Tutto quello che volete sapere sul prossimo decreto per il teatro e non avete mai osato chiedere

Il power point del MiBACT spiegato a grandi e piccini

Pubblicato il 12/12/2013 / di and / ateatro n. #BP2013_ValoreCultura , 146

Nelle prossime settimane il MiBACT emanerà i decreti attuativi in base a quanto previsto dalla legge “Valore Cultura”. Non è l’attesa norma per lo spettacolo dal vivo, promessa e mai approvata, ma si presenta come una riforma con “carattere d’urgenza” e una necessaria razionalizzazione del nostro sistema teatrale, sclerotizzato da più di vent’anni.
Il progetto – messo a punto con la consulenza di tecnici particolarmente qualificati – è stato discusso in una serie di incontri preliminari, spesso pubblici. Al primo, la sessione straordinaria delle Buone Pratiche organizzata dalla Associazione Culturale Ateatro a Milano il 19 ottobre scorso e ospitata da Fondazione Cariplo, sono seguiti confronti con altre realtà, tra cui le diverse categorie rappresentate dall’AGIS, da Assoteatro, nata di recente per raccogliere le imprese private, e da C.Re.S.Co. All’inizio di dicembre in MiBACT ha diffuso un documento (scarica il power point del MiBACT LA RIFORMA DEI CRITERI DI ASSEGNAZIONE DELLE RISORSE FUS TEATRO) che precisa ulteriormente le linee guida dei decreti. Il lavoro preparatorio è nella fase culminante e la Direzione Generale sta attualmente raccogliendo suggerimenti e indicazioni, in vista della stesura finale.

Una premessa: l’equità di genere 
Il 19 ottobre la Associazione Culturale Ateatro ha trasmesso e condiviso l’indicazione di introdurre nel decreto il principio dell’equità di genere. Il teatro italiano è maschile ai vertici e nelle funzioni che contano (di potere): regia, drammaturgia, e naturalmente direzioni e presidenze degli stabili. Dal documento presentato dal MiBACT non ci risulta che questa richiesta sia stata recepita, ma non disperiamo: può rientrare nelle indicazioni di riforma degli statuti dei teatri nazionali e di interesse pubblico, ma anche – e soprattutto – nei parametri di valutazione dell’attività.

