Le nuove frontiere dell’arte digitale

Christiane Paul, Digital art, Thames & Hudson

Pubblicato il 17/01/2005 / di / ateatro n. 094

E’’ a partire dagli anni Novanta che musei e gallerie hanno iniziato in maniera sistematica ad organizzare mostre e commissionare opere di arte digitale, conferendo una nuova visibilità ad un movimento artistico relegato per decenni ai margini del mondo dell’’arte istituzionale. Sotto questa spinta è emersa con maggior forza la necessità di contestualizzare, storicizzare e fornire analisi critiche di quello che si presenta come un fenomeno complesso e multiforme, che per svariati motivi tende a sfidare facili categorizzazioni. L’arte digitale occupa infatti un territorio di frontiera tra arte, scienza e tecnologia, e un suo assetto critico richiede competenze multiple, ancora in parte da formare. Le sue coordinate sono instabili e fluttuanti, poiché l’incessante sviluppo tecnologico pone sfide sempre nuove alla sperimentazione artistica. Inoltre, a partire dagli anni Ottanta, l’enorme diffusione del computer come strumento per la realizzazione e la manipolazione di immagini ha esteso enormemente l’ambito delle sue applicazioni in una miriade di esperienze artistiche diversificate, problematizzando l’intercettazione di una specificità dell’arte digitale.
Il libro di Christiane Paul, Digital Art, è un utile strumento per orientarsi tra le opere che utilizzano i nuovi media. Curatrice di New Media Arts per il Whitney Museum of American Art, direttrice di Intelligent Agent , magazine on line dedicato all’arte digitale, e docente di Computer Arts presso la School of Visual Arts di New York, l’autrice affronta l’argomento da diverse prospettive, allo scopo di fornire “un resoconto delle molteplici forme di arte digitale, del loro linguaggio estetico e della loro evoluzione storica e tecnologica”. Nel volume la storia dell’arte digitale viene contestualizzata sia in relazione all’evolversi delle innovazioni tecnologiche sia in relazione agli influssi derivanti da movimenti storico-artistici quali Dada, Fluxus e Arte Concettuale, tra i primi ad aver concepito opere di “arte programmata”, basate cioè sulla coesistenza di casualità ed istruzioni formali, e ad aver privilegiato forme d’arte processuali e performative incentrate su un forte coinvolgimento del pubblico, anticipando molte delle caratteristiche sviluppate dalle arti tecnologiche.
La Paul stabilisce una fondamentale differenza tra tipologie di opere che utilizzano le tecnologie digitali come tools, vale a dire come strumenti di ausilio per realizzare forme d’arte tradizionali (fotografie, films, quadri e sculture), e tipologie di opere che le utilizzano come medium, ossia come linguaggio comunicativo da investigare nelle sue caratteristiche specifiche, al fine di sperimentare nuove forme di espressività artistica ( net art, web art, installazioni virtuali e interattive eccc). All’analisi di queste due tipologie, che non vanno tuttavia intese rigidamente ma come parametri orientativi, sono dedicati rispettivamente i primi due capitoli del libro, mentre il terzo investiga in maniera trasversale, indipendentemente dalle caratteristiche formali, le principali tematiche messe in gioco dall’arte digitale.
Un tema importante affrontato nell’introduzione, riguarda le precarie modalità di esposizione e conservazione di queste nuove forme d’arte, in quanto musei e gallerie spesso non sono attrezzati ad ospitarle, sia per l’assenza di spazi espositivi flessibili, sia per la mancanza di attrezzature tecnologiche adeguate, tutti fattori che compromettono una corretta fruizione e un adeguato apprezzamento. Nell’introduzione l’autrice traccia anche un quadro sintetico della fase pionieristica dell’arte digitale: dalle prime visualizzazioni di immagini al computer risalenti alla metà degli anni Sessanta – realizzate da scienziati come Michael Noll, Georg Nees e Frieder Nake in ambienti universitari e centri di ricerca, con l’ausilio di macchine ingombranti e costosissime -, alle sperimentazioni effettuate nel corso degli anni Settanta e Ottanta in vari ambiti – dall’animazione all’installazione, alla telepresenza – ad opera di artisti come John Whitney, Charles Csuri ,Vera Molnar e Robert Adrian, spesso in stretta collaborazione con tecnici e programmatori.

Charles Csuri, Sine-curve man, 1966

John Withney, Digital Armony

Forse questa prima fase pionieristica avrebbe meritato un maggiore approfondimento in un libro interamente dedicato all’arte digitale, ma l’autrice si sofferma maggiormente sulla produzione più recente, dalla fine degli anni Ottanta in poi, quando cioè il computer diventa una macchina multimediale universale, analizzando, attraverso un nutrito numero di opere, le molteplici poetiche ed estetiche sorte a seguito di quella che si è configurata come una vera e propria rivoluzione digitale. Molti dei lavori presi in esame sono stati realizzati e esibiti in manifestazioni tenutesi in importanti centri di produzione e ricerca sui nuovi media, come lo ZKM (Germania), l’ICC (Giappone), Ars Electronica (Austria), il Banff New Media Center (Canada) e il V2 (Olanda). Dispiace constatare la totale assenza di riferimento alla produzione italiana, che pur vanta artisti significativi come Studio Azzurro, Giacomo Verde, Piero Gilardi, da attribuire non tanto ad una carenza dell’autrice quanto piuttosto alla quasi totale mancanza in Italia di startegie istituzionali volte a valorizzare e promuovere nuove forme di arte tecnologica.

