Ingrandimenti sull’attore

La settima edizione di Voci di Fonte

Pubblicato il 13/07/2010 / di / ateatro n. 127

Anche se funestata dal maltempo, che ha costretto in spazi chiusi alcuni spettacoli previsti nei luoghi più suggestivi del festival, la settima edizione di Voci di Fonte ha mostrato la consueta vivacità nel delineare uno spaccato teatrale plurale ma sempre rivolto all’’arte dell’attore. Così al festival senese, organizzato da laLut, dialogavano quest’anno Francesco Pennacchia e Balletto Civile, Biancofango e Anna Tereschenko, Egumteatro e le Ariette, Lenzi-Lurini e Isola Teatro.

Giancarlo Ilari protagonista dell’Ultimo nastro di Krapp.

In apertura un Ultimo nastro di Krapp interpretato da Giancarlo Ilari con la regia di Massimiliano Farau. L’’anziano attore parmense sembra ritrovare in ogni bobina anche un po’ della propria vicenda artistica. Fu Pasolini, assistendo a una riduzione di Uccellacci e uccellini del CUT di Parma negli anni Cinquanta, a spingerlo verso una recitazione “naturale”, chiedendogli di lasciare l’impostazione accademica per una dizione che non celasse l’inflessione dialettale. Nella sua lunga carriera non ha mai dimenticato la lezione e ora che ha 82 anni, Ilari non nasconde più nulla dietro la tecnica e può permettersi di portare in scena L’ultimo nastro di Krapp con una naturalezza che nessuna finzione anagrafica raggiungerebbe.
Se nel testo beckettiano il Krapp sessantanovenne riascolta con ironico distacco la voce del Krapp trentanovenne registrata su nastro, il protagonista di questo allestimento essenziale li mette entrambi in una prospettiva più ampia e li osserva muoversi dentro la propria stessa condizione. È l’’uomo che guarda in sé l’’attore, le sue diverse stagioni, da una lontananza imprevista dal copione. Un terzo livello di rappresentazione che finisce, senza imbarazzo, per coincidere con la realtà. Così il dispositivo-Krapp, sempre a rischio d’’incepparsi nell’assurdo di maniera, si rimette a girare come le bobine tolte alla polvere. Glauco Mauri lo ha fatto riutilizzando, con effetti struggenti, le registrazioni del suo Krapp datato 1961. Ilari lavora sulla durata delle reazioni, passando da feroci eccessi d’ira a lunghe stasi inespressive che lasciano trasparire la sua vulnerabilità, e insieme il suo passo leggero sulla «vecchia palla di fango» del mondo.
Leggeri, pur nella sgradevolezza che emanano solo a leggerli, sono anche i personaggi che Ugogiulio Lurini, con la regia di Giuliano Lenzi, ricava da Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace. Dopo aver accompagnato il pubblico in veste di guida turistica in uno dei luoghi segreti di Siena, le antiche Fonti delle Monache recentemente restituite alla città, il protagonista del primo episodio si rivela un perverso figuro in cerca di avventure particolari con donne appena conosciute. Il collaudato protocollo, non seduttivo ma “contrattuale”, messo in atto con perizia maniacale viene raccontato dall’attore sospeso sopra una vasca tufacea, tra lo stillicidio nettamente percepibile e l’’imbarazzo crescente degli spettatori, quasi palpabile nell’’umidità dell’’ambiente sotterraneo. Lurini gioca sul filo della ripugnanza, rivolgendosi alle signore con toni confidenziali o insistendo su particolari innocui che facilmente possono diventare scabrosi nell’’immaginario degli spettatori. Costruisce il personaggio con sottili incrinature della voce, sguardi che covano languore, sorrisi che si spengono equivoci. Ogni tanto si strappa un pelo dal naso, si accarezza la testa calva. Ma in fondo non ci crede neppure lui, ed è sempre pronto a stemperare gli eccessi in una liberatoria ironia.

Soccombenti e senza Lear

Da una lettura «appassionata, costante e carnivora» di Thomas Bernhard nasce Fragile show di Biancofango, con Andrea Trapani che, insieme a Francesca Macrì, firma anche drammaturgia e regia. È la conclusione di una ricerca scenica sul tema dell’’inettitudine nel dichiarato «tentativo di scovare, imparare e sostenere il ritmo di un respiro, il respiro di chi si sente sempre al di qua, di chi non riesce a trovare la propria strada eppure la desidera disperatamente». Prima l’’adolescenza con In punta di piedi, poi i “giovani” quarantenni con La spallata, e ora la maturità, la necessità dello sguardo indietro sulla propria vita.

Biancofango per Thomas Bernhard.