Considerazioni di carattere generale: le risorse e il rapporto Stato-Regioni
Il provvedimento è ispirato da una sincera volontà di rinnovamento e recepisce alcune esigenze della parte più viva del teatro italiano. Le riforme rischiano però di restare buone intenzioni se non sono accompagnate da una riflessione e da un preciso impegno sulle risorse necessarie e disponibili, in un settore sottofinanziato come il teatro di prosa (non possiamo non ricordarlo, pur essendo consapevoli della grave situazione economica pubblica). E’ necessario che il decreto sia accompagnato da impegni precisi sull’incremento delle risorse FUS ed extra FUS, già a partire dal 2015.
Ricordiamo per l’ennesima volta che il Fondo Unico dello Spettacolo è diminuito in termini reali del 53% dal 1985 a oggi, passando dallo 0,0832% del PIL allo 0,0263% del 2012, con una riduzione del 68,4%. L’inversione di tendenza dopo decenni di tagli sarebbe il presupposto minimo per dare progettualità del settore. Contestualmente ai decreti, è legittimo aspettarsi almeno una indicazione chiara sul riequilibrio delle risorse all’interno del FUS fra i diversi settori: in questi anni, la quota riservata alla prosa è stata progressivamente erosa (in sostanza a favore della lirica). In termini assoluti, il sostegno al teatro è calato dai 91,62 milioni di euro del 2003 ai 66 milioni di euro nel 2012. Tra il 2006 e il 2012 le Fondazioni lirico-sinfoniche hanno subito una pesante contrazione del finanziamenti, pari al 20,62%; ma nello stesso periodo il teatro di prosa è stato penalizzato in maniera ben superiore: – 22,9%. Sul totale del FUS, le FLS incidono oggi per poco meno del 50%, mentre il minimo previsto nel 1985 – che includeva gli ICO (Istituiti Concertistici-orchestrali) – era il 42%. Occorre la certezza che il risanamento degli enti lirici (uno degli obiettivi prioritari di “Valore Cultura”) non pesi sul teatro di prosa e anzi gli restituisca risorse.
Nell’attuale scenario, è evidente che qualunque cambiamento o apertura al nuovo dovrà coincidere con una riduzione del numero dei soggetti finanziati dal FUS (e magari con tagli a molti superstiti). La selezione dovrà essere particolarmente attenta: speriamo che avvenga in coerenza con l’analisi delle missioni delle diverse aree e dei diversi soggetti e della loro funzione sul territorio, tagliando rendite di posizione (a volte addirittura ereditarie), eliminando storiche sperequazioni e qualche altrettanto storica contraddizione (vedi il sostegno pubblico a progetti a forte vocazione commerciale).
Oggi come ieri, il finanziamento pubblico al teatro deve garantire due priorità: la qualità e l’accesso. Il concetto va ribadito, perché implica una precisa cultura nella gestione del denaro pubblico da parte di chi lo riceve. Secondo il decreto, la spesa deve essere “pertinente, documentata, tracciabile”. Ma dovrà essere anche “sobria”: questo concetto (di certo relativo e rapportato ai tempi) non va necessariamente trasferito in regole precise (tetti facilmente aggirabili su cachet, compensi, allestimenti, trasporti, eccetera), ma deve essere un principio condiviso e costituire un punto di riferimento per le valutazioni.
Il legame tra risorse e servizio rimanda immediatamente al rapporto fra Stato, Regioni ed enti locali. Il carattere di urgenza del provvedimento consente ancora una volta allo Stato di intervenire su una materia che altrimenti competerebbe alle Regioni (che forse sono ben felici di delegare il compito…). Diversi elementi tendono alla (ri)centralizzazione, o perlomeno a un più stretto controllo da parte del MiBACT. E’ un nodo cruciale, perché non investe solo la divisione delle competenze, ma anche la ripartizione delle risorse e il riequilibrio territoriale su scala nazionale. Il documento illustrativo richiama in alcuni punti (le residenze, per esempio) interventi concertati. Ma si stanno definendo con chiarezza le competenze? Le Regioni interverranno là dove lo Stato non arriverà (più), o forse non è mai arrivato? Si creano i presupposti per interventi equi sul territorio, sempre nel rispetto delle autonomie? L’entità, le linee, la qualità degli interventi regionali oggi sono molto diversi: per un gruppo di teatro è molto diverso operare in Toscana o in Calabria (ma anche in Lombardia). Non sono temi estranei, ma complementari alla definizione dei decreti attuativi.

Gradualità e triennalità: un elemento positivo e qualche preoccupazione
Venendo a un esame delle linee del decreto finora rese note (e in attesa di un testo dettagliato che potrà forse dissipare o attenuare qualche preoccupazione), va sottolineato un elemento di buon senso: la gradualità del cambiamento. La normativa avrà una prima fase di avvio nel 2014 (con le domande da presentare entro gennaio), mentre per il triennio 2015-17 verrà introdotto il principio della triennalità (presentazione delle domande nel novembre 2014). O meglio, verrà reintrodotta la triennalità: la sua cancellazione è uno dei punti su cui il Direttore Generale dello Spettacolo ha fatto pubblica autocritica in occasione delle Buone Pratiche di Firenze.
La triennalità è senz’altro un elemento qualificante della riforma: consente (e di fatto impone) una progettualità che finora il nostro teatro si è sempre negata. Ovviamente sono necessarie condizioni e garanzie (anche economico-finanziarie) che la consentano, in questa difficile congiuntura. La gradualità è cruciale in una prima fase di applicazione del decreto, inevitabilmente sperimentale, e lo sarebbe anche la flessibilità. Ma in che misura le soglie d’accesso potranno essere verificate e modificate? Il MiBACT dovrebbe essere in grado di correggere eventualmente la rotta in corso d’opera, anche per evitare che si ripeta quello che è accaduto in passato: vent’anni fa il Ministero ha usato come punto di partenza una fotografia del sistema (per di più sfuocata e già datata), e l’ha strenuamente difesa e via via irrigidita, salvo un tardivo ripensamento. Speriamo di non ritrovarci tra dieci anni nella stessa situazione…

