Teatro delle interfacce

Ovvero la tecnica come questione d'arte

Pubblicato il 14/05/2003 / di / ateatro n. 052

Questo testo è stato pubblicato originariamente su “anomalie n.2 digital performance”; manythanks a ANomos che ci ha concesso di pubblicarlo e a Erica Magris che l’ha tradotto.

La tecnica è una questione d’arte.
Chi si interessa alle relazioni fra il teatro e le nuove tecnologie dovrebbe meditare su questa considerazione di Piscator: la tecnica è una questione di arte. Come se, una volta posta, la questione della tecnica a teatro subisse uno spostamento ed una trasformazione. In realtà essa non si mette a vibrare se non in questo allontanamento dal centro, nell’oscillazione continua tra i due poli di una riflessione più ampia. Si intensifica tanto più si snoda legandosi a concezioni estetiche, drammaturgiche e sceniche. Se la questione delle nuove tecnologie ci interessa è perché rilancia e riapre dei dibattici estetici che si estendono dalla drammaturgia alla concezione della recitazione, dalla scenografia all’architettura teatrale. L’idea dell’autonomia della tecnica è la posizione implicita e alla fine condivisa – come se si trattasse di sostituire un pregiudizio con un altro – da un lato degli artisti che riciclano idee consunte in nuovi dispositivi, dall’altro di quelli che rifiutano di mettere la loro prassi alla prova degli avvenimenti, dei mutamenti del pensiero e della sensibilità collettiva, in un’epoca che pone il teatro in pericolo e che lo costringe a dare continuamente dimostrazione del proprio potere.

Utopia e storia
La costruzione di scene generate e controllate dal computer è un fatto senza precedenti. Queste configurazioni sceniche, però, non sono delle creazioni ex-nihilo. Coscientemente o no, esse si riallacciano a delle esplorazioni o a delle preoccupazioni anteriori degli uomini di teatro. Richiamano, risvegliano, riattivano le radici sotterranee di un altro presente del teatro, a cui attribuiscono delle nuove possibilità. Non si tratta tanto di ricreare delle artificiose filiazioni, quanto di stabilire delle risonanze – non esclusive, ma a volte ignorate – fra le ricerche più contemporanee e alcune esperienze precedenti.

Kiesler
Kiesler si è in primo luogo fatto conoscere per la sua messa in scena del dramma di Kapec Rossum Universal Robot (1923), in cui trasponeva su un piano estetico i segni e i simboli della tecnica delle sua epoca. Architetto, egli si è sempre interessato al teatro in quanto luogo in cui si esercita il proprio sguardo, in cui si mettono in gioco dei punti di vista, in cui si interroga il visibile; egli soleva dire: ” la scena ha le sue proprie leggi, non è data in subaffitto ai fabbricanti di libri “. E queste sue leggi dipendono innanzitutto da una scienza della visione. In tal modo, egli rompe molto presto con la “scena-quadro”, che fissa lo spettacolo nella scatola ottica, per concepire delle “scene-spazi”, cioè dei dispositivi scenici intorno ai quali lo spettatore può muoversi, scegliendo così i propri angoli di visione. Per questo architetto visionario,che alla fine è riuscito a costruire ben poco, il teatro era associato alla libertà tecnica. Nel suo ambito era possibile realizzare ciò che non era mai stato fatto o ciò che era ormai scomparso. Il teatro era un laboratorio di prova dove si potevano sperimentare delle visioni totali del mondo.

