L’’inferno senza fondo di Scimone e Sframeli

Giù ovvero della verticalità a teatro

Pubblicato il 20/10/2012 / di / ateatro n. 141

La verticalità, già esplorata in una dimensione ascendente nel precedente capitolo di Pali (il primo, a nostro avviso, di una stagione nuova di questa straordinaria avventura drammaturgica), riepilogando, da una parte la sapienza ancestrale di Peter Brook

Senza il palo niente può mettere in contatto il mondo visibile con quello invisibile. Il palo, come la croce, è il punto di congiunzione. È lungo il palo piantato in terra che scivolano gli spiriti.

Dall’altra c’è una precedente intuizione del Cortile:

PEPPE: […] Tano, hai notizie del fioraio?
TANO: È nel cortile.
PEPPE: Che fa nel cortile?
TANO: Di giorno s’arrampica.
PEPPE: Sugli alberi?
TANO: Non ci sono alberi nel cortile.
PEPPE: Dove s’arrampica?
TANO: Sui pali.
PEPPE: Tutti i giorni?
TANO: Sì.
PEPPE: E di notte che fa?
TANO: Di notte scende giù.
PEPPE: Tutte le notti?
TANO: Sì.

Ora questa intuizione approda qui al momento culminante dell’abisso.

In Giù, in scena in questi giorni al Teatro Argentina di Roma, il giorno è finito. Viviamo una notte, da cui non vogliamo, non possiamo uscire. È questo che sembrano dirci Scimone e Sframeli in uno spazio in cui l’emblematica cifra scatologica di intuizioni precedenti trova finalmente luogo. È, infatti, un enorme «cesso», quello da cui fa capolino il figlio (Scimone) che domanda inutilmente al padre (Cesale), intento nell’opera distratta di sbarbarsi (uno dei numerosi gesti vani tipizzati da Scimone e Sframeli?) di completare il lavoro di alienazione degli altri e di sé («Sì, papà! Perché questo cesso è tuo!… Questo cesso l’hai costruito tu, con i tuoi sacrifici…dopo tanti anni di lavoro…»), tirando impietosamente «tutto lo scarico». Dalla tazza sbuca anche Don Carlo (Sframeli), il prete davvero «scomodo» – visto l’angusto condominio del «cesso» (qui il carattere letterale, come in altri magistrali episodi scimoniani, vivifica quello allegorico) – che cerca vietamente il raccoglimento più idoneo alla preghiera, sempre interrotto dai movimenti sotterranei del «classico sagrestano» (Arena), invocato con voce querula «Pasquale!».
La preghiera per il «povero Cristo di Ugo», sintomo di un rituale disperato e sconnesso proveniente dall’opera prima Nunzio (1994) passando ancora una volta per Pali, innesca il racconto di altri “ultimi” costretti, loro malgrado, ad una dimensione infera. In questo caso, si tratta di una famiglia ai margini: il padre «cantante senza microfono» che cerca nei figli (con cui abita sotto un ponte) il consenso, l’oblio della propria sconfitta, mentre la madre, sopra il ponte, “lavora” per alimentare i propri cari e soprattutto l’illusione infantile del marito. Tutto questo intarsio, visionario e promettente di quei riscontri imprevisti che il grande teatro matura di là dai suoi propositi immediati, si gioca in realtà sulla linea di una gestazione, esasperata quanto si voglia, di qualcosa di nuovo. Cos’altro, infatti, potrebbe rappresentare il ponte, nella sua sinuosa andatura che separa il concavo dal convesso, se non una placenta inopinata ma rassicurante, il guscio di un liquido amniotico che ipnotizza con il conforto del suo dolce calore e fa cantare finché «la finestra è tutta aperta», certamente non per caso (non ironicamente questa volta), «Mamma solo per te la mia canzone vola!»?
Il canto straziato che la luce, disegnata da Beatrice Ficalbi, proietta dalla finestra sui personaggi, delimita un perimetro di agghiacciato strazio, mentre la scenografia di Lino Fiorito esplicita, grazie alla prepotenza totemica del «cesso», il carattere al contempo iperbolico e tangibile, metaforico e concretissimo di questa condizione.
Proprio nell’equilibrio tra un piano di realismo crudo e un piano di onirica esuberanza sta il senso del raggiungimento di una nuova fase per l’ensemble messinese. Un equilibrio certificato drammaturgicamente dalla capacità scimoniana di calibrare in modo più armonico il racconto di una disperazione ordinariamente atroce e modulato, nell’allestimento di Sframeli, da una distribuzione rigorosa dei compiti: con Scimone e Sframeli ad interpretare una funzione algidamente apodittica, epicamente brechtiana e i bravissimi (mai così misurati come in questa prova) Salvo Arena e Gianluca Cesale ad adempiere alle responsabilità catartiche che il dramma pretende.
I primi per lo più bloccati in una posa frontale, statuaria, mentre i secondi consegnati ad un margine di manovra più ampio. Così, il sagrestano oscilla tra un perpetuo dentro/fuori (il cesso, dunque lo spazio protetto al riparo dalla realtà) e il padre, da una posizione liminare, corteggia il confine, da cui trae «con l’asciugamano» i propri interlocutori affinché prendano «una bella boccata d’aria».
C’’è in questo, certamente, un riflesso delle mansioni rodate dalla compagnia, una spia della naturalezza perfettamente acquisita dei diversi compiti (il che è decisamente incoraggiante per le sue sorti future) con Scimone e Sframeli in pronunciata funzione autoriale e Arena e Cesale in quella di raffinatissimi esecutori. C’’è anche, è bene ribadirlo, la realizzazione di un dettato stilistico, l’ulteriore definizione di una poetica coerente. In tal senso, il bestiario, predisposto per la verve metamorfica di Arena, si arricchisce di nuove trovate (la «pecorella smarrita»; «il gatto in amore»), capaci di trasfigurare l’oltraggio di una reiterata offesa, di una lordura che aspetta di essere raccontata, celebrata dal suono liberatorio delle campane (riecheggianti il momento topico del Cortile).
Nel finale si fa più forte, inesorabile, la spinta verso il basso e, forse, la voce innamorata, ammaliante, di un padre non servirà a salvarne un altro, a riscattarci definitivamente.
Si applaude con disagio, non senza il brivido di una vertigine, il nuovo spettacolo di Scimone e Sframeli. È forte, infatti, la sensazione che la finestra stia per chiudersi mentre si vorrebbe ancora ascoltare l’estenuazione dell’ultimo acuto ed è ineludibile il sospetto che non rimarrà tempo di ricordare che qualcuno, sentendosi ascoltato, abbia cantato, una volta ancora, per i propri figli.

Giù
di Spiro Scimone
regia Francesco Sframeli
con Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Salvatore Arena, Gianluca Cesale
scene Lino Fiorito
Compagnia Scimone Sframeli
in collaborazione con
Festival delle Colline Torinesi e il Théâtre Garonne Toulouse

Dario_Tomasello

2012-10-20T00:00:00




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