Jeffrey Shaw, The Legible City, 1989-91

Una prima classificazione effettuata dalla Paul, come è stato detto, riguarda l’uso di tecnologie digitali come strumento di ausilio in forme artistiche preesistenti. Attraverso una serie di opere grafiche, fotografiche, pittoriche e scultoree che utilizzano il computer in determinate fasi delle loro procedure compositive, la Paul illustra alcuni dei principali indirizzi di ricerca: dalla produzione di immagini astratte basate su variazioni di algoritmi ad assemblaggi effettuati con le tecniche del morphing o del collage digitale; dalla combinazione di immagini reali e digitali per creare universi ibridi, alla realizzazione di sculture virtuali, che traducendo la nozione di spazio tridimensionale nel territorio del virtuale aprono nuove dimensioni alla relazione tra forma, volume e spazio. Al di là delle differenze, ciò che contraddistingue tutte queste forme di sperimentazione è l’accresciuta possibilità di manipolazione delle immagini consentita dalle tecnologie digitali, che attiva nuovi modi di mescolarle e montarle, tendenti ad eliminare qualsiasi forma evidente di sutura:
“Le tecnologie digitali aggiungono una dimensione addizionale agli assemblaggi e ai collage, poiché elementi disparati possono essere fusi più omogeneamente, focalizzandosi su una “nuova” forma di realtà simulata piuttosto che sulla giustapposizione di componenti con una distinta storia spaziale o temporale. I collages e le composizioni digitali spesso comportano uno spostamento dall’evidenziazione dei confini alla loro cancellazione”

Lilliam Schwartz, Mona/Leo, 1987.

Oliver Wasow, Untitled, 1996.

Nel secondo capitolo vengono prese in esame le opere che utilizzano le tecnologie digitali come medium artistico. Analogamente a quanto sostiene lo studioso Lev Manovich nel suo libro Il Linguaggio dei Nuovi Media, la Paul sottolinea come le caratteristiche peculiari dei nuovi media offrano specifiche “opportunità estetiche”: essi sono interattivi, partecipativi, modulari, programmabili, personalizzabili e queste proprietà possono essere investigate artisticamente in molteplici modi, combinando diversi elementi. La Paul delinea diverse tipologie di arti digitali suddividendole, in base alle loro caratteristiche formali, in: installazioni; internet art e reti nomadiche; software art; realtà virtuale e realtà aumentata; suono e musica.

Toshio Iwai, Piano – as image media, 1995.

Monica Fleischmann, Wolfgang Strauss, Christian-A. Bohn, Liquid Views, 1993

Nel terzo capitolo vengono individuati alcuni dei temi principali che ricorrono nelle opere digitali, operando una distinzione tra lavori che trattano tematiche legate specificatamente alle tecnologie digitali – telepresenza, telerobotica, database, visualizzazione di dati, ipertesti, videogichi e azionismo mediatico – ed opere che affrontano tematiche più generali, riguardanti il corpo e l’identità, riconfigurate però in una prospettiva che tiene conto degli sviluppi tecnologici e scientifici. Emerge un panorama variegato e affascinante di sperimentazioni: realizzazioni di browser alternativi; visualizzazioni di ogni sorta di processi e flussi dinamici di comunicazione; progetti che esplorano varie forme di vita artificiale e di telepresenza; sguardi problematici su questioni riguardanti la privacy, il voyeurismo, la sorveglianza e le identità multiple e fluttuanti disseminate nelle reti.

Victoria Vesna, Bodies Inc., 1996

Warren Sack, Conversation Map, 2001

Il tentativo di sistematizzare e fornire chiavi di lettura di una materia in costante trasformazione facendo ricorso a una vasta documentazione e ad un ricco apparato iconografico (245 illustrazioni di cui 176 a colori) è senza dubbio uno dei meriti di Digital Art. Tuttavia l’approccio descrittivo-classificatorio finisce per prevalere su quello valutativo-critico. Talvolta risulta difficile considerare come “arte” molte delle opere menzionate, questione forse ineludibile, se si considera che ci si muove comunque in un terreno altamente sperimentale, e che molte di esse non sono altro che tentativi di investigare cosa si può fare con i nuovi media, per far fare loro delle cose che i progettisti non avevano mai pensato, per spingerli al di là dei loro limiti, per riflettere sui loro effetti e significati. Ai posteri l’ardua sentenza …

Christiane Paul, Digital Art, Thames&Hudson, London 2003.

Silvana_Vassallo

2005-01-17T00:00:00




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