Robert Edmond Jones
Teorico, scenografo e regista, Jones auspicava un teatro che rendesse conto della propria epoca. Di ritorno negli Stati Uniti dopo un lungo soggiorno presso alcuni grandi uomini di teatro d’Europa, come Max Reinhardt, egli riferisce della sua esperienza in un’opera – Continental Stagecraft – decisiva per la ricezione americana del teatro europeo.
Il teatro americano del suo tempo gli appariva – sembrava – pareva out of date. Attento al cinema, alla psicanalisi, alle nuove scritture e alla loro resa del flusso di coscienza, egli pensava che il teatro dovesse interrogare le relazioni fra la vita quotidiana e la vita interiore. “pensiamo con delle immagini, come se avessimo un minuscolo schermo cinematografico nel cervello”, osservava Jones, come se ogni invenzione tecnica debba produrre un modello descrittivo della realtà. Nella sua concezione, la commistione di tecniche teatrali e cinematografiche doveva collaborare alla creazione di uno spazio sintetico. Il teatro del futuro doveva combinare a two way drama con a two way stage, che permettessero di restituire in maniera simultanea la vita interiore (emozioni, pensieri) dei personaggi ed il loro comportamento sulla scena. Alla stesso modo in cui la nuova scena da lui invocata faceva appello all’invenzione di nuove scritture drammatiche, il funzionamento dello spirito umano doveva richiedeva delle nuove architetture della percezione.

Poliéri
Se il teatro è il luogo da cui si guarda, un dispositivo di visione quindi, esso dipende da una diottrica, da leggi visive, ottiche, fisiche e matematiche. Nessuno più di Poliéri ha portato così avanti le esigenze speculative della scenografia. Egli scrive: ” la scenografia comporta due poli teorici, uno estetico, l’altro fisico, che contribuiscono entrambi alla messa a punto di una vera e propria scienza delle apparenze”, operando un recupero dell’arte e della scienza della prospettiva del Rinascimento attraverso l’appropriazione delle tecniche del XX secolo.
Per il momento isoleremo due linee di riflessione nell’opera, enorme ed impegnativa di Poliéri: la prima, è la messa in evidenza del fatto che ogni tecnica crea e plasma il suo proprio spettacolo. Allo stesso modo in cui il cinema ha a suo tempo fatto nascere il cinerama, il cinema sferico, il cinema su schermi multipli… la tecnologia digitale dovrebbe dare luogo a nuove forme di scenografia. Egli sarà allora il primo a concepire delle vere e proprie scenografie elettroniche, in cui si combinano proiezione elettronica su grande schermo, elaborazione in tempo reale dell’immagine e trasmissione a distanza.
La seconda linea di riflessione prende come punto di partenza la sua opera Scénographie, che, sebbene si presenti come una storia della scenografia dalle origini agli anni ’60, non è un libro da storico del teatro. Si tratta piuttosto del poema archeologico di un artista archivista inamorato della precisione, che mette in evidenza delle risonanze, degli scambi, delle logiche di circolazione, di trasposizione, d’integrazione fra le tecniche che concorrono alla definizione di dispositivo di visione e che dipendono da ambiti artistici distinti. Questo approccio a prima vista diacronico ci introduce ugualmente ad un sguardo sincronico sui dispositivi di visione che coesistono in un epoca data, e fra i quali esiste un rapporto al tempo stesso di contemporaneità e di permeabilità.
Eppure all’interno di questa storia il teatro resta una matrice e un laboratorio ineguagliato, per la sua capacità di integrare, sovrapporre, ibridare e interrogare l’insieme dei dispositivi di visione che attraversano una società ad un epoca data. Ma ciò presuppone che il teatro sia un dispositivo di visione a sua volta articolato con l’insieme dei dispositivi di visione, che, in un determinato momento, partecipano alla conquista del mondo attraverso la rappresentazione.

Svoboda e l’avanguardia ceca
Il percorso artistico di Svoboda, in primo luogo scenografo, benché realizzatore di qualche regia, si inscrive nel campo di idee dell’avanguardia ceca, le cui basi teoriche sono state elaborate dagli strutturalisti del circolo di Praga.
Per Jindrich Honzl, regista e teorico, il teatro è un’arte composita, che combina innumerevoli arti e tecniche. Nessun elemento che contribuisce al teatro può essere isolato dal contesto ed essere considerato il cuore del teatro stesso, che si tratti ad esempio del testo o dell’attore. Lo svolgimento dello spettacolo poggia infatti sull’azione dei suoi diversi elementi. Il teatro consiste quindi nel mettere in relazione le differenti componenti che prendono parte all’azione. Nello stesso tempo, tutte le componenti si trasformano secondo le leggi dell’arte drammatica, che dà il segno delle cose al posto delle cose stesse.
Per Svoboda, il teatro offre uno spazio psico-plastico retto da leggi teatrali, non da leggi visive. Il teatro è soprattutto il luogo dell’azione, e non un dispositivo di visione. Denis Bablet, nella sua opera su Svoboda, opporrà la “nozione dinamica di spazio di messa in scena, che nasce dalla realtà concreta dell’opera drammatica” di quest’ultimo alla concezione di Poliéri, in cui “lo sconvolgimento dello spazio, il rinnovamento delle tecniche, lo spettacolo totale, divengono il loro stesso fine”.

