L’emergenza e l’utopia

Dopo il terremoto: L'Aquila come laboratorio culturale

Pubblicato il 30/09/2012 / di / ateatro n. 140

Dopo il terremoto del 6 aprile 2009, lo scenario è tuttora quello di una devastazione senza pari, emblema di incoerenza progettuale e politica, metafora di un paese che fa e permette lo scempio della propria cultura. Eppure proprio in questa città, L’’Aquila, è possibile intercettare fenomeni di pulsione e produzione artistica e culturale, argini di resistenza e contrasto al degrado, o forse suoi inevitabili anticorpi.

«Lo “scarico” delle macerie sembra essere guasto. Tiri lo scarico ma le cose non vanno giù, non svaniscono, non spariscono. Lo scarico è a terra ed è uno scarico rotto, uno scarico da cui riemerge tutto.
C’è una pressione che proviene dal basso, dalla polvere: le macerie; c’è una pressione che proviene dall’alto: le impalcature che impediscono di vedere l’orizzonte.»
(Alessandra Ventrella, L’Aquila in lungo, 2012)

Non può sfuggire a chi si occupa di teatro o di parole – di teatro nella sua accezione originaria legata alla parola ‘vedere’, di parole perché semplicemente frequenta libri (li legge o li scrive) – che in questo luogo è in gioco una partita che va ben oltre il fatto contingente e localistico. L’Aquila è diventata suo malgrado un laboratorio culturale dove riprogettare ciò che non è più costringe a porsi domande fondamentali. La distruzione delle forme antiche, materiali e sociali, libera il magma della sostanza e non permette che consistenze temporanee e volatili del tutto insoddisfacenti, spinge a sperimentare altre espressioni, altre forme, altri strati solidi.

A L’Aquila è avvenuto ed è possibile far avvenire qualcosa di straordinario: a L’Aquila si narra, si produce narrazione. Le forme e i modi di questo narrare, a causa della diaspora avvenuta e della ‘dissoluzione delle cose’, a causa dei molti fragori e dei molti silenzi, a causa del fatto che era quindi impossibile tacere e difficilissimo parlare, hanno agito come l’acqua che scorre e invade qualsiasi interstizio, rigagnolo, dislivello, e poi come il fiume in piena che invade con forza e prepotenza gli spazi che incontra e li travolge. La narrazione ha usato qualsiasi elemento solido o quasi solido di trasmissione disponibile o superstite, giocoforza e in particolare il web, assunto ad agorà sostitutiva di contro all’agorà negata non solo dai crolli del sisma, ma dagli off-limits dei governanti, per riplasmare i suoi archetipi strutturali attraverso i nuovi ‘supporti’: l’ipertestualità è diventata nuova oralità, il blog narrativa epistolare, gli status slogan, epigrafi, grida dell’anima, fino alla incredibile rassomiglianza di questi con le sticomitie tragiche.
Ne è testimone il libro di Massimo Giuliani Il primo terremoto di Internet (edito e disponibile su Amazon.com). Raccogliendo tutte le più notevoli esperienze di informazione in rete avvenute subito prima e subito dopo il sisma del 2009 (alcune delle quali hanno dato vita allo spettacolo di musica e teatro di Animmamersa), permette di gettare uno sguardo su questo eclatante esempio di informazione partecipata, che diventa una narrazione collettiva, polifonica, riscoperta e rafforzamento di una comune identità anche linguistica, e di osservare il processo di trasmigrazione formale della scrittura (o delle scritture) verso i nuovi ambienti virtuali.

«Sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurerà: illuminate, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta.».
(Jorges Luis Borges, La biblioteca di Babele, 1941)

Ma L’Aquila non è solo luogo di produzione di testi, L’Aquila è testo essa stessa. La fissità delle macerie o come si voglia definire ciò che rimane non rimosso, né ripristinato, bensì immobilizzato da puntellamenti e tiranti, comunque fuori servizio, e la contemporaneità scoperchiata e intellegibile che ne fuoriesce, per cui interi quartieri recenti giacciono abbandonati, ma ancora pulsanti di oggetti quotidiani, a noi così familiari, rende possibile un’insolita e paradossale esperienza che si potrebbe intitolare la visita al museo di se stessi: improvvisamente ascritti a reperti, a fossili, a oggetti di osservazione storica e riflessione causalistica, sono però oggetti vivi, con la chance quindi di cambiare in extremis il corso degli eventi. L’abbandono della vita quotidiana dalle cose ha liberato, traslato, mitizzato quelle cose e al tempo stesso non le ha sottratte. Si offrono allo sguardo come opere d’arte, conservando ed emanando l’intensità non di un solo ricordo, ma della totalità di tutte le epoche recenti che le ha attraversate, che sono le nostre epoche e la nostra storia recente.
Non lontana dalle ridefinizioni degli spazi urbani di Augé, ci sembra che, mentre la periferia della città, potenziata dalla migrazione forzata post-sisma, venga spinta a rimodellarsi secondo le logiche (dis-umane) degli spazi di consumo (il moltiplicarsi di rotatorie per lo scorrimento rapido del traffico o di centri commerciali) e dello stereotipo (vedi il progetto C.A.S.E.), in L’Aquila terremotata, per intenderci la “zona rossa”, vasta quasi quanto Milano dentro la Cerchia dei Bastioni o Roma da Termini al Tevere, coesistano tutti gli scenari urbani ipotizzabili di non-omologazione, a-funzionali, di resistenza, la totalità cioè dei luoghi simbolo del mito, dell’attesa, del ricordo, ma anche della conoscenza. Augé li elenca. Sono rovine, cantieri e città fantasma e hanno, citiamo Augé più o meno testualmente, una caratteristica fondamentale: sono spazi incompiuti, quindi, sono spazi poetici in termini etimologici in cui e con cui “ci si può fare qualcosa”.

