Una nuova zona d’’azione

triangolo scaleno teatro

Pubblicato il 03/11/2004 / di / ateatro n. 076

Roma. Compagnia teatrale.
Anni di lavoro facendo spettacoli per le scuole, anni di insegnamento nelle maglie invisibili e meno invisibili della città; anni di spettacoli autoprodotti e presentati in teatri e teatrini presi in affitto. Non è niente di nuovo. Siamo una moltitudine noi che facendo teatro a Roma investiamo sul nostro lavoro e l’’iter della “cosiddetta” gavetta è per tutti più o meno la stessa; a volte i processi si arrestano, a volte, come nel nostro caso, si va avanti fino in fondo attraverso un radicale investimento personale.
Costretti ad una resistenza forzata, spinti al limite della sopravvivenza, in uno stato di perenne precarietà, ma convinti del proprio valore artistico e determinati a difendere il diritto a levare la propria voce, due anni fa abbiamo deciso di prendere parte attiva all’occupazione di un capannone industriale dismesso, in un’ex zona industriale della città, ora quartiere popolare.
In questo capannone, nei due anni di attività, abbiamo realizzato uno spazio teatrale intermittente, abbiamo prodotto i nostri spettacoli, ospitato compagnie note a livello nazionale, emergenti e realtà giovani del tutto sconosciute, abbiamo ricevuto un finanziamento dell’’ETI, condotto e ospitato laboratori e stage e iniziato un percorso di tavoli di discussione sulla precarietà artistica e lo stato della politica culturale. Nello spazio in cui lavoriamo viene la critica, al pari di altri spazi teatrali romani e soprattutto viene il pubblico, un pubblico trasversale numeroso e deciso che attraversa la città e sceglie un luogo in cui sente di avere ancora un ruolo. Questa è per noi la prova tangibile di una buona pratica: un buon teatro.

La zona che stiamo sperimentando è ibrida, sospesa tra sistemi in decadenza e proprio per questo fa paura e crea attenzione. Da una parte il sistema teatrale vecchio e ormai fuori dal tempo e dal mercato; dall’altra la pratica romana dei centri sociali, diffusissimi sul territorio, ma che faticano a connettersi realmente con gli artisti, soprattutto di teatro. Noi che stiamo recuperando dall’abbandono un luogo teatrale per la città, combattiamo ogni giorno su due fronti, quello interno dell’occupazione e quello esterno del mondo teatrale. Il risultato attuale: la messa in discussione e l’analisi quotidiana della zona d’azione libera in cui “libera” non indica uno stato ma una tensione alla libertà di aprire relazioni e progettualità sia con il mondo istituzionale che con il tessuto urbano.
Chiaramente a livello di cifre non riusciamo ancora a vivere con questa nostra pratica. E se è vero che a Roma di teatro vive un’elite ridottissima, questo non ci esime dal mettere sotto indagine la nostra pratica e verificare quali possibilità ha di essere davvero buona.
La situazione teatrale e culturale di Roma è allarmante, e questo non può non tradursi in un problema per tutto il territorio nazionale. Roma è soffocata da una rete di controllo efficace su tanti livelli, talmente efficace che ha trasformato e continua a trasformare molte buone pratiche, al momento in cui arrivano fino a noi, in cattive pratiche.
Ci rendiamo conto quanto sia complesso l’attuale sistema teatrale e quanto contraddittorio il suo bisogno di nuovo e il suo attaccamento all’esistente. Ma dall’interno del nostro quotidiano sforzo di resistenza intravediamo un’unica possibilità: rischiare.
Rischiare è una buona pratica in disuso. Nella nostra città nessuno di quanti lavorano con, nel, per il teatro è disposto a rischiare. Qui sta l’origine dell’immobilità, dell’impossibilità di ricambio generazionale, dell’’inaccessibilità degli spazi romani istituzionali (anche quelli nati proprio per dare visibilità a nuovi linguaggi ed espressioni). Di qui l’impossibilità di intrecciare le pratiche che rimangono isolate e quindi inutili. Del resto che senso ha una buona pratica o sedicente tale che ha avuto luogo in una qualsiasi località italiana, se non viene condivisa e diventa patrimonio collettivo?
Interi pezzi di territorio di questa terra lunga che è l’’Italia hanno bisogno di maggior attenzione, disponibilità, rischio personale da parte di coloro che il teatro vogliono e possono salvarlo.
Sappiamo che per farlo c’è bisogno di uscire dalla propria sordità.
Il problema non è ottenere un finanziamento ma ribellarsi allo stato delle cose, ricreare nuovi scenari e nuove regole del gioco interrogandosi giorno per giorno su ciò che questo significa in termini pratici.

Roberta_Nicolai

2004-11-03T00:00:00




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