Le recensioni di “ateatro”: Elle! Louise Brooks

con Hanna Schygulla

Pubblicato il 05/03/2004 / di / ateatro n. 065

Uno strano cortocircuito di immagini e voci dev’essersi verificato nella mente di molti degli spettatori accorsi al Teatro Civico di Schio (Vicenza) per l’’unica data italiana di Hanna Schygulla e del suo Elle! Louise Brooks. Sullo schermo scorrono le immagini di Das Tagebuch einer Verlorenen di Georg Wilhelm Pabst (Diario di una donna perduta, o anche traviata, come suonava in italiano raddoppiando il fuorviante richiamo alle convenzioni rassicuranti del melodramma cui lo stesso regista finse di attenersi), mentre un ensemble di nove musicisti esegue l’efficace partitura di Roberto Tricarri, cui si deve anche la direzione artistica di questo “cinema-concerto per voce e orchestra” prodotto dalla Maison de la Culture d’Amiens e da un folto gruppo di teatri francesi.

Il volto pulito di Louise Brooks, occhi grandi e capelli neri a caschetto, sprigiona tutto il suo fascino conturbante. E in scena c’è lei, Hanna Schygulla, o meglio la sua voce, perché l’attrice tedesca, icona vivente del cinema di Fassbinder, fa di tutto per stare solo in quella voce: penombra, leggio in disparte, volto allo schermo, tono mai sopra le righe. Accompagna le immagini eppure il suo intervento non è mai didascalico, sembra piuttosto duettare e a volte perfino duellare con le splendide scene del film. Il capolavoro di Pabst è del 1929, e bisogna ripeterselo ogni tanto, perché il realismo con cui governa le deformazioni espressioniste, le antitesi estreme, e la precisione del suo sguardo – che svuota dall’interno il genere melò, mostrando in Thymian una vittima innocente della società borghese ormai in decomposizione e contemporaneamente una femminista ante litteram, un oggetto di violenza e un soggetto che assume coscienza e spregiudicatezza senza perdere in umanità – lo fanno idealmente slittare a un’altezza cronologica ravvicinata. Tanto più che, inevitabilmente, frammenti fassbinderiani emergono dalla memoria iconica dello spettatore a complicare l’anacronismo. Per esempio l’ambigua casa-farmacia in cui cresce la protagonista fa pensare alla casa-clinica di Veronika Voss; lo sfondo della crisi della Repubblica di Weimar rimanda agli scenari fassbinderiani sul crollo del Terzo Reich; mentre le inquadrature (complice un bianco e nero che il restauro della pellicola ci consegna in tutta la sua luminosità) distanziano spesso il soggetto creando quell’effetto di osservazione che Fassbinder cercava quasi di condividere con lo spettatore. E bisogna ripetersi anche che quello che stiamo guardando è un film muto, tale è la coesione di immagini, musica e voce. Eppure, nello stesso tempo, si coglie anche l’autonomia di quella voce, che vive delle sfasature con le immagini, che non si preoccupa di rincorrerle o doppiarle, ma cresce e risuona dentro gli spettatori come una voce interiore, con esiti contrastanti di coinvolgimento, di allontanamento, di tensione, di rinuncia La Schygulla non “recita”: parla, canta (suoi i testi, in francese, tedesco, un po’ anche tradotti in italiano per l’occasione), dà voce a Louise Brooks e Louise Brooks dà corpo alla sua voce, e insieme ai fantasmi di altre antieroine incarnate dall’attrice preferita di Fassbinder: Maria Braun, Effi Briest, Wilkie Butenberg (Lili Marleen)… Uno strabismo interpretativo, il nostro, giustificato dalla premessa estetica dello spettacolo: “il cinema muto è come le grandi opere classiche, un supporto senza tempo di creazioni contemporanee dove si può ripetere liberamente la relazione amorosa tra musica e immagine”. Bellezza e anticonformismo, erotismo e ribellione, grazia e perversione sono del resto gli elementi sia delle provocazioni di tanto “nuovo cinema” tedesco, sia della scandalosa opera di Pabst, contro cui si accanirono le censure tagliando le scene più schoccanti, ora in gran parte reintegrate. Schygulla rimette in circolo queste potenti suggestioni con misura e naturalezza. Jean-Claude Carrière ha scritto che in lei continua il percorso artistico di Fassbinder, e ciò è tanto più vero quanto più ci si allontana dalla nostalgia per una stagione irripetibile e dal gusto dell’eccesso del regista maledetto. Schygulla ha rinunciato al mito che circonda il suo nome per mettersi, con umiltà, al servizio di un altro mito, quello di Louise Brooks, la quale a sua volta risulta così demitizzata e più vera. La donna, l’attrice Louise Brooks, più che le sue proiezioni mitiche (da Lulu a Valentina), è diventata la musa della Schygulla in una ricerca personale, prima ancora che artistica, di umanità nell’arte. Sembrano confermarlo i modi semplici con cui alla fine l’attrice viene ripetutamente alla ribalta per rispondere alle chiamate del pubblico. Con gli spettatori tutti in piedi, l’omaggio a Louise Brooks si trasforma in un omaggio affettuoso a Hanna Schygulla. Ma tra gli applausi qualcuno canticchia allegramente Lili Marleen, e il cortocircuito ricomincia.

Fernando_Marchiori

2004-03-05T00:00:00




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