Il mago della grafica teatrale in mostra a Milano

La personale di Paul Davis

Pubblicato il 02/05/2005 / di / ateatro n. 084

Paul Davis è uno dei maghi della grafica contemporanea, e soprattutto il mago della grafica teatrale.
Nato nel 1938 a Centrahoma, in Oklahoma, dopo gli studi alla School of Visual Arts inizia a lavorare nel 1959 ai Joins Push Pin Studios. Nel 1967 crea uno dei suoi manifesti più celebri, The Spirit of Che Guevara. Alla metà degli anni Settanta, l’incontro determinante con Joseph Papp, anima del New York Shakespeare Festival, per il quale crea inventa l’immagine di Hamlet, Henry V; The Threepenny Opera. Dal 1984 al 1992 è art director del New York Shakespeare Festival. Parlando di teatro Davis afferma: “Il teatro è ciò che resta della vita reale dopo aver operato gli scarti necessari a dimostrare un concetto”. E l’arte del sottrarre è una strategia cruciale del lavoro di Davis, per cui eliminare i dettagli implica un incremento del potere emotivo dell’immagine.
Ha anche lavorato a lungo per riviste come “The New Yorker”, “GQ”, “Wired”, “Fast Company”, “Rolling Stone”, è stato art director di due riviste, “Normal” e “WigWag”, realizzato copertine per dischi e CD, manifesti per film, e ha continuato con particolare assiduità a lavorare per il teatro, in particolare con il Lincoln Center, la Mobil Schowcase e il Public Theater di New York. Come pittore, ama ritrarre gli attori perché, spiega, “hanno davvero tante caratteristiche che si spostano sui loro volti”.
In queste settimane l’opera di Paul Davis si può vedere a Milano. La mostra (già passata per Siena) si intitola On stage. Paul Davis People, l’hanno curata Cristina Taverna (che dirige quella che è probabilmente la migliore galleria di grafica italiana, Nuages) e Luigi Pedrazzi, si può vedere alla Galleria Arteutopia-Musei di Porta Romana, Viale Sabotino 22 – Milano, dal 29 aprile – 26 giugno 2005 (tutti i giorni 10.30-19.30 – chiuso il lunedì).
Ovviamente non c’è solo la grafica teatrale di Paul Davis, in questa mostra (ci sono i celebri ritratti del Che, dei Beatles, di Dylan, di Bush jr…). Noi ovviamente per questa anteprima abbiamo privilegiato una selezione dei suoi poster teatrali.

Dal catalogo della mostra, Show People, edito da Nuages, abbiamo un estratto brano dal testo di John Lahr Un Amleto maoista.

La prima volta che Davis ebbe a che fare con il Public Theatre, su suggerimento dei guru della sua agenzia pubblicitaria, fu grazie alle sue immagini politiche che riuscì a fare colpo su Papp, un vecchio esuberante di sinistra. Secondo Bernie Gersten, il produttore associato del teatro che si occupò dell’incontro dell’agenzia con Papp, i dirigenti del settore pubblicitario gli dissero: “Ciò che le serve è un’immagine visiva immediatamente identificabile, coerente, audace e intensa. Vogliamo che prenda un pittore che realizzi il manifesto della sua prossima opera teatrale. Costerà più di quanto abbia mai speso prima per un manifesto, e se abbiamo ragione, ne varrà la pena”. “Chi diavolo è Paul Davis?” chiese Papp. Tuttavia qualche giorno dopo lo prese per realizzare il manifesto di una produzione di Amleto che vedeva come protagonista Sam Waterston.
Davis portò una tempera 35×70 cm che ritraeva Waterson nei panni di Amleto. Waterson veniva rappresentato su un brillante sfondo arancione con indosso una camicia nera come quelle di Mao. Nella sua prefazione in Paul Davis Posters & Paintings, Bernie Gersten ricordava Papp che diceva “È un manifesto interessante per Amleto, Paul, ma è per l’Amleto che feci 10 anni fa con Martin Sheen. Non è adatto a questa produzione. Il commento che fa alla rappresentazione è superiore agli intenti di questa produzione. Il nostro Amleto è un raffinato principe rinascimentale, non un funzionario di partito che rimprovera aspramente le masse ad un comizio sulla Piazza Rossa”. Davis ritornò al suo tavolo da disegno. Quando tornò con una revisione, Waterson aveva la bocca chiusa e la casacca maoista era stata sostituita con un colletto di pizzo a balze. “Joe guardò il colletto di pizzo e disse ‘No, no, torna all’originale” ricordò Gersten. Davis rimase di stucco. “Non avevo mai sentito nessuno fare niente di simile” confessa Davis. “Non mi era mai capitato che qualcuno si rimangiasse tutto. L’ha fatto perché era un manifesto migliore”. E poi aggiunge “ci fu un subbuglio generale. Il manifesto venne esposto in tutte le stazioni da Washington a Boston. La gente ne parlò davvero tanto…”

 

