Là dove adesso ci sono i “corsari”… Arrevuoto Scampia-Napoli

Una conversazione e-mail con Marco Martinelli

Pubblicato il 03/11/2010 / di / ateatro n. 127

Il progetto Arrevuoto Scampia-Napoli ha avuto inizio nel 2005 da un input di Goffredo Fofi, che ha poi potuto concretizzare la propria idea grazie alla collaborazione con Roberta Carlotto (attuale direttore del Mercadante Teatro Stabile di Napoli). Fino al 2008 la direzione del progetto è stata affidata a Marco Martinelli (regista e drammaturgo del “Teatro delle Albe”), che –sulla scia della sua “non-scuola” (portata avanti nei licei ravennati) –ha avuto il coraggio e la passione di recarsi a Scampia e coordinare un centinaio di adolescenti sfrenati, provenienti dal liceo “Elsa Morante”, la scuola media “Carlo Levi” e il gruppo di ragazzini romeni “Chi rom… e chi no”.
Gli incontri laboratoriali, durante i quali i ragazzi scampiesi hanno avuto modo di conoscere ed appassionarsi al teatro, hanno dato vita a tre “movimenti” (termine con il quale vengono chiamate le tappe annuali del progetto, che continua ad esistere sotto altre direzioni), tre spettacoli, tratti da Aristofane, Jarry e Molière, nei cui testi i partecipanti al laboratorio hanno ritrovato rabbia, violenza e passione. Gli spettacoli che sono nati dai laboratori con Martinelli, e che hanno debuttato all’Auditorium di Scampia, sono stati Pace! (21 aprile 2006) da La pace di Aristofane, Ubu sotto tiro (31 marzo 2007) da Ubu re di Alfred Jarry, L’immaginario malato (19 aprile 2008) da L’avaro, Le intellettuali, La scuola delle mogli e Il medico per forza di Molière.
L’esperienza esaltante di Martinelli ha avviato il più ampio progetto “Punta Corsara”, cosicché l’Auditorium di Scampia si è trasformato in un vero e proprio teatro che ha già ospitato nomi di spicco quali Sandro Lombardi, Danio Manfredini, Armando Punzo, Arturo Cirillo, e molti altri. Ma soprattutto permette a giovani di talento di crearsi un mestiere artistico in qualità di attori, registi, drammaturghi, illuminotecnici…
Marco mi ha rilasciato questa intervista e-mail nel marzo 2010. Alcuni stralci di tale scambio “epistolare” telematico sono già apparsi in Mariacristina Bertacca, Un ritono al teatro necessario. Arrevuoto Ravenna-Scampia-Napoli, in «Atti&Sipari», numero 6, aprile 2010, pp. 32-35.

Il progetto Arrevuoto Scampia-Napoli ha suscitato molto interesse, anche mediatico (cosa rara quando si tratta di eventi teatrali); in molti lo hanno definito un vero e proprio “miracolo”. Riunire un centinaio di adolescenti scatenati – tu stesso hai affermato: «Più che una regia, fu per me un cavalcare la tempesta» –, dal background culturale e privato assai problematico, e riuscire a coordinarli, ad insegnare loro il rispetto per il compagno, il rigore per le battute da imparare, mi pare in effetti una grande conquista. Peraltro mi piace sottolineare che tutto ciò sia stato possibile non attraverso restrizioni, leggi, interventi duri, ma attraverso il saper ascoltare, l’arte, il teatro. Leggendo il bel libro Arrevuoto: Scampia/Napoli (a cura di Maurizio Braucci e Roberta Carlotto, Napoli-Roma, L’Ancora del Mediterraneo, 2009), mi hanno molto colpito le dichiarazioni dei ragazzi scampiesi, che hanno definito il teatro «uno strumento per dare forma ai sogni», una necessità per la loro vita. Mi piacerebbe molto capire che cosa sia per te il teatro necessario, che significato abbia. Ragazzi che conoscono la violenza nella sua accezione più negativa, per i quali non esistono né regole né limitazioni, ad un certo punto scoprono il teatro e non possono più farne a meno, perché si sentono liberi di essere loro stessi, e cioè “diversi”; sono affascinati dalle regole del “gioco” teatrale, in cui l’errore di uno rappresenta il fallimento di tutti, e da ciò nasce il rispetto del singolo per il bene della comunità…

Cara Mariacristina, risponderti a quest’ora di notte, nel pieno delle prove dell’Avaro, alla domanda riguardo alla necessità del teatro, mi fa pensare alla stanchezza. Alla benedetta stanchezza che avvolge il teatrante dopo una giornata di prove necessarie alla creazione. Dopo una settimana di prove necessarie alla creazione. Dopo mesi di prove necessarie alla creazione. Quella stanchezza è benedetta e necessaria, e contiene il segreto del perché la tua vita coincide con quel creare ininterrotto, cercando di non cedere alle sirene idiote del successo e del denaro. Le orecchie tappate come nell’Odissea, a sentire una musica dentro di te, cento volte più importante e necessaria dei lustrini del mondo. Quella stanchezza che anche nel furore di certe giornate a Scampia, quando niente sembrava andare per il verso giusto, mi faceva dire: benedetta questa stanchezza, benedetta questa giornata, benedetto lo stare qui, benedetto questo cercare senso insieme a questi piccoli, benedetto questo mondo insensato e maledetto.