O l’uno o l’altro?
Nello specchio della storia, vediamo vacillare ogni concezione limitata o chiusa del teatro. La rappresentazione teatrale non si articola più intorno al testo e all’attore: l’azione e la visione divengono i due poli intorno ai quali ruotano le concezioni di teatro più aperte.
Attraverso questo percorso possiamo distinguere due grandi approcci al teatro e più ampiamente alla scena: l’uno considera il teatro innanzitutto come il luogo dell’azione, l’altro soprattutto come un dispositivo di visione. Jones e l’avanguardia ceca da un lato, Kiesler e Poléri dall’altro, hanno attualizzato queste concezioni in funzione dell’evoluzione delle arti e delle tecniche della loro epoca.

Il teatro come azione
La considerazione del teatro come luogo dell’azione implica una determinata concezione della scena. Se, come afferma Honzl nel suo testo maggiore – La mobilité du signe théâtral – “una manifestazione teatrale è un insieme semico”, allo stesso modo la scena non si concretizza che attraverso un insieme di segni: “non è per nulla la sua disposizione architettonica ad accordarle lo statuto di scena, ma il fatto che essa rappresenta l’azione drammatica”. Quindi la scena è virtualmente dappertutto, a condizione di suggerirla attraverso dei segni. Lo stesso ragionamento è applicato all’attore. Questi non è per forza un uomo, può manifestarsi attraverso una marionetta, un oggetto o un raggio di luce. Come un attore non è un uomo, così una scena non è uno spazio architettonico.
Questa concezione, non solo emancipa il teatro da una gerarchia dei suoi elementi costitutivi, ma lo libera anche dall’influsso di una metafisica dualista fondata sulle articolazione fra la voce e il senso, il Verbo e il corpo, i contenuti e i supporti.
Il teatro può allora aprirsi a nuove intensità e nuove modalità di composizione: “l’azione – essenza stessa dell’arte drammatica – fa fondere la parola, l’attore, il costume, la scenografia e la musica, nel senso in cui li riconosciamo come conduttori di un’unica energia, che li attraversa passando dall’uno all’altro o più contemporaneamente. Noi avanzeremo nel paragone aggiungendo che questa corrente (l’azione drammatica) non passa attraverso il conduttore a resistenza più bassa (l’azione drammatica non è perpetuamente concentrata nella recitazione dell’attore), ma che spesso il fenomeno teatrale nasce per l’appunto nel momento in cui la resistenza che questo o quel mezzo teatrale oppone all’espressione viene ad essere dominata (…), allo stesso modo in cui un filamento elettrico brilla in funzione della resistenza che oppone alla corrente”.
Questa riflessione, che prefigura il multimediale, è doppiamente straordinaria in quanto suggerisce che l’azione può demoltiplicare le sue modalità d’inscrizione come una corrente i suoi conduttori, e che la teatralità è tanto più forte quanto si fronteggia a dispositivi che le oppongono resistenza.
Ogni teoria teatrale forte si accompagna a una concezione dello spettatore. Il rapporto fra gli spettatori e la rappresentazione si fonda in questo caso su degli atti cognitivi. La rappresentazione diventa infatti un atto semantico, uno spessore di segni visivi e sonori, che lo spettatore ha il compito de decifrare, e che eppure non fa appello a un teatro dei significati.
“Cosa è il teatro? una specie di macchina cibernetica”, affermava Roland Barthes, e cioè una macchina per produrre segni che lo spettatore deve decodificare.

