Ho fatto un sogno ed era molto “popolare”

Una lettera per Paolo Rossi

Pubblicato il 06/04/2009 / di / ateatro n. 121

“Io so e non so perché faccio il teatro
ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo
facendo entrare nel teatro tutto me stesso,
uomo politico e no, civile e no,
ideologo, poeta, musicista,
attore, non attore, pagliaccio, amante, critico,
me insomma, con quello che sono e penso di essere
e quello che penso e credo sia vita.
Poco so, ma quel poco lo dico…”
Giorgio Strehler, Nessuno è incolpevole

Paolo inizia il primo laboratorio chiedendo ai trenta partecipanti che tipo di studi hanno fatto. Siamo al Piccolo e facendo una veloce statistica vengono fuori i soliti nomi importanti: l’Accademia del Piccolo, Paolo Grassi, Galante Garrone, qualche Stabile di Torino.
«Di solito alle scuole quando vedono che un allievo ha un determinato potenziale, sia esso comico o drammatico, glielo fanno dimenticare per insegnarli cose diverse. Normalmente l’opposto. Ora torniamo a quello che sappiamo fare, quello che portiamo nel sangue per svilupparlo e migliorarlo. Perché, diciamocela tutta, dobbiamo arrivare alla fine del mese e pagarci l’affitto. Se c’è una sola cosa che sappiamo e possiamo fare, di questi tempi, è meglio farla subito e bene. Il teatro prima di tutto non è un’arte, ma un mestiere e noi dobbiamo comportarci come i bottegai che fanno i conti alla fine della giornata», dice Paolo mentre mangia il gelato al limone. Tutti ridono.
Ma noi sappiamo che non c’è proprio nulla da ridere.

Dicono che i teatri siano vuoti e per certi versi è vero. Le compagnie giovani fanno fatica, non tanto a produrre uno spettacolo quanto a portarlo in giro e quindi guadagnare (non solo visibilità). Lo Stato taglia qua e là e, senza dare minimamente ascolto a Baricco, forse s’inizia a fare pulizia nella macchina privata e pubblica dell’amministrazione teatrale. I festival estivi – riproduzioni in piccolo delle migliori produzioni invernali – chiudono improvvisamente. I concorsi diventano il tiro a segno delle giostre e le residenze si sostituiscono alle produzioni.
Infatti il mestiere, come lo chiama Paolo, è cambiato e durante il laboratorio, oltre ad imparare i giochi del palcoscenico, i dibattiti s’animano tra un aperitivo e l’altro. No, non c’è nulla da ridere, eppure Paolo sorride e ci comunica che vuole fare una compagnia di teatro popolare.
Sta finendo le repliche del suo spettacolo Sulla strada ancora al Piccolo. Un monologo che racconta dello spettacolo che non andò in scena, Ubu, Re d’Italia. Proprio quello spettacolo dove aveva già perso una compagnia, la nostra.

“Il Teatro Popolare nasce dagli errori! È a partire da errori e incidenti che nascono le idee migliori. Se c’è un errore in scena, non bisogna nasconderlo. Bisogna sfruttarlo, ripeterlo, mostrando al pubblico che tutto era voluto”.

Sorridiamo anche noi, tra i denti, e torniamo a casa pensando che è proprio un bel sogno, questo del teatro popolare: un teatro per tutti, un teatro che torna a vendere i biglietti in edicola, come ai vecchi tempi.
Tutto iniziò a Muggia nel 2007, dove assieme alla giovane Compagnia triestina Pupkin Cabaret avevamo inziato a mettere le fondamenta per un nuovo teatro popolare. Lì era nato il primo manifesto, le prime domande su come cambiare prima di tutto il nostro modo di fare teatro, sul pubblico, sulle storie da raccontare oggi, assieme a compagni di viaggio molto diversi tra loro come Renata Molinari, Giampaolo Spinato e Maria Consagra.

“Il Teatro Popolare non è razzista! Ama la contaminazione! Mescola i generi e gli stili.
Sfrutta i cambi di registro, dal comico al tragico e viceversa”.

A Milano, dopo due anni, le domande sono le stesse e la situazione teatrale, allora, rischia veramente di farci tornare per strada a fare cappello.
La scommessa e il rischio sono all’ordine del giorno, dunque, e la legge di Darwin nel frattempo sceglie chi questo mestiere lo deve fare o lo deve abbandonare
«Chi te lo fa fare?», chiede, il teatrante arrivato al maestro. Paolo risponde senza rispondere: «E’ una questione politica.»
Sappiamo che economicamente per un produttore o un distributore è un poker sicuro mandare in scena l’artista assieme a due musicisti, che raccontano questa o quella bella storia. Soprattutto se sul palcoscenico gioca Paolo Rossi. Se poi al menù aggiungiamo un dvd – libro, il preventivo e il consuntivo vengono da sé.
Eppure, la posta ora, follemente, è sul tavolo da gioco come un buffone in corte, che però, quando racconta le sue barzellette non solo fa divertire il Re, ma forse sa come farlo pensare.
La nostra scommessa è di unire un maestro e una giovane compagnia seguendo un meccanismo produttivo molto vecchio: la famiglia teatrale di repertorio.

“Il Teatro Popolare vuole recuperare l’ingenuità. L’ingenuità richiede spessore e semplicità insieme: recitare ogni volta come se fosse la prima”.