La riforma del sistema: le due fasce della stabilità (Teatri nazionali e Teatri di interesse pubblico)
Il tentativo di razionalizzare il sistema non sfugge anche questa volta a una netta divisione tra “produzione” (con due tipologie di stabilità e le imprese di produzione in senso stretto, inclusa una nuova fascia “under 30”) e “distribuzione” (circuiti, organismi di ospitalità, festival e teatro di strada).
L’area della stabilità viene profondamente riformata e ricondotta a due fasce: pochi “Teatri nazionali” e poi i “Teatri di interesse pubblico”, un’area dove potrebbero confluire gli stabili pubblici medi e piccoli, più alcuni stabili privati e di innovazione (quelli che ce la faranno). Le funzioni di ciascuna area non sono per ora precisate e le differenze sono ricondotte unicamente alla dimensione dell’impresa. Anzi, queste prime indicazioni sembrano accreditare il principio che sia solo la “dimensione” a dettare la funzione pubblica.
Nulla viene detto delle differenti missioni delle due fasce di stabilità: è probabilmente un limite legato alla sintesi della presentazione, ma non è una piccola lacuna. In Italia infatti l’idea di teatro nazionale non ha alcuna radice storica e troverà di sicuro forte opposizione. All’origine dei nostri teatri pubblici c’è piuttosto una idea di “rete” – quando di rete ancora non si parlava – o addirittura di “movimento”, anche se negli ultimi anni l’associazione degli stabili si è limitata a difendere i privilegi della categoria, senza ridefinire la propria missione. Se l’istituzione dei teatri nazionali costituisce davvero una risposta alla necessità di ridiscutere profondamente i presupposti e rifondare il teatro pubblico, allora andrebbero chiariti gli obiettivi culturali e sociali, prima di ricondurli o ridurli alla dimensione imprenditoriale. Allo stesso modo, riunire nella categoria dei “Teatri di interesse pubblico” organizzazioni dalla fisionomia giuridica e dalla missione originaria diversa presuppone una chiarezza sugli aspetti unificanti: il riconoscimento della funzione pubblica di molti organismi privati è il punto di arrivo di un processo avviato negli anni Settanta, che si è articolato in forme molto diverse. Unificare realtà con storie e vocazioni tanto diverse non sarà certo facile.
Un primo test dell’applicazione del decreto sarà il numero degli enti promossi a Teatri nazionali, a cui vengono richieste 8000 giornate lavorative e 220 giornate recitative, di cui il 60% nei teatri gestiti. Per i grandi stabili, questi requisiti sono facilmente raggiungibili. Ma per gli altri? Quanti faranno il passo più lungo della gamba per rientrare nei parametri? E sarà possibile? La linea anticipata a Milano dal Direttore Nastasi sembrava ipotizzarne solo quattro o cinque Teatri nazionali nelle grandi aree metropolitane (quasi a prescindere dalla loro storia e situazione attuale). Forse non era necessario ricorrere al concetto di Teatro nazionale; va inoltre ricordato che in molte aree metropolitane funzionano articolati sistemi teatrali di cui tener conto.
I Teatri di interesse pubblico, la categoria che dovrebbe raccogliere quel che resta dell’area della stabilità, hanno l’asticella molto più bassa, ma più alta che in passato: 5000 giornate lavorative e 150 giornate recitative (500 e 30 in più che in passato), con una o più sale con un totale di almeno 400 posti (e una sala con almeno 250 posti), e stabilità del nucleo artistico. Nessun accenno a eventuali differenze rispetto al bacino d’utenza o ai territori in cui si opera (eppure il Ministro Bray era sembrato sensibile al problema dell’equità). Mentre per gli stabili privati si richiedeva già una sala da 500 posti, le difficoltà maggiori riguardano gli “ex” teatri stabili di innovazione, per cui la dimensione minima della sala era di 200 posti: la prescrizione è chiaramente funzionale a una feroce selezione. Si può condividere l’idea di rafforzare il settore e valorizzare una programmazione articolata in più sale, senza ignorare però che il requisito “storico” dei 200 posti corrisponde a una dimensione ideale per il teatro contemporaneo (di innovazione e per ragazzi) e a una tipologia molto diffusa; su questa dimensione si sono tra l’altro realizzate impegnative ristrutturazioni, anche recenti.
Per i Teatri nazionali, i requisiti sono finanziariamente assai impegnativi ma la richiesta che i contributi locali siano almeno pari a quello statale è in continuità con il passato (dall’inizio degli anni Novanta, decreto Tognoli). Per i teatri di interesse pubblico, è invece una novità la richiesta di contributi degli enti locali pari almeno al 50% di quello statale. La maggior parte degli stabili privati e di innovazione – fra cui alcuni dei principali – attualmente riceve contributi locali anche di gran lunga inferiori. Gli enti locali saranno in grado di rispondere a richieste di un aumento del contributo? E non c’è il rischio che queste risorse vengano sottratte agli altri soggetti attivi sul territorio?
Un altro aspetto significativo è la richiesta di modifiche negli statuti dei teatri nazionali e di interesse pubblico (che andranno approvate dalla Direzione generale), con particolare attenzione al vincolo del numero massimo dei mandati per gli organi statutari (tra l’altro non vengono finora precisati profilo e modalità di selezione delle figure apicali). Riforme opportune, così come le verifiche, purché non si traducano nell’ennesimo negoziato tra i singoli teatri e il Ministero. Purché non sconfinino nell’ingerenza e nel controllo politico (soprattutto quando si tratta di imprese private, quelle che dovrebbero garantire pluralità, differenze, indipendenza).

