La natura frattale della realtà (e del teatro)

Alcune riflessioni si Copenaghen di Michael Frayn

Pubblicato il 10/03/2004 / di / ateatro n. 065

Copenaghendi Michael Frayn è un testo denso e complesso, con numerose implicazioni filosofiche e scientifiche. Ma mi è capitato sempre più spesso di imbattermi un commento ricorrente (riferito alla bellissima messa in scena di Mauro Avogadro, con Massimo Popolizio, Umberto Orsini e Giuliana Lo Jodice, davvero eccellenti) ossia: “Lo spettacolo è bello… ma non mi ha emozionato”, che allude (credo) al fatto che l’argomento di fondo trattato nel testo di Frayne è scientifico, e quindi, inadatto a dire qualcosa che attenga alla sfera delle emozioni.
Il testo racconta dell’incontro tra Bohr e Heisenberg, entrambi fisici, a Copenaghen, nel settembre del 1941.
O piuttosto dell’impossibilità di comprendere le motivazioni di quell’ incontro, in primo luogo da parte dei due scienziati.
Il “fatto” da cui prende spunto Frayn è realmente accaduto: effettivamente Werner Heisenberg si recò a trovare il suo maestro Niels Bohr a Copenaghen, nel settembre 1941.
O era ottobre?
“Curiosa specie di diario, la memoria”, dirà Heisenberg in una battuta del testo, costretta a cambiare per adeguarsi ai mutamenti percettivi di un cosiddetto “fatto”.
L’importante è ricordare che è il 1941, è in atto la seconda guerra mondiale, che Heisenberg è un tedesco e Borh è danese, che entrambi sono due fisici e che si cerca di costruire la bomba atomica! Se nella memoria dei due scienziati si confondono particolari come il luogo, il tempo, e le modalità dell’incontro diventa impossibile stabilirne il perché. Il relativismo del ricordo, certo, è funzionale al meccanismo narrativo, così come la questione del tempo dell’azione, che non è né il passato, né il presente: per loro stessa ammissione i tre protagonisti sono tutti morti.
E certamente anche la paura di essere ascoltato dai microfoni nemici fa fare ad Heisenberg omissioni e giri di parole sul perché della sua visita, e tocca alla moglie di Bohr, Margrethe porre più volte la domanda diretta, sicura che ci sia una risposta univoca: perchè Heisenberg si è recato a trovare i Bohr, nell’autunno del 1941?
Ma la risposta univoca non c’è e se Margrethe fosse un fisico lo saprebbe… la natura delle cose è duale, onda e particella: la banale questione dell’incontro tra due esseri umani diventa una questione di fisica e metafisica.

Le ipotesi si snodano nel dialogo, una dopo l’altra, tutte plausibili: Heisenberg si è recato dai Bohr per chiedergli di collaborare con la Germania Nazista? Per chiedere in prestito il ciclotrone, indispensabile per la fissione? Per problemi accademici?Per sapere se esiste un programma Americano capace di costruire la bomba? Per tradire il programma tedesco? Per avere informazioni? Per aiutare i Bohr a fuggire in Germania?
Per fare e rifare i calcoli sulla fissione, ed individuare adesso, finalmente, dopo morti, che la massa critica di Uranio 235 era una questione di una cinquantina di chili e non di tonnellate ?
E Heisenberg sta lavorando ad una bomba micidiale o a un reattore?
L’altra ipotesi e che ci sia andato per caso… (“Ci sono un milione di cose che possiamo fare o non fare ogni giorno”dirà Heisenberg).
Oppure per fermare tutto.
Tutti insieme, fisici ebrei e tedeschi, alleati e non. Se questo fosse successo, ci troveremmo probabilmente in un universo simile, ma diverso.

Forse Heisenberg non aveva nessuno scopo, ma semplicemente il contesto, la guerra, la bomba, lo trasformano automaticamente in nemico, e lo stesso fatto che si sia recato a trovare Bohr pone una questione etica: può la fisica teorica essere uno strumento di morte?
Che è ancora più ampia: può il pensiero umano essere al servizio della propria autodistruzione? Il problema etico diventa di proporzioni colossali e ci tocca profondamente.