Paolo Rossi imparò da Fo, Strehler, Gaber, Cecchi, Jannacci. Maestri d’arte e di vita. Da loro rubò, da loro perse, e con loro fece il salto sul trampolino verso il proprio stile e la propria pazzia. Così, senz’altro, con la stessa generosità fa ora con noi, che da soli facciamo tutt’altro sul palco eppure abbiamo tanti punti in comune.

“Insegnare e tramandare i trucchi del mestiere favorisce il ricambio generazionale. Crea dei figli”.

Una volta il Re metteva alla prova il Buffone di corte dandogli degli argomenti sui quali lui doveva improvvisare sul momento, e spesso se falliva nel tentativo era condannato a morte o peggio ancora esiliato dal paese. Il Buffone doveva dimostrare al Re non solo di essere l’unico e il migliore nel proprio mestiere, ma di saperne una in più di lui sull’argomento proposto. Ugualmente accadeva quando il Re invitava una compagnia di comici in corte durante i festeggiamenti reali. La Compagnia di comici doveva essere pronta a mettere in scena qualsiasi opera proponese il Re.
Il trucco, per i poveri artisti, si nascondeva nella capacità di saper adattare il proprio repertorio, il proprio patrimonio culturale alle richieste inaspettate del Re, che seguiva inconsapevolmente il volere della moda o della corte in quel momento. Questo trucco era alimentato negli artisti dal vizio malsano per l’immaginazione.
Nessuna evoluzione da allora per i comici dell’arte oggi. Il trucco rimane lo stesso, e forse è un po’ più viziato e confuso visto che oggi non è più a rischio la vita, ma la faccia, e in tanti sono disposti a perderla pur di avere un attimo sotto i riflettori, anche in mancanza di un Re che li guardi.

“Il Teatro Popolare è fatto da persone-vive-che-fingono per persone-vive-che-credono, racconta storie credibili e incredibili di tutti i tempi, si consuma nel buio di una sera, ma ogni sera è diverso, capita in teatro, ma anche in piazza o in barca, porta costumi colorati, fa apparire ora una casa ora una battaglia, parte da quello che c’è e di quello che c’è non manca nulla. Non ha una casa, un teatro fisso. Il mondo è il suo palcoscenico. E’ più importante raccontare storie in giro che avere un bel camerino”.

«Dobbiamo arrivare a tutti, dal più piccolo al più anziano, dal più povero al più ricco e per farlo dobbiamo usare tutto quello che abbiamo a nostra disposizione. La magia, unico nostro dovere nei confronti di chi ci vede e ascolta, quella la dobbiamo far avvenire insieme. E per ricrearla basta imparare bene i trucchi. E avere una bella storia. Poi, forse un giorno, arriva da sola, quella troia. Il pubblico va rianimato. La tv lo ha rincoglionito completamente. Bisogna rammentare loro che siamo di carne e ossa e che possono parlarci, ferirci, insultarci o applaudirci mentre siamo sul palco», dice Paolo mentre parla del pubblico.
Quel giorno in pausa mi dice che vuole lavorare sul Nost Milan di Bertolazzi. Bomba! La povera gente, la crisi, la fame, la futura Argentina, l’ intellettuale medio che parla in tv del futuro dell’Italia, lo studente che assieme al pensionato raccoglie la frutta per terra al mercato, le riforme che manifestano in piazza, i manifestanti che ora sono seduti sulle poltrone al Millioner. Certo. Questa è la storia.
«Ma siamo in quindici, Paolo!», gli dico pensando già alla compagnia. «Lo so. Ora dobbiamo trovare i soldi.» Che Paolo Rossi fosse matto lo sapevo già, ma forse era soltanto un trucco.

“Il Teatro Popolare parla delle cose che ci stanno a cuore: se stanno a cuore a noi stanno a cuore anche al pubblico”.

Durante i laboratori gli esercizi e le improvvisazioni mettono ognuno davanti alle proprie incapacità. E nell’emergenza uno si salva provando a fare delle cose che sulla carta non sono scritte. Il salto nel vuoto. Uno degli esercizi preferiti di Paolo è il teatro di soppravvivenza.
Il pubblico – sempre presente in sala anche durante i laboratori – sceglie l’argomento, la storia e gli attori hanno 15 minuti per scegliere la scaletta dell’improvvisazione.
«Voi dovete pensare che fra poco arriva il sindaco che vi ha commissionato questa rappresentazione. Come si faceva una volta nei teatri di provincia. Vi ha promesso, oltre la cena, 3000 euro. E voi, che eravate arrivati pronti con l’Otello, dovete rappresentare un’altra commedia. »
L’’artistico, il lavoro in sala, nel teatro popolare, non è distante dalla parte organizzativa e produttiva. Sotto questo tetto l’’organizzatore pensa come l’’attore sul palco.

“Il Teatro popolare è imprevedibile! Nasce nell’’improvvisazione e muore nell’’improvvisazione. E questa sera sarà per voi e per noi veramente la prima volta! Infatti il Teatro Popolare rifiuta il concetto di replica. È sempre qui e ora!”.

Siamo all’’inizio di questa storia, di questo sogno. Ma quello che si pensa ad occhi chiusi di notte non è diverso da quello che si fa ad occhi aperti il mattino dopo.

marzo, 2009

Carolina_De_La_Calle_Casanova

2009-04-06T00:00:00




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