La (non) riforma del sistema: la “stabilità leggera”
Chi non ha i requisiti per aspirare a queste due categorie di stabilità, può aspirare al finanziamento destinato alle “imprese di produzione”, ovvero le compagnie di giro, quelle che non dispongono di sede. Qui sta una delle principali lacune del decreto (largamente condivisa), che sembra ignorare del tutto un vasto settore, forse il più vitale del sistema (magari perché non rientra – se non per qualche piccolo stabile d’innovazione – nella fotografia dei decreti finora in vigore). Le principali trasformazioni del teatro italiano di questi dieci anni sono infatti da collegare alla cosiddetta “stabilità leggera”. La vitalità del sistema è stata sostenuta anche e soprattutto da molte compagnie e gruppi che gestiscono teatri: piccole compagnie in piccoli sale sparse nel territorio nazionale, comprese alcune aree metropolitane (Milano e Genova, per esempio, ma non Roma). Diverse residenze, e in particolare le residenze “artistico-organizzative” (che questo decreto ignora), rientrano in quest’area. La gestione e programmazione di una sala è assai più onerosa della semplice produzione, ma ha preziose ricadute sul piano artistico e nel rapporto con il territorio, come testimoniano numerose esperienze, ed è anche la modalità di gestione che può più attivamente sostenere – e ha sostenuto in questi anni – i gruppi più giovani.
La risposta a questa lacuna non può e non deve essere la doppia domanda di contributo – come impresa di produzione e come esercizio, sommando i requisiti – perché la particolarità di queste organizzazioni è proprio il progetto integrato (il decreto dovrebbe puntare alla fisionomia e alla qualità dei progetti). E’ dunque opportuno introdurre questa tipologia nel decreto, o almeno inserire elementi di valorizzazione per le compagnie di produzione che gestiscono una sala (o viceversa per gli esercizi che si caratterizzano per rapporti strutturati con organismi di produzione).

La riforma del sistema: la produzione
Le imprese di produzione sono in linea di principio compagnie itineranti: una condizione e una scelta storicamente e culturalmente rilevante, che spesso risponde a una esigenza d’indipendenza che è giusto proteggere, salvaguardando il progetto artistico rispetto al puro orientamento al mercato (anche se molte delle organizzazioni che il MiBACT sostiene da sempre, e sostiene ancora oggi, perseguono una strategia market oriented).
Alla prova dei fatti non è tuttavia questo l’orientamento del decreto: anche per le imprese di produzione propriamente dette le asticelle si sono alzate a 1500 giornate lavorative e 150 giornate recitative (erano 1.000 e 90). Sono moltissime. Una formazione sola dovrebbe restare in tournée per sette mesi a stagione, e questo non succede ormai da decenni.
Anziché aiutare il teatro a fronteggiare la crisi, il MiBACT sembra utilizzarla anche in questo settore per fare selezione. Con questi paletti, riuscirà a reggere l’impatto della riforma solo l’impresa che saprà combinare più attività, la principale (più progettuale o più market oriented) e una o più attività secondarie (più o meno coerenti), senza escludere qualche tenitura forzata. Sarà un’evoluzione positiva? Le commissioni saranno in grado di valorizzare la coerenza e la vitalità dei progetti di aggregazione tra compagnie? Saranno davvero i migliori a salvarsi?
I “minimi” sono inferiori – ma piuttosto alti – per le due sottocategorie: l’“innovazione” (1000 giornate lavorative e 120 giornate recitative, di cui max 30 di laboratorio); e il “teatro di figura” (700 giornate lavorative e 70 giornate recitative).