Il teatro come dispositivo di visione
Supponiamo che la concezione di teatro come dispositivo di visione implichi una concezione della scena completamente diversa.
Jacques Poliéri, più di ogni altro, ha fornito a questa concezione i suoi fondamenti teorici. Egli ci introduce ad una scenografia speculativa che mette in relazione le arti – teatro, danza, pittura, scultura, architettura… – i saperi – scienze naturali e scienze umane – e le tecniche meccaniche ed elettroniche – di ripresa, di proiezione, di regolazione, di trasmissione… Nell’opera di Poliéri, non solo la scenografia ha il primato sul regista, ma il suo campo si intervento supera il quadro del teatro per inventare dei giochi di comunicazione su scala urbana, e poi intercontinentale, collegando in tempo reale spazi lontani, e inventando così un teatro elettronico su scala planetaria, liberato da ogni quadro architettonico.
In un’epoca in cui la standardizzazione dell’architettura teatrale ha fissato il rapporto scena/sala in un rapporto frontale e fisso, si ha la tendenza a rendere la scena autonoma nei confronti dello spettatore. Per Poliéri, al contrario, la scena non esiste se non attraverso il rapporto e i giochi visivi con lo spettatore. Lo spettatore di Poliéri è sempre collocato in maniera molto precisa nella spazio e iscritto in una relazione particolare con lo spazio scenico. La scenografia agisce innanzitutto sulle percezioni dello spettatore e sulle leggi visive e ottiche fra la sala e la scena. Il centro di gravità della scenografia si sposta di conseguenza dalla scena verso il rapporto sala/scena. La scenografia sarà chiamata “a definire il fenomeno fisico-chimico che unisce l’emissione e la ricezione della spettacolo, il rapporto geometrico, la distanza della sala alla scena, e poi la geometria, la notazione di questa stessa distanza”.
Questo tipo di ricerca doveva dare luogo a un’impresa di “sistematizzazione dello spazio scenografico”, vale a dire ad una ricerca su tutte le configurazioni visive possibili in spazi geometrici elementari (rettangolo, cubo, sfera…), poi ad a uno studio della cinetica scenica basata sull’osservazione dei rapporti spettatore/spettacolo in ambienti mobili (scena circolare mobile…), introducendo così l’idea di una scenografia del movimento. Ponendo l’architettura e la percezione al centro della sua concezione della scena, Poliéri fornisce dei fondamenti teorici alle esplorazioni sceniche più attuali.
Questo approccio scenografico incentrato sulla relazione fra la scena e la sala è particolarmente appropriato per rendere conto del trattamento scenico dell’immagine. La riflessione sull’immagine, troppo spesso limitata ad uno studio dell’eterogeneità dei registri dei livelli di presenza, deve essere ricollocata in questa economia della distanza. Infatti, moltiplicando le distanze e le scale di percezione, l’immagine “equivale ad un cambiamento permanente della posizione dello spettatore”.
I due approcci che abbiamo illustrato, sono oggi i più utili a chiarire e a comprendere le metamorfosi sceniche attuali che mettono all’opera le nuove tecnologie. Possiamo, a titolo di esempio, evocare brevemente Site seeing zoom, l’ultimo spettacolo della compagnia danese Hotel Pro Forma, ed uno spettacolo meno recente de Robert Lepage, Elseneur.

