Il libro del “teatro politttttttico” delle Albe di Ravenna

Monade e coro. Conversazioni con Marco Martinelli a cura di Francesca Montanino. Editoria & Spettacolo

Pubblicato il 02/07/2007 / di / ateatro n. 110

Il libro Monade e Coro. Conversazioni con Marco Martinelli, a cura di Francesca Montanino, è una preziosa opportunità per conoscere e approfondire il lavoro più che ventennale di innovazione teatrale del gruppo delle Albe di Ravenna. Il volume è stato pubblicato dalla casa editrice romana Editoria & Spettacolo diretta da Maximilian La Monica, uno dei pochi editori italiani che ha scommesso sul teatro italiano contemporaneo, pubblicando soprattutto testi di autori, attori e registi, un mondo più prolifico e più interessante di quanto non rispecchi l’offerta ma anche la domanda del mercato librario italiano.
Martinelli, fondatore con Ermanna Montanari, del Teatro delle Albe di Ravenna, e direttore artistico del Teatro Rasi e del Teatro Alighieri di Ravenna, racconta in questo libro le origini e la genealogia del suo percorso artistico, dal primo incontro con il mondo del teatro nel 1977 al manifesto per un “teatro politttttttico” del 1987 dove si prospettava un incrocio tra impegno politico e carattere sacro della pratica teatrale, dalla creazione di una compagnia “afro-romagnola” (le “Albe bianche” e le “Albe nere”) con dei Griots senegalesi, alla svolta del 1991, quando il Comune di Ravenna affida con rara lungimiranza alla Compagnia delle Albe i due teatri della città Rasi e Alighieri, all’interno dei quali nasce anche la “non scuola” un progetto di formazione teatrale anticanonico per le scuole, fino al successo internazionale del 1998 con lo spettacolo I Polacchi, una tragedia patafisica sul tema della morte. Una parte di particolare interesse è quella in cui il libro affronta il tema della drammaturgia, prima per voce dello stesso Martinelli e poi in appendice, in un bel saggio di Gerardo Guccini, il quale sottolinea la particolarità autorale di Martinelli che oltre ad essere “autore di compagnia” pubblica anche i propri testi “come parte non deperibile” dell’esperienza scenica.
Nella maggioranza dei casi, la stagione della “scrittura scenica”, in cui il testo perdeva il suo primato, si frantumava e si marginalizzava a vantaggio dei linguaggi del corpo, della voce e di tutto l’apparato scenico, aveva segnato una netta cesura tra chi (il teatro cosiddetto di “tradizione”) partiva da un testo, e chi ( il teatro di “ricerca”) a un testo ci arrivava. In questa cesura non solo tendeva a scomparire l’idea che fosse possibile una ricerca drammaturgica ancora legata alla parola, ma la figura stessa del drammaturgo si estingueva (in certi casi tuttora è avversata come una pianta infestante) per essere completamente assorbita da quella del regista o da una creatività corale. Martinelli, che pure è stato insieme alle Albe uno dei protagonisti del teatro italiano di ricerca degli anni Ottanta e Novanta, ha un’idea diversa che personalmente condivido e che trovo assai più feconda: è quella di “una drammaturgia impura”, in cui l’idea e la pratica drammaturgica viene conservata non come scrittura a tavolino, ma mediante un continuo feed-back con gli attori come accadeva nella grande tradizione degli “autori di compagnia” (Shakespeare, Molière, Pirandello, Eduardo…), dove gli attori “non funzionavano da semplici esecutori, erano al contrario muse ispiratrici per l’autore” e collaboravano alla definizione delle battute. Pratica questa, come dice giustamente Martinelli, “che non vuol dire “diminuire” il ruolo del drammaturgo, bensì rafforzarlo, esaltarlo all’interno di una dinamica collettiva”.
