Fino all’ultimo respiro

L'Orfeo dei Sacchi di Sabbia
Pisa, Chiesa di Sant'Andrea, 21 aprile 2002

Pubblicato il 28/10/2002 / di / ateatro n. 034

“Orfeo è l’’inizio di un percorso intorno alla perdita l’elaborazione di un lutto.
Si piange forse per la perdita della vita, dell’’umanità…
I personaggi (o sub-personaggi) non sono reali vengono dal niente e finiscono nel niente. Nella partitura delle loro azioni l’’ombra di un episodio concreto s’’intuisce soltanto forse sono ad un funerale, forse nella stanza di qualcuno che se ne sta andando… o forse sono loro a vivere così, sempre eternamente addolorati… e comici loro malgrado.
Manca loro qualcosa che li ancori alla concretezza del mondo…
La prima grande privazione di cui tratta questo primo studio è il Respiro. Nessuna ragione biologica toglie ad Euridice la capacità di respirare. Lei non respira più.
Il respiro che viene a mancare è il primo canto che si infrange”

(dal programma di sala dello spettacolo).

Spiazzante e coraggioso questo Orfeo muto, completamente muto, allestito nello spazio ristretto della suggestiva chiesa di Sant’Andrea a Pisa che da qualche anno ospita rappresentazioni teatrali.
Il pianto non si addice a Orfeo, e il lutto per l’amata Euridice non trova adeguata espressione né forma alcuna se non nel silenzio e nell’urlo soffocato, spezzato nel suo nascere.
Un respiro negato, ingoiato insieme alle lacrime, alle parole, alle lamentazioni.
Non spasimo, non grida, non gesti.
“E’ banale”. Emerge la condizione del dolore. La cognizione del dolore.
“L’eroe tragico”, ricordava Franz Rosenzweig, “ha soltanto un linguaggio che gli corrisponde alla perfezione – il silenzio. Così è fin dal principio. Proprio per questo il tragico si è costruito la forma artistica del dramma per poter mettere in scena il silenzio”.
Unica traccia di vita è il passato, che riemerge in forma di ricordo luminoso e fa girare vorticosamente in tondo l’uomo e la donna che non esprimono in questo rincorrersi, nient’altro se non la brevità della felicità terrena e l’appartenenza alla fragile condizione umana e non all’immortalità divina. Su una scena completamente scura (ricavata in uno spazio liturgico e silente per eccellenza: il transetto della Chiesa) appare Euridice vestita di bianco che Orfeo, senza pronunciare una parola, tenta vanamente di rianimare con un ridicolo ventilatore. E’ seduta immobile, in posa, statua o sarcofago, oggetto tra gli oggetti, con il lumino in mano, fiamma che non si può spegnere ma solo finché la memoria (Mnemosine) la alimenta, la disseta. Magra consolazione. La vita se n’è andata. Euridice è diventata la marmorea reliquia e l’etereo ricordo, e di fronte a lei (e al senso dell’ineluttabilità del destino umano che simboleggia) Orfeo, la “maschera del dolore”, che come Amleto, non “si scioglie in lacrime” e resta solo nella glaciale solitudine, nel dolore intollerabile e inconsolabile, perché la morte trascina via tutto.
I polmoni marciscono atrofizzati senza ossigeno e ogni suo tentativo di riportare alla vita ciò che non ha più respiro sembra l’atto di un folle. Il ventilatore con cui Orfeo si fa scudo inutilmente, infatti, getta “aria” intorno alle cose, agli oggetti del passato, ai sudari, alla stanza, ma la vita non si rianima. E’ la sua arma, il suo “polmone artificiale” ma la fiamma si spenge e lascia il posto al buio eterno, alla tragica consapevolezza dell’impossibilità di un ritorno, alla “definitività dell’annientamento” (Severino).
Unica via di uscita, la sospensione teatrale del gesto, che colloca la rappresentazione fuori dal tempo umano, dal tempo ciclico di nascita e morte per provare, per un attimo, l’ebbrezza di “desistere dal ciclo e prendere fiato dalle miserie”, secondo le parole che la tradizione stessa attribuisce ad Orfeo.
Questo Orfeo, come Amleto, ha dentro “ciò che non si mostra”:

“Amleto è stato colpito da un dolore insopportabile. Ma grazie a questo dolore egli vede ciò che gli altri non vedono, e al tempo stesso, in conseguenza di tale conoscenza, è diventato un “separato”…La maschera sociale del dolore è l’unico modo di dire una sofferenza indicibile, ma non per Amleto egli si presenta alla madre con la maschera del dolore senza riuscire a superarlo. Amleto è incapace di far passare il morto in valore. Questo tipo di processo avviene generalmente nei riti con il lamento si trasforma il dolore in valore. Il lamento recupera la corretta respirazione che era stata interrotta dal pianto”.(Fernando Mastropasqua)

Il teatro diventa emblema di questo tentativo negato di una rigenerazione metamorfica che nasce proprio dal respiro:

“In questo teatro porto la mia fatalità personale che ha come punto di partenza il soffio”. (Antonin Artaud)

Accompagnano Orfeo i lamentatori (come le prefiche di tradizione popolare che, pagate, intonano il pianto) mettendo in scena la finzione del dolore. E’ il loro mestiere. Come attori. Lo inseguono, portano con sé l’uno un grande fazzoletto aperto l’altro un vaso di fiori bianchi, è una coppia tragicomica da avanspettacolo. La situazione cui danno vita è a tratti surreale e il dramma sembra sempre sul punto di cadere nel comico (come in Entr’acte di René Clair), ma non si conclude mai, si ripete , invece, ciclicamente all’infinito.
Tutto è perduto per sempre e il dolore per il quale Orfeo soffre non ha una storia: è eterno e indicibile.
Sintesi estrema di un concetto – più che di un testo letterario – auspice un mito antichissimo – lo spettacolo sfoga afono l’impossibilità di ogni rappresentazione e azzera la scena con quel vuoto che lascia attoniti e colpiti al cuore nel profondo delle nostre esistenze anestetizzate. Come non leggere questo silenzio di Orfeo – che non è assenza ma al contrario, sensibilità acuita e incomunicabile riflessione sulla tragicità del vivere – come un precipitare nelle ferite del mondo, nel “respirarne con dolore” le atrocità e nel diventare parte stessa di un’umanità offesa?
Come non leggere l’urlo muto come il lamento del teatro reso incapace di porre fine al male?
Questo spettacolo – che conserva passi comici come da registro tipico dei Sacchi di Sabbia – agita le acque di una giovane generazione che ha capito quello che è vitale oggi a teatro, non più i testi, la scenografia, l’estetica, ma, appunto, il mondo. O tutto quello che rimane.
 
Questo testo parte dalle considerazioni del saggio di Fernando Mastropasqua Dolore e rappresentazione scritto per La maschera volubile (a cura di A.M. Monteverdi, Corazzano-Pisa, Titivillus, 2000) e rimanda agli efficaci esempi ivi riportati (Madre Coraggio interpretata da Helene Weigel, il primo stasimon dell’Antigone del Living dove gli attori piangono lacrime vere e il Riccardo III televisivo di Carmelo Bene). Non possiamo non ricordare, a questo proposito, anche “Accerchiando Amleto” in Metamorfosi del teatro, testo scritto da Fernando Mastropasqua e rielaborato per il volume proprio dal regista Giovanni Guerrieri.

Anna_Maria_Monteverdi




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