L’esperienza di Scampia ha dimostrato anche quanto il teatro abbia bisogno di una forza scatenante, del dionisiaco che tutti circonda, sebbene per molti sia ancora dormiente… Ci vuole qualcuno che lo vada a risvegliare, che abbia il coraggio di farlo. Parlo di “coraggio” perché risvegliare il dionisiaco significa vivere nel dubbio, vivere alla giornata, vivere in modo “diverso”, insomma essere un F.P. morantiano. È molto più semplice avere certezze, uno status quo da mantenere a tutti i costi, privato di ogni imprevedibilità. E poi autoconvincersi che sia questa la felicità, ciò che davvero desideriamo.

Non lo so, cara Mariacristina. Per me sarebbe molto difficile autoconvincermi che quella sia la felicità. Non ci riuscivo da giovane, non ci riesco ora. Se ho fatto solo questo nella vita, è perché vivere in modo “diverso” rappresenta per me la normalità. Per me, per Ermanna, per i miei compagni delle “Albe”. Mi è capitato talvolta di desiderare un po’ più di soldi, un po’ più di successo, ma non sono mai state quelle le spinte di fondo del mio agire. Se lo fossero state, avrei cambiato compagni e direzione. E invece continuo in questa strada (oramai da trent’anni…), perché non c’è smacco o delusione che me la possano far abbandonare. Perché provare a conservare uno sguardo limpido che attraversi il male non ha prezzo. È impagabile. Non è vero che tutti gli uomini si possono comprare. Essere eretici, in questa dittatura del denaro che tutti ci avvolge, significa semplicemente questo: sapere, dentro di te, che non sei in vendita. Che i tuoi sogni non lo sono. Sapere che il tuo sognare continua a produrre opere, segni, linguaggi, relazioni differenti. In una parola: un mondo diverso dal mondo.

Il “teatro necessario” riemerge lavorando perlopiù nell’ambito del disagio psichico, fisico o sociale. Le convenzioni sociali della vita reale non accettano il “diverso”, mentre l’arte, il teatro in particolare, ha convenzioni che lo ammettono. Forse allora è per questo che il “diverso” si sente libero, e in questo sta la necessità del teatro per lui…

Guarda io penso, cara Mariacristina, che il teatro sia necessario quando è, fino in fondo, teatro. Visione che ti tocca, ti turba, ti costringe al pensiero, ti emoziona. Può esserlo lavorando ai margini dei territori coltivati, come abbiamo fatto noi a Scampia, come fa Punzo in carcere, come fanno altri amici e colleghi. Ma non sta meccanicamente lì il segreto della necessità. Si può lavorare in carcere e fare delle schifezze per nulla necessarie, così come si può lavorare partendo dalla propria condizione di piccolo borghese e fare opere altamente significative. Evitiamo le ideologie, anche quelle che nascono da buone intenzioni. I greci avevano un modo molto diretto per definire tutto ciò, si chiedevano: c’era Dioniso stasera sul palco? O c’era, o non c’era. Non stavano a farla lunga. Detto questo… è vero che Dioniso è il dio dei margini, e che ama in particolare non le pompe delle Istituzioni, ma i territori non coltivati…

C’è una cosa che mi preme molto: nel corso della nostra Storia, l’uomo ha più volte riscontrato quanto l’arte riesca a fare miracoli. L’arte permette all’individuo di emozionarsi, arrabbiarsi, piangere, sognare, in questo caso ha permesso a giovani sbandati di capire l’importanza del lavoro di squadra, dell’amicizia, del rispetto comune, del piacere di stare insieme. Nonostante queste prove di fronte alle quali ci troviamo giornalmente, perché pensi che chi si occupa di arte o chi fa arte sia spesso considerato cittadino di “Categoria B”? Gli artisti, quelli veri, non sempre hanno il riconoscimento che meritano, e sono spesso considerati poco utili alla società, rispetto ad altri. La vita è fatta di questioni pratiche, è vero, di burocrazia, di regole da seguire…, ma è fatta anche di sentimenti, emozioni, passioni, è fatta di un’anima, e l’individuo non può vivere senza anima…