La questione – etica ed estetica – è che questo incontro narrato da Frayn provoca esso stesso una esplosione a catena nelle nostre teste, una girandola di implicazioni che ci portano fino dentro al significato stesso dell’esistenza.
Ogni questione è sfaccettata e inafferrabile, e porta la complessità stessa dell’animo umano. Come umano è il dolore dei Bohr, quando ricordano i figli perduti, quando intravediamo Christian sfuggire per un pelo in mare, sotto gli occhi atterriti del padre; dopo il duello dialettico, il silenzio: di certe cose non si può parlare, si può solo pensare.
Multiforme è anche il modo in cui i due scienziati si rapportano reciprocamente: come allievo e maestro, nemico e amico, padre e figlio, collega e rivale: mentre cercano di addossarsi la macula originalis dell’invenzione della bomba atomica, si legge anche lo smacco di ognuno dei due per non essere stato il primo ad esserci arrivato.
Bizzarrie dell’animo umano!, in parte giustificate: la fissione nucleare, nonché la bomba atomica hanno fatto diventare realtà il mito per eccellenza degli alchimisti: la pietra filosofale,capace di cambiare un elemento in un altro elemento… E’ il mito eterno di Ulisse, dell’uomo che supera i confini del conoscibile… solo che il mito è diventato realtà, ha coordinate spazio-temporali precise, un nome e una data, e una lista interminabile di morti e una minaccia che ha cambiato le nostre menti, il nostro modo di stare al mondo e di percepirlo, per sempre.

E’ proprio il passaggio tra gli elementi la materia di cui è fatto Copenaghen, della natura duale anzi frattale di tutte le cose.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg ne è invece la struttura narrativa: più si conosce una variabile, meno precisa è la misura della variabile corrispondente. E ogni volta che si tenta semplicemente di guardare qualcosa, la si illumina con la luce del proprio punto di vista, deviandone il percorso, bombardandola dei propri fotoni.
E’ il principio di indeterminazione a livello umano, etico, oltre che scientifico, che rende tutte le ipotesi sull’incontro fatale veritiere ma mai esaustive. Non a caso Rumori fuori scena, altro famosissimo testo di Frayn, oltre ad essere un meccanismo esilarante, non fa altro che ribaltare prospettive, facendoci vedere una pièce teatrale frontalmente e da dietro le quinte. Così, anche in Copenagheni protagonisti bombardano di fotoni percettivi il “fatto” mutandone la rotta. Per tutta la prima parte del primo atto, è il punto di vista di Margarethe a fare da contrappunto e a correggere la rotta delle ipotesi di Bohr, sempre in negativo.
Mai come adesso l’Homo è diventato Mensura.
Tutto questo ha a che fare con il teatro, in maniera sostanziale e per vari motivi, tanto da farci sospettare che Copenaghensia un testo metateatrale.
Il primo di questi motivi è che Copenaghenci dice che ognuno di noi è capace di dare una propria versione del grumo di confusione, aspettative, desideri, rabbie, gelosia, distruzione, amore che è la vita. Possiamo narrarla come un episodio, abbiamo la capacità di ricondurre i “fatti” di per sé insensati ad una storia, di infilarli uno ad uno come le perle di una collana.
Il secondo è che ci dice che questa versione della storia è unica e irripetibile.
Il palcoscenico che non solo racconta, ma rende esistenti le nostre storie, ha regole spazio-temporali reali autoreferenziali, ma non per questo meno “esistenti”, e Frayn ce lo dimostra. E’ come se il teatro, nella sua forma più alta, fosse un concentrato di esistenza, di ciò che è unicamente “umano”: la capacità di narrare, che dà luogo, sempre e comunque, ad autobiografia; di qualunque cosa si parli non possiamo fare altro che vedere attraverso i nostri occhi e ricordare con la nostra mente, e non c’è niente di meno oggettivo della memoria, che non fotografa, ma sceglie. Lo spazio del teatro non è un luogo (con tutte le caratteristiche di fissità che ha un luogo), ma è la somma di tutti i palcoscenici del mondo e il tempo è quello assoluto ma estremamente relativo all’interno di ogni singola rappresentazione. Il problema della realtà e dei diversi gradi dell’esistenza si fa sempre più complesso.

Copenaghendunque attiene all’esistenza del teatro, di noi stessi, di uno dei frammenti più oscuri della storia, all’alchimia, al mito, ai rapporti umani…La visita di Heisenberg a Bohr è, in fondo, un fatto banalissimo: l’ incontro da due essere umani finiti, contingenti, un episodio abbastanza ordinario… Il risultato dell’incontro di uomini come loro, come noi, portò alla creazione di una colossale macchina distruttiva. Che avrebbe la capacità, tutt’ora, di cancellare l’umanità dalla faccia della terra e portare con sé tutti gli uomini, il loro presente, il passato, i ricordi, ma soprattutto la possibilità di raccontare, la Storia, e ogni cosa sia capace di fare un singolo essere umano, quell’ “unica anima padrona dell’universo” che è ciascuno di noi, e di trascinarlo nel buio senza fine, “sepolti da tutta la polvere che abbiamo sollevato”.
Di questo, con infinita emozione, ci parla Copenaghen.

Clara_Gebbia

2004-03-10T00:00:00




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