Le recensioni di “ateatro”: Felicità da La morte felice di Albert Camus

Edgarluve e il terzo (e ultimo) atto della trilogia dell'’Io a "Inequilibrio"

Pubblicato il 21/08/2004 / di / ateatro n. 072


Foto di Chiara Sbrana.

Un percorso quello del giovane gruppo del teatro di ricerca livornese Edgarluve, ovvero Alessio Traversi e Valerio Michelucci, che va letto nella continuità e ora nella coerente conclusione di un complesso e articolato progetto teatrale pluriannuale. Felicità , molto liberamente tratto da La morte felice di Camus, presentato (e in parte prodotto) al Festival di Castiglioncello e all’interno della popolare manifestazione Effetto Venezia di Livorno, conclude infatti questo trittico sull’Io dedicato a Camus su estraneità, conflitto e società, iniziato con Ambalaze (da Lo straniero) e La peste la pestE (da La peste).
La ri-scrittura individua in tre stazioni (uccisione, fuga, morte felice) il percorso della follia omicida del personaggio-campione di infelicità, e traduce così le due parti di cui si compone il romanzo di Camus: Morte naturale e Morte cosciente. La morte felice è il primissimo romanzo giovanile di Camus, mai pubblicato vivente l’’autore, forse opera abiurata o abbandonata secondo alcuni critici, per lasciare spazio al disegno de Lo straniero; secondo altri si tratterebbe invece proprio di un primo timido tentativo di approccio alla materia dello Straniero, cui rimanderebbero diverse circostanze e similitudini narrative. La rincorsa verso una felicità godibile solo attraverso la ricchezza induce il protagonista del romanzo, l’impiegato Mersault, all’omicidio. Una vita fatta di agi e di ozio è il sogno per lui che vive in una stanza buia e compie l’atto lavorativo tutte le mattine. Estraneo al mondo, fuori dai comportamenti della vita normale, e infine fuori dalla legge, persegue con convinzione una sua propria morale che si riduce in ultima istanza, al “paradosso della felicità”: per ottenerla è lecito compiere un atto scandaloso, un omicidio. Morirà felice poiché “la felicità implica una scelta e all’interno di questa scelta, una volontà cosciente e lucida. Non la volontà della rinuncia, ma la volontà della felicità”. La scena, allontanandosi dalla trama originaria, gioca sulla lucida follia del personaggio che si fissa su un modello di vita felice a cui si dedica con totale dedizione: un’eleganza ricercata fino allo spasimo accompagnato da un sostanziale rigetto dei dolori del mondo e dal pensiero costante di non seguire ma cancellare le orme del padre che non portano in nessun luogo felice, fuggire dalla famiglia, dal mondo e dalle sue scatole conserva-varia umanità-infelice. Una volta che non esistono più regole si uccide il padre per un mucchio di contanti. Si uccide comunque per essere liberi. Tolto il dente, al suo posto cresce una banconota. Felicità raggiunta è un cartellone colorato che nasconde il muro scrostato. Difficile evidentemente rintracciare lo schema narrativo del romanzo che rimane una lontana eco nella poetica e intensa scrittura di Alessio Traversi, che privilegia piuttosto il ritratto a tutto tondo dell’uomo abbandonato a se stesso nella sua alienante e solitaria ricerca di una felicità autoimposta cui è sconosciuto ogni “dovremmo”, e l’esposizione dei motivi che lo portano a situazioni conflittuali con il padre per i quali in realtà, la morte non sembra niente altro che un traguardo auspicabile. Il dialetto livornese vivacizza alcune parti dello spettacolo e questa concessione al parlato toscano diventa una delle felici (è il caso di dirlo) invenzioni che aumentano l’atmosfera di follia dello spettacolo. Valerio Michelucci, credibilissimo e affascinante Mersault, si muove agilmente in questi tormenti dell’essere smettendo con grande ironia i panni del lucido parricida per indossare un attimo dopo quelli di Icaro che si libra in aria sopra i problemi del mondo. O ancora, infilandosi i guanti di plastica da rigovernare diventa la massaia che vive per questo ideale da commedia americana di una casa con piscina dove invitare le amiche. Tutto ruota intorno al sogno di una felicità indelebilmente impressa come un marchio nella pelle che ognuno deve obbligatoriamente cercare. E che altro non appare se non un’ossessione che vanifica ogni altra cosa.
Così Alessio Traversi e Valerio Michelucci spiegano il motivo della loro particolare interpretazione del testo: “Felicità è la chiusa di una trilogia che non può portare a una catarsi, ma all’accettazione della mediocrità del nostro vivere. Per questo, dopo due tappe segnate da un confronto con il tragico e dalla lotta solitaria di un “eroe” negativo con il mondo intero, si finisce in minore, con la messa in scena di un miserabile campione del glamour, con un abbassamento ironico dei toni, e con il ritorno alla ostentata limitatezza del nostro know-how esistenziale. Dopo l’analisi delle dimensioni IO-MADRE e IO-IO, sviluppata nelle prime due tappe della trilogia, in Felicità il lavoro sul testo percorre una linea drammaturgica volta a identificare l’Altro nella figura del padre, e a trasformare il viaggio verso la felicità in una riflessione sull’impossibilità di seguire le paterne norme del buon vivere. E’ un confronto estremo che si svolge nello spazio creativo dei conflitti, e nella dimensione della libertà assurda che si apre davanti a un uomo che prende una pistola per fare fuori il Padre per sempre”.

Anna_Maria_Monteverdi

2004-08-21T00:00:00




Tag: Edgarluve (2)


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