Hamlet con Sam Waterson (1975), il primo manifesto creato per Joe Papp per il New York Shakespeare Festival.
Henry V con Paul Rudd (1976), per il New York Shakespeare Festival a Central Park.
Three Penny Opera con Raul Julia (1976), per il New York Shakespeare Festival.
Streamers di David Rabe (1976), per il New York Shakespeare Festival.
For Colored Girls… (1976), di e con Ntosake Shange.
Ashes (1977) per il New York Shakespeare Festival: la modella è Myrna, moglie di Paul Davis.
The Cherry Orchard con Irene Worth, regia di Andrei Serban (1977), per il New York Shakespeare Festival.
Gin Game di D.L. Coburn (1977), regia di Mike Nichols, con Jessica Tandy e Hume Crown.
King Lear con Laurence Olivier (1984), per la Mobil Showcase.
The Casebook of Sherlock Holmes (1985), per la Mobil Showcase.
Richard II (1987), per il New York Shakespeare Festival.
Macbeth con Raul Julia (1989), per il New York Shakespeare Festival.
The Mistery of Edwin Drood (1986), per il New York Shakespeare Festival.
Under the Blue Sky di David Eldridge (2002).
  Embedded, satira sulla guerra in Iraq di Tim Robbins (2003).
Carolyn, or Change di Tony Kushner (2004), con Tonya Pinkins.

Per Paul Davis il teatro sono soprattutto gli attori. Nei suoi manifesti, quello che campeggia in primo piano con straordinaria efficacia è spesso un volto, un ritratto.
Ma qui bisogna fare subito due precisazioni. E’ chiaro che quei dipinti ritraggono visi facilmente riconoscibili, volti di star, intensi e unici, ma non per questo ricadono nella categoria del realismo. Paul Davis non si sofferma sul dettaglio, e men che meno sull’introspezione psicologica. Le sue opere sono frutto di un’attenta osservazione, e soprattutto di una scelta: di quel volti Paul Davis sceglie alcune caratteristiche e ne cancella altre, poi riempie i volumi, stilizza. Paul Davis sa che i volti degli attori sono in qualche modo speciali: la loro professione, la loro vita li ha forgiati, molati, trasformati. Li ha segnati, e levigati. Dice Davis: “Il teatro non è come la vita reale. Il teatro è ciò che resta della vita reale dopo aver operato gli scarti necessari a dimostrare un concetto.” Si tratta di cogliere tutto questo lavorio dell’attore su se stesso, ma anche il lavoro del pubblico, e quello dei registi, su di lui; e naturalmente quello dei personaggi che ha incarnato. “E’ un lavoro relativo all’emozione umana elementare”, ha spiegato, “Se si dà una mano a raccontare la storia umana, si ottiene qualcosa anche come artisti.” A questo punto un ritratto diventa una sorta di icona, in grado di liberare l’energia che l’esperienza ha via via accumulato in quei tratti: come il Lear di Laurence Olivier. Quelle degli attori dipinti da Davis sono personalità che colpiscono la percezione e s’imprimono nella memoria, già proiettati verso lo spettatore.
Davis si è formato in un periodo in cui negli Stati Uniti dominava l’astrattismo, e l’ha subito rifiutato. Ma non si è rifugiato nel realismo: conosceva troppo bene la cultura e l’arte popolare, anche nella sua declinazione politica, con le loro forme semplificate, con la chiarezza del loro messaggio, con la loro comunicazione diretta. Tra i suoi primi exploit ci sono due memorabili ritratti del Che e di Angela Davis, che ricordano la grafica “rivoluzionaria” cubana dei primi anni del castrismo. Anche se poi, ovviamente, Davis conosce la storia dell’arte, e questa anima pop viene filtrata dalla cultura e dalla storia. E’ lo stesso artista a citare Masaccio per il suo Che, per esempio, o Michelangelo, ma si potrebbero fare molti altri esempi: le stampe giapponesi creano l’atmosfera giusta per Il giardino dei ciliegi, o van Gogh che ispira le pennellate e nei colori del manifesto per David Copperfield. E questi sono solo alcuni dei filtri ironici che il pittore mette tra sé, i suoi soggetti e le sue opere.
Ma l’attore non è solo la sua anima e il suo volto, insomma il suo passato. Per Davis l’attore è in primo luogo anche colui che agisce. Dunque in linea di principio la sua tempera coglie questi attori mentre stanno compiendo un’azione: basta guardare l’esemplare urlo del primo Amleto realizzato per Joseph Papp. La stessa impaginazione di molte immagini sembra sospingerle fuori dalla cornice del manifesto e della locandina: il bastone che impugna Mackie Messer-Raul Julia nell’Opera da tre soldi, oppure il paracadutista in vertiginosa caduta libera di Streamers – oltretutto sistemato a testa in giù, ad aumentare l’effetto spiazzante.
Un altro elemento sfruttato con notevole sapienza, accanto al taglio spesso inconsueto delle immgini, è il lettering: un carattere spesso disegnato a mano, quasi a umanizzarlo, e il ogni caso calibrato rispetto all’immagine e all’effetto complessivo del manifesto. Il titolo dell’Opera da tre soldi è tracciato con il sangue, che ancora cola sul muro. Ma va in ogni caso precisato che a prevalere è sempre l’immagine sul testo, ridotto al minimo indispensabile ma a questo punto ingigantito e trasformato di fatto anch’esso in immagine.
Ma più che le abilità del grafico, val forse la pena di sottolineare il tono emotivo della pittura di Davis: caratterizzata insieme da grazie e malinconia, da una sorta di straniamento che tradisce come un disagio di fronte alla realtà, o forse solo una sospensione che dà un tocco quasi fiabesco, appena surreale: una pausa di stupita fissità che permette al pittore di osservare il suo oggetto, e di rubargli la sua magia.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2005-05-02T00:00:00




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