«Le rovine non hanno altro avvenire se non lo sguardo che vi posiamo sopra. Tra i loro passati molteplici e la loro funzionalità perduta, ciò che lasciano percepire è una sorta di tempo puro, al di fuori della storia, a cui è sensibile l’individuo che le contempla, come se questo tempo puro l’aiutasse a comprendere la durata che scorre in lui.»
(Marc Augé, Ground Zero – conferenza 2003)

Di questa necessità demiurgica di sguardo si è accorta la Scuola Paolo Grassi di Milano, che, in collaborazione con il Teatro Stabile d’Abruzzo, ha portato proprio a L’Aquila il secondo anno 2011-12 del corso di drammaturgia a svolgere un suo precipuo modulo didattico, il laboratorio Arti e pratiche dell’osservazione a cura di Renata Molinari. Il laboratorio è un processo di lavoro per attivare la percezione del quotidiano a cogliere la realtà nella direzione della composizione teatrale, riassumibile nelle parole della docente osservare per scrivere, scrivere per vedere. E’ un’educazione allo sguardo, allo sguardo teatrale, per indagare i luoghi che si abitano e si percorrono. Per tre anni il lavoro svolto nelle differenti classi ha avuto come riferimento privilegiato soprattutto la città di Milano e gli autori che l’hanno raccontata. Quest’anno però l’esplorazione è stata portata avanti sia su Milano che su L’Aquila, nonostante a L’Aquila la realtà da osservare fosse più forte dell’esercizio.
Otto giovani – i quattro allievi drammaturghi della Grassi e quattro giovani aquilane – hanno “incrociato i loro sguardi”, dando corpo a frammenti poetici, racconti, testimonianze e visioni, che, in forma di reading, o meglio di oratorio, sono stati restituiti sia a Milano sia a L’Aquila: a L’Aquila, di fronte a una piccola folla di cittadini turbati, commossi e nutriti da tanta scrittura, all’interno di una rassegna guarda caso intitolata I cantieri dell’immaginario. La lezione aperta dal titolo Milano-L’Aquila: Sguardincrociati restituiva il miracolo delle parole invece delle pietre: la consistenza dell’invisibile, passato e futuro, e l’interrogazione del presente, anche e soprattutto nel confronto con l’intatta Milano. Intatta? C’è qualcuno che può oggi considerarsi al di fuori di un’emergenza?

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»
(Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)

E’ dunque possibile visitare L’Aquila non solo per prendere atto di una realtà terribile, ma per decriptarne i segni alla ricerca di una conoscenza definitiva, urgente, necessaria, non più procrastinabile. La intuiamo, incastonata suo malgrado in quelle vestigia imbalsamate, ma tuttora oscura o oscurata. Ormai sappiamo che riguarda la dimensione (apocalittica) del declino della nostra civiltà, ma anche le segrete istruzioni per la sua rinascita.
Così può avvenire che a indicarci la segreta via della palingenesi, a noi ciechi o quanto meno disorientati, siano esseri eccezionali. Può accadere infatti che nel proprio giro aquilano si sia guidati e scortati da angeli della strada, cani randagi che disposti letteralmente a cordone di protezione e servizio d’ordine accompagnano i passi ed esigono il silenzio degli astanti, mentre conducono per le strade il visitatore attonito, custodi attenti e maestri di pudore e dignità. Di responsabilità.

Questo laboratorio di archetipi della modernità – questo è diventata questa città fantasma – ne produce uno ulteriore, che viene così raccontato in un post sulla sua pagina di Facebook Erri De Luca:

«Ieri venerdì 7 settembre 2012, entro nel recinto proibito delle macerie di L’Aquila, deserta da tre anni. Sto con Emergency che ha deciso di tenere qui il suo incontro annuale. Tre cani ci accompagnano durante la ricognizione. Tre cani di solida razza bastarda, che qualcuno nutre, che qualcuno abbandonò durante l’evacuazione forzata. Visitiamo il silenzio di una città proibita, scortati da tre cani che hanno resistito al decreto di espulsione e continuano a dimostrare la loro volontà di residenza. Hanno fornito esempio a nome di tutti. A loro dovrà un monumento la nuova città che risorgerà. Perché L’Aquila risorgerà e accanto al suo nome di nobile creatura dei cieli, ci saranno tre cani a fare da guardia perché nessuno la spopoli di nuovo.»

Perché, come sostiene Renata Molinari, “l’emergenza è l’altra faccia dell’utopia” (Renata Molinari, Per F. Q., “Venezia Musica e Dintorni”, n.40, maggio/giugno 2011)

Giorgina_Cantalini

2012-09-30T00:00:00




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