Guardiamoci attorno. Viviamo in una dittatura dove contano solo due cose: il denaro e la fama. Due divinità che regolano il mondo. E che sono tra loro complici e gemelle, l’una nasce dall’altra e viceversa. Ma se il mondo è così, a noi che importa? Pensiamo, come dice quel manuale di perfetto “ateismo” che è il Vangelo, a far bella la nostra anima, a coltivarla come un fiore. Pensiamo a coltivare il giardino delle nostre relazioni, della nostra “piccola patria”, costituita dalle amicizie vicine e lontane, da chi sta nella nostra città e da chi sta in Africa o al di là del mare, e il cui lavoro è in sintonia con il nostro. Non ci considerano? Per forza, siamo il contrario di come ci vorrebbero, ovvero servi consenzienti. Non ci considerano? Ma noi non consideriamo loro e il loro mercato di schiavi.

Grazie ai tuoi spettacoli, noi spettatori del XXI secolo riusciamo a capire che cosa significasse il “coro” per gli antichi. Peraltro i testi classici di Aristofane, Jarry, Molière, attraversati da questi ragazzi riescono davvero a tornare vivi, riescono a farti ridere, a farti rivivere la condizione dello spettatore coevo di questi grandi autori. Riguardo ad Aristofane in particolare, mi piacerebbe sapere come i ragazzi vedono i personaggi dei suoi testi, come si rapportano con il tipo di comicità, ma anche con la violenza aristofanesca.

Non c’è stato bisogno di tante spiegazioni. Non ce n’era il tempo. Prendere La Pace, smontarla, riscriverla, ricostruirla, reinventarla dal di dentro, a partire dall’esperienza di ragazzi che mi raccontavano le sirene della polizia tutti i giorni sulla strada, dei morti bruciati nelle auto, degli elicotteri sul tetto di casa, del dolore di avere amici e parenti trucidati per sbaglio, a partire dai loro sogni e dai loro incubi: solo questo ho fatto. Aristofane era in mezzo a noi, felice che qualcuno si indignasse millenni dopo, così come si era indignato lui. Felice che del male e dell’orrore se ne ridesse, come ne rideva lui. Felice che qualcuno ancora sognasse di avere le ali, come sognava lui.

Il “teatro necessario” – per come lo intendo io – è il teatro delle origini, il teatro rituale, nato come momento di aggregazione, scambio di relazioni interpersonali, con intento religioso e catartico. Poi è diventato spettacolo, si è “codicizzato” – diciamo così – e in poco tempo ha perso del tutto la sua connotazione primordiale, entrando nei meccanismi economico-commerciali.

Sì. Ma perché torni quello delle origini, è sempre possibile. È ancora possibile, cara Mariacristina. Basta guardare gli occhi di un bambino. Lì dentro c’è tutto. Da lì parte il movimento che può rovesciare il mondo.

Però è anche vero che è necessario avere ottime guide, come te, e parlo in qualità di diretta fruitrice, perché io stessa ho frequentato tuoi laboratori: di volta in volta il mio desiderio di teatro è aumentato, al punto da non vedere l’ora di entrare in scena o, meglio, “fare teatro”, visto che la vera formazione, il vero raggiungimento del piacere e della libertà, è nel momento in cui si prepara la performance.

Davvero ero bravo? Allora vuol dire che eravate bravi voi, anche se non lo sapevate. La miglior guida è quella che si fa guidare. Dall’energia attorno, dal nuovo che ogni giorno porta con sé, dalla disposizione allo stupore e all’incanto.

Penso inoltre che sia molto bello il tentativo di recuperare culturalmente un quartiere come quello di Scampia, portarlo al centro dell’attenzione (anche mediatica) non più solo per la sua metà negativa, ma anche per tutto ciò che di bello può offrire, e cioè giovani pieni di energia e di desiderio, ai quali nessuno ha mai dato la possibilità di sfogarsi secondo i giusti canali. Il progetto “Punta Corsara” è davvero nobile, degno di stima e sostegno: il desiderio di avviare giovani capaci ad un mestiere, cercando di cogliere in ciascuno di loro le proprie potenzialità artistiche.

Ce ne vorrebbero mille di “Punta Corsara”, perché ovunque ci sono terreni da dissodare, fiori da far crescere, pianticelle e alberi che potrebbero alzare il loro sguardo al cielo. Ma le nostre mani non arrivano ovunque. Se penso però che a Scampia ora ci sono i “corsari”, là dove cinque anni fa c’era un Auditorium chiuso, sono felice. Occorre pazienza, e coraggio. La pazienza è davvero una grande forza, è la virtù capace di dare senso e continuità al nostro coltivare.

Mariacristina_Bertacca

2010-11-03T00:00:00




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