Site seeing zoom
Site seeing zoom propone un’esplorazione del funzionamento della memoria nell’era di Internet. Trae ispirazione, collocandole nel quadro della contemporaneità, dalle tecniche visive della memorizzazione descritte da Frances Yates nella sua opera fondamentale sull’Arte della memoria. Al centro dello spettacolo è posto un dispositivo raffigurante un palazzo della memoria digitale, formato dall’intersezione a croce di schermi traslucidi. Un proscenio, su cui compie dell’evoluzioni un attore, è collocato lungo gli schermi, che offrono altrettante superfici d’inscrizione alle proiezioni di immagini che restituiscono i processi mentali di quattro personaggi. A ogni personaggio corrisponde una base di dati, composta da immagini fisse, da video e da oggetti in 3D. La navigazione nello spazio mentale dei personaggi costituisce la trama narrativa dello spettacolo. Il dispositivo sceno-tecnico fornisce una scena-spazio – la Raumbünhe cara a Kiesler – intorno alla quale lo spettatore può circolare. L’intersezione a croce degli schermi serve da supporto a processi plastici in incessante ricomposizione. I movimenti laterali o verticali dell’immagine, i contrasti tra la luminosità dell’immagine e delle specie di black out, gli zoom in avanti o all’indietro, che postulano differenti scale di percezione, allontanando o avvicinando gli spettatori, permettono delle riconfigurazioni simultanee dello spazio. In questo dispositivo lo spettatore si muove intorno alla scena. Ma egli è mosso, almeno in pari misura, dalle immagini, che, variandone il suo punto di vista, ne modificano la posizione. Nello spirito dei realizzatori, il dispositivo è ugualmente la concretizzazione di un’operazione di spostamento: un ready-made di Internet – colto nello stesso tempo come una rete di comunicazione non-lineare e un modello di funzionamento della memoria umana – che lo fa passare dalla seconda alla terza dimensione.

Elseneur
di Robert Lepage
La recitazione dell’attore in Elsinore, uno spettacolo ispirato all’ Amleto, in cui Robert Lepage interpretava i personaggi della tragedia di Shakespeare, si sviluppava in una variazione quasi continua della distanza scena-sala.
Robert Lepage sviluppava una serie di personaggi al centro di un dispositivo tecnico complesso, che creava altrettante interfacce alla sua recitazione: video-sorveglianza, telecamere a infrarossi, amplificazione e manipolazione della voce…Le proiezione del corpo dell’attore, l’amplificazione della sua voce, agivano allora come delle maschere visive e acustiche, che avvicinavano o allontanavano la sala e la scena. In seguito a questa esperienza egli osserverà che “i mezzi tecnici utilizzati rendevano il contatto con il pubblico più intimo”.
La forza del percorso artistico di Lepage sta nell’avanzare nella determinazione di notevole groviglio – intrico fra le leggi drammatiche e le leggi visive, fra la fluidità dell’azione e l’architettura della percezione dell’azione stessa. L’uomo vitruviano disegnato da Leonardo da Vinci, proiettato su di un pannello mobile oscillante all’inizio della rappresentazione di Elseneur, introduceva lo spettatore in un universo in cui la tecnologia è contemporaneamente un compagno dell’attore, che contribuisce a rilanciare continuamente l’azione, ed un’architettura della percezione, che immerge e fa navigare lo spettatore nel labirinto del castello di Elseneur.