Dalle pagine finali de Il soccombente, liberamente riviste, il personaggio berhardiano si muove lungo direzioni tangenziali che Trapani incarna con decisa propensione alla fisicità, alla maschera e anche con intelligente riuso di ammiccamenti istrionici. Dunque con tutta una serie di possibili letture metateatrali dell’’opera. Il protagonista solfeggia e ritma scale musicali con le dita della mano destra, scandendo i differenti ritmi discorsivi dei vari personaggi. Si agita in un vestito bianco stratificato, eccessivo, tra una panchina e uno spazio mentale che si allunga ogni volta che una luce sagomata si getta verso il pubblico. Una bella prova d’’attore, convinta e convincente.
Buona accoglienza per il debutto di Senza Lear, spettacolo di Isola Teatro vincitore del Premio Lia Lapini 2009, che propone una lettura originale del dramma shakespeariano di cui rimangono solo le tre sorelle prima dell’’incontro con il padre Lear, onnipotente anche nella sua assenza.

Il Re Lear di Isolateatro.

In scena Laura Riccioli, Elisa Porciatti e Armando Iovino che, con la regia di Marta Gilmore, indossano i panni inquieti di tanti «giovani condannati comunque a vedere meno e vivere di meno di chi è venuto prima. Come Goneril, Reagan e Cordelia. In panchina, aspettando che papà ci chiami dentro. Senza potere, senza denaro, senza governo. Senza figli, ahimè, e senza futuro».
Il Premio Lia Lapini, istituito tre anni fa in memoria della studiosa senese prematuramente scomparsa nel 1999, è una delle rare occasioni in Italia di selezione e di confronto di progetti che superino la dominanza testuale. Un premio di “scrittura di scena”, che riprende l’’impostazione teorica su cui lavorava la Lapini ma anche lo sguardo originale di uno studioso di teatro come Maurizio Grande, docente all’’Università di Siena, anch’’egli morto troppo giovane. L’’intenzione è quella di promuovere i percorsi di ricerca teatrale che considerano il lavoro sulla scena come il momento centrale della creazione artistica, praticato utilizzando qualsiasi materiale. Il testo non è escluso, ovviamente, ma l’’allestimento non è considerato la “messa in scena” di qualcosa che viene scritto prima. Gli eventuali testi, anche non teatrali, vengono trattati alla stregua degli altri materiali a disposizione: il corpo dell’attore e la sua voce, l’’attrezzatura scenotecnica, la musica. Si tratta di un premio di produzione finalizzato alla realizzazione di nuovi spettacoli che il festival senese si impegna a sostenere nel percorso produttivo della durata di un anno, dalla selezione al debutto e oltre. Nella prima fase vengono selezionati quattro progetti tra quelli pervenuti (erano quest’anno oltre 150). Nella seconda fase gli autori selezionati presentano alla giuria uno studio di venti minuti, in base al quale viene scelto il vincitore. Quattro i finalisti dell’edizione 2010: Roberta Sferzi, Silvia Pasello, Pieraldo Girotto e Vincenzo Schino. Ha prevalso quest’’ultimo, con un progetto intitolato Sonno, che vedremo a Siena il prossimo anno.

Con il sole in fronte

Contraltare terribilmente attuale a Senza Lear, un altro spettacolo del Festival declina con intensità e precisione il tema della mancata elaborazione del passaggio intergenerazionale. Ispirandosi al caso di Pietro Maso, infatti, Con il sole in fronte di Balletto civile mette in scena il prototipo veneto di una mostruosità filiale che, per citare padre Turoldo, è forse il frutto logico e coerente del sistema sociale in cui viviamo.

Baletto Civile Con il sole in fronte.

«È un rampollo simpatico e violento, spiega Maurizio Camilli, che dà corpo in scena a una partitura fisica e vocale di grande precisione ed efficacia– e c’’è il rischio che alla fine vi piaccia.» Fabbrichetta di infissi, soldi e macchine, eccessi e discoteche. Morto il padre («Non sono stato io», ripete), resta una madre ingombrante ad allontanare l’eredità. È incarnata da Ambra Chiarello, insieme badante e servo di scena. Ogni surplus di energia prende forme danzate, mentre il testo ricostruisce il romanzo di formazione di questo prodotto di un immaginario aberrante ma non privo di lucidità: «Io sono il mio super-eroe», confessa. Camilli, che firma drammaturgia e scene, e Michela Lucenti, responsabile della scrittura fisica e della messa in scena, hanno trovato un mirabile equilibrio tra teatro e danza, creando una figura che appartiene alla koinè linguistica e culturale dei personaggi di Marco Paolini – anche Camilli è trevigiano – ma che l’’attraversa con il ritmo tragico di quelli di Bernard-Marie Koltès. Molto bella e delicata la soluzione con cui, nell’’ultima scena, si allude al gesto efferato che ogni spettatore è chiamato a interpretare: sta uccidendo la madre o la badante? Si sta liberando della propria coscienza o dell’’umanità che in lui rimane? È un’’azione danzata nel corso della quale la madre-badante, in rosso su un tappeto bianco, lo sostiene e lo muove in posizioni che rinviano a una chiara iconografia sacra: madre con bambino, deposizione, pietà. Ma con un solo gesto lui rompe lo schema, rifiuta ogni pietas, e lascia la donna – la sua sagoma immota, la sua traccia vermiglia –sullo spazio bianco dal quale egli esce di scatto.

Fernando_Marchiori

2010-07-13T00:00:00




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