col passaggio all’uso di lingue nazionali africane.
Soyinka ritiene invece sterile, o perlomeno limitativa, una ricerca tesa prevalentemente al recupero delle radici della cultura africana; nella sua visione cosmopolita egli considera anche la lingua che ha scelto una koiné che garantisce l’osmosi e lo scambio fra culture diverse.
Sylvan Bemba, scrittore francofono, saggista e giornalista, ha interesse per le diverse forme di espressione artistica, in particolare il teatro e la musica; si è inoltre sempre impegnato politicamente per risolvere i problemi del proprio paese, il Congo (attuale Zaire). Il suo si potrebbe definire un teatro terapeutico, con lo scopo di correzione sociale e reintegrazione al gruppo degli emarginati, dei disadattati e talvolta dei malati di mente. Alla pratica terapeutica concorrevano la favola di elaborazione collettiva, il ruolo di portavoce del gruppo, l’insieme rituale, la partecipazione del pubblico. In una fase della sua ricerca Bemba ha scritto e pubblicato un testo teatrale in petit-negre, il francese fonetico e maccheronico parlato nell’Africa francofona dalle classi subalterne urbane:

Un foutu monde pour un blanchisseur trop honnete

Ma è Labou Tansi il più prolifero in fatto di giochi nati dal tentativo di integrare la lingua africana con quella francese. Egli afferma:

A partire dagli anni sessanta la gente comincia a dirsi: ” Scrivo con l’idea di inventare un linguaggio dentro a questa lingua”. Veniamo quasi definiti prigionieri della lingua francese. Se ne fa una questione di stato. Credo che si debba a tutti i costi prendere atto di una realtà, convertirsi a una realtà: oggi esistono paesi che vivono in francese. Io non ho conti in sospeso con la lingua francese, li ho con la mia identità, con la mia cultura. Sono in conflitto con me stesso quando devo comunicare a altri cose percepite solo attraverso i libri, come ad esempio: La Senna, grande fiume francese.
In riva alla Senna io mi aspettavo qualcos’altro. Il problema si pone perché adesso so che è possibile che qualcuno dica: Senna, grande fiume – e io dica: Congo, fiume.
Ho un rapporto più diretto con le parole e con la sintassi francese e ho voglia di dare un calcio alla sintassi e anche qualche calcio alle parole per inventare un linguaggio tropicale, lussureggiante e fuori dalla linea retta. Mi sembra un’esperienza importante che può essere coniugata con altre esperienze umane. Ecco perché mi pare che il dibattito francofonia/francese sia abbastanza secondario. Il linguaggio ha sempre più bisogno che si lavori per lui.
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Il punto in comune a tutti gli scrittori di teatro africani è quello della ricerca di autenticità, non solo linguistica. A questo proposito afferma ancora Labou Tansi:

Ho lavorato in teatro in Europa, ho visto molti spettacoli e ho notato che il teatro, che dovrebbe rimanere mezzo di espressione del corpo, dell’anima, della parola, e della forza dell’attore e del testo, è diventato una dimostrazione di sofisticazioni inimmaginabili. 10

Soyinka, dal canto suo, sottolinea l’importanza di un teatro nazionale, che porti in scena i problemi dell’Africa e ne renda cosciente il mondo intero:

Vorrei direttamente confrontarmi con una delle sfide che ci assalgono. Qualcuno potrà credere che non si tratti della più cruciale, ne invocherà altre come la fame, la malattia, la minaccia di annientamento totale etc. Qualcuno sottolineerà l’esiguità delle nostre risorse e la debolezza della nostra arte per farsene carico. Saranno pochi a negare che in questo caso si tratta dello scandalo più evidente dei nostri tempi e che l’angoscia e la rivolta delle vittime hanno finalmente incominciato a incidere la corazza di indifferenza con cui il mondo si proteggeva ostinatamente. Penso che sia chiaro che intendo parlare del razzismo (…) 11

NOTE
 
1. G.J.Afolabi, Yoruba Culture, Ife, University Press, 1971, p.20
2. M.Laurence, Long Drums and Cannons, London, Macmillan, 1968, p.13
3. E.Jones, Writing of Wole Soyinka, London, Methuen, 1967,p.87
4. W. Bascom, The Yoruba of Southwestern Nigeria, New York, Rinehart and Winston, 1959,p 97.
5. E. Jones, ibid.., p.8
6. Dichiarazione riportata da Egi Volterrani nella Introduzione a Teatro Africano, Torino, Einaudi, 1987, p.VI
7. Ibid.
8. Intervista di Claudio Gorlier a Ben Tomolojou, Lagos, Maggio 1987, in appendice a Teatro Africano , cit. p. 331
9. In Egi Volterrani, Introduzione a Teatro Africano, cit., p. VII
10. Ibid., p.VIII
11. Dichiarazione di Wole Soyinka, in appendice a Teatro Africano, cit., p.324

Francesca_Lamioni




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