Verso un teatro delle interfacce?
Computer as theatre. Il computer come teatro. Si tratta del titolo di un curioso volume di Brenda Laurel, che tenta di dimostrare come il teatro permetta di misurare la complessità delle relazioni fra l’uomo e la macchina. L’autrice – nel corso di una riflessione che accosta Aristotele a Atari – inserisce il teatro al centro della problematica delle interfacce: “i computer sono un teatro. Le tecnologie interattive, proprio come il teatro, offrono una piattaforma di rappresentazione di realtà coerenti, i cui agenti effettuano delle azioni a tenore cognitivo, emozionale e produttivo (…). In duemila anni, si sono sviluppate e messe pratica delle teorie teatrali che hanno degli stretti rapporti di parentela con la concezione delle interfaccia uomo-macchina, o, per essere più precisi, con la creazione di realtà artificiali nelle quali si cercano di sviluppare gli aspetti cognitivi, emozionali ed estetici dell’azione”. Se l’opera di Brenda Laurel è un invito ai realizzatori di videogiochi a strutturare i loro prodotti come una rappresentazione teatrale, essa provoca indirettamente la questione di sapere se le interfacce potrebbero trovarsi al cuore del teatro.
Di fatto l’interfaccia si afferma sempre più come il centro propulsivo di nuovi processi di composizione a teatro. Nelle nuove pratiche sceniche il computer si trova sempre più al centro della rappresentazione, dando corpo ad una “scena intelligente”: una scena generata e controllata dal computer, che viene assunto a mediatore di tutti i parametri che concorrono allo svolgimento della rappresentazione. La nozione di scena intelligente è indissociabile da uno spostamento del lavoro del regista verso la programmazione e l’ingegneria informatica. Egli sarà sempre più chiamato a definire le procedure di un sistema, facendo interagire testo, attori, suono, immagini e gesti. Un dispositivo destinato a interfacciare molteplici realtà e media, che si ritrovano così al cuore della rappresentazione, di cui il regista controlla il ritmo e le forme.
Vediamo profilarsi due differenti approcci principali nell’utilizzazione delle interfacce sulla scena teatrale.
Nel primo tipo di interfacce, il dispositivo materiale e il software serve da mediatore fra il computer e delle unità periferiche (camere, strumenti tradizionali e virtuali…). Ci si orienta allora verso la costituzione di vere e proprie regie digitali, che combinano molteplici fonti sonori e visive: immagini video in presa diretta, elaborazione digitale dell’immagine in tempo reale, immagine prese su Internet, immagini d’archivio, voci off preregistrate, elementi musicali prodotti e trasformati in diretta…Questa regia digitale può essere controllata da dei tecnici, o più raramente dagli interpreti, il che comporta necessariamente che gli interpreti integrino ancor più nella recitazione le loro interazioni con le interfacce.
Il secondo tipo di ricerca sulle interfacce, più frequente in ambito coreografico che in ambito teatrale, è incentrato sulla creazione di oggetti o di esseri digitali interattivi a partire dalla captazione di movimenti o di emozioni degli interpreti. L’interfaccia si pone allora fra due sistemi di natura diversa, fra i quali il computer svolge delle operazioni di traduzione. Le interazioni fra il reale e il virtuale determinano allora lo svolgimento della rappresentazione e la costruzione dell’azione scenica. Esse aprono la strada ad un teatro interattivo.
Una delle ricerche più riuscite in questa direzione è quella di Jean-Lambert Wild nel suo spettacolo Orgia. Il motore dello spettacolo è costituito dal sistema Daedalus, che genera degli esseri artificiali dal comportamento aleatorio, visualizzati da organismi dei fondali marini, chiamati Posydones, suddivisi in due specie, gli Apharias e gli Hyssard. Gli attori sono muniti di sensori, che registrano – a partire dal ritmo cardiaco, dalla respirazione, dalla conduttività della pelle e dalla variazione di temperatura – i loro livelli di stress e di emozione. Attraverso i sensori, il dispositivo materiale e il software, le emozioni degli attori influiscono sul comportamento dei Posydones, che, per un’illusione ottica si muovono nello stesso spazio degli attori. Orgia rappresenta uno dei rari tentativi teatrali di utilizzazione di nuove tecnologie che prendano come punto di partenza l’interprete.
L’interfaccia apre un multiforme campo di sperimentazioni. È chiamata a fare teatro, se conduce nello stesso tempo all’affermazione di nuove economie della rappresentazione. Ripensare, in funzione di dispositivi singoli, gli elementi della teatralità, e i rapporti fra lo spettatore e la scena, è il compito che attende gli artisti che si confrontano alle nuove tecnologie.

BIBLIOGRAFIA

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C. BERET (éd), Friedrich Kiesler artiste-architecte, Paris Centre Georges Pompidou 1996.
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B. LAUREL (éd.), The art of Human-Computer Interface Design, Reading Ma. Addison Wesley 1994.
B. PICON-VALLIN (éd), Les écrans sur la scène, Lausanne L’Age d’Homme 1998.
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J. POLIERI , Scénographie, Théâtre, Cinéma, Télévision, Paris Jean Michel Place 1990.
U. DELBERT, Towards a new theatre, the lectures of Robert Edmond Jone,s Limelight Editions, 1992
E. SADIN, thé@tre > fast forward, in « ec/arts » n°1 2000.
E. SADIN, Pratiques poétiques complexes&nouvelles technologies : la création d’une agence d’écritureS, in « Ec/arts » n°2 2001.

Questo testo è nato da numerose conferenze sul teatro e le nuove tecnologie, svoltesi a Présence Capitale, al Théâtre de Compiègne (congresso arte/tecnologia) e alla Chartreuse de Villeneuve-les-Avignons.

Frank_Bauchard




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