Quest’idea della drammaturgia presuppone anche l’incompiutezza dello spettacolo, nel senso migliore del termine, cioè la possibilità di mantenere lo spettacolo sempre vivo e aperto alle trasformazioni che il divenire del tempo e della compagnia suggerisce, impedendo anche che “la forma diventi formula”. In questa prospettiva la drammaturgia si colloca nel segno di Hermes, dio della trasformazione, che non solo è divinità intermedia tra umano e divino, tra vivi e morti, traduttore, interprete e latore di messaggi, ma è anche protettore dei viaggiatori, dei maghi, dei ladri e soprattutto degli artisti che tutte queste categorie riassumono. Già perché la magia dell’arte, quella che Adorno definiva “la capacità di liberare la menzogna dal suo legame con la verità” è frutto del viaggio mentale e fisico (continuo è lo spostamento delle Albe in Africa o nelle trincee italiche come Scampia, pur nelle loro salde radici residenziali), della capacità di interpretare la complessità dell’uomo e del mondo, la capacità di dialogare con i morti e di giocare con la morte, e anche della capacità di “rubare” alla realtà e all’arte ovunque ci sia linfa sorgiva, invenzione e ardimento. E sorgente non è solo una metafora astratta, perché indica un rapporto della terra con l’elemento che la fa vivere, che per il teatro è il rapporto con il territorio, con le sue radici e la sua lingua (di qui l’interesse di Martinelli per il dialetto, in quanto risorsa di musicalità per l’attore e in quanto memoria vivente del territorio), ma anche con l’umanità che in esso cresce.
Mi ha molto colpito, quando sono andato a vedere gli spettacoli al Teatro Rasi di Ravenna, la straordinaria partecipazione, per quantità e qualità, del pubblico giovanile, in genere assente dai teatri se non per precetto scolastico, che qui affluisce spontaneamente e con entusiasmo. Sembrava di essere veramente in Europa. Questa è la risposta a chi da noi decreta la morte del teatro per mancanza di pubblico: il pubblico va creato, proprio come l’opera d’arte. Finché ci saranno cartelloni di (autori) morti a tenere le stagioni degli Stabili o direttori artistici scelti per meriti politici o per medaglia alla carriera, finché vincerà la logica degli abbonati cronici invece che del pubblico motivato, il teatro languirà e farà – come scriveva Baudelaire – dei lampadari la parte più interessante dello spettacolo.
Lavorare sulla valorizzazione del territorio, sulla formazione culturale delle nuove generazioni è fare veramente “politica”, in senso gramsciano, attraverso l’arte, nel senso di un servizio per la polis, che agisce sul piano simbolico ma anche su quello materiale, genera interfacce tra istituzioni e produzione artistica, risponde a vocazioni e crea lavoro, fa circolare pensiero e libera la mente dall’omologazione mediatica. C’è poi la capacità di creare una Rete tra gli artisti che agiscono sul territorio, come le Albe fanno con le altre compagnie (Fanny & Alexander soprattutto, ma anche le altre molteplici realtà teatrali romagnole), anziché trincerarsi dentro l’orticello di casa sparando veleno sui colleghi , com’è vezzo consumato del teatrante tipico. Per fare questo ci vuole realismo, ma di quel realismo che nasce da una matrice visionaria e “passionaria”, sentimento che Martinelli condivide simbioticamente con la sua compagna di sempre Ermanna Montanari, attrice di grande intelligenza e intensità espressiva, e con i suoi compagni di strada. Mondo poetico che trapela da tutti gli spettacoli e anche dalla sceneggiatura cinematografica pubblicata alla fine del libro, “Lezione di Storia”, incrocio tra velleità rivoluzionarie anarchiche e “stregoneria popolare” che mescola in modo visionario l’utopia di una “trasformazione orizzontale” (politica) del mondo con quella di una “trasformazione verticale” (metafisica) del mondo.
In appendice un intervento di Eugenio Barba e uno di Goffredo Fofi, insieme ad alcune immagini degli spettacoli e a una completa teatrografia e bibliografia.

Andrea_Balzola

2007-07-02T00:00:00




Tag: Marco Martinelli (21), Ravenna Teatro (21)


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