La riforma del sistema: la distribuzione
E’ un settore dove non erano mancati proclami, con punte polemiche, sull’inefficienza dei circuiti teatrali regionali (e, in un paio di casi, anche sulla percentuale delle risorse assorbita da dirigenti e personale amministrativo). E’ un tema di cui si è molto discusso in dieci anni di Buone Pratiche del Teatro, anche se pochi progetti si sono rivelati efficaci.
In un sistema caratterizzato storicamente dal “giro”, quello della distribuzione è il nodo cruciale: è un problema di qualità e diversificazione delle scelte, quindi di competenza e professionalità dei programmatori, di modalità di rapporto con la produzione, di equilibrio fra realtà locali e nazionali, di accoglienza, di formazione e promozione del pubblico, di risorse.
Con riferimento ai Circuiti Teatrali Regionali, le linee del decreto hanno fortemente rialzato i “minimi”: 200 repliche (erano 150) e un minimo di 15 piazze (erano 10), con il limite di uno per Regione, oltre alla prescrizione “di altre entrate, ad esclusione degli incassi, pari almeno al 40% delle spese ammissibili”. Ma prescrizioni quantitative più ambiziose (e auspicabilmente una più equilibrata distribuzione delle risorse sul territorio) non sono sufficienti a incidere su un sistema che non funziona.
La riforma non menziona inoltre i numerosi circuiti territoriali (spesso su base provinciale) e le reti indipendenti (di residenze, o di compagnie) che negli ultimi anni si sono ritagliati un ruolo importante nei sistemi territoriali, con progetti di promozione e distribuzione. Si sono rivelati fondamentali soprattutto per i gruppi più giovani: se Stato e Regioni svolgeranno davvero funzioni complementari, è importante che le risorse territoriali non si orientino solo sui circuiti regionali, e sostengano anche queste realtà emergenti. Se operare in rete è un merito, le reti devono essere messe in condizione di operare.
Per gli Organismi privati di ospitalità, le giornate recitative prescritte passano da 130 a 150 per l’attività annuale e da 80 a 100 per quella stagionale: una forte selezione anche in questa area.
Dei teatri comunali non si parla: si considera correttamente che siano competenza degli enti locali, che possano aderire ai circuiti e vengano sostenuti dalle Regioni (si spera sulla base di criteri e obiettivi più omogenei, che ne valorizzino la funzione fondamentale). C’è però un’area specifica, quella dei 28 Teatri di tradizione, sostenuti per la produzione lirica: in una logica multidiscpilinare potrebbero (o dovrebbero) allargare la componente finanziata delle propria attività anche alla prosa.
Come per i Teatri di tradizione, per i festival si dovrebbero prevedere attività e contributi “trasversali” per attività multidisciplinari. Anche per i festival si rischia di restare ancorati a una visione tradizionale. Il nuovo decreto prevede che non durino più di 40 giorni e ottengano contributi ministeriali fino al 70% dei costi (percentuale che oggi non raggiunge nessuno, ma forse qualcuno potrebbe arrivarci…). Alcuni tra i più vitali però (Inequilibrio, Dro, Santarcangelo) hanno intrapreso in questi anni percorsi di accompagnamento alla produzione e una programmazione distribuita nell’arco dell’anno (anche per supplire alle carenze del sistema): la limitazione a 40 giorni sembra ignorare (o contraddire) questa evoluzione, le trasformazioni, la nuova funzione che i festival hanno acquisito e favorire impianti più tradizionali.
Tutto questo prefigura una riforma della distribuzione? Solo se queste misure saranno accompagnate da politiche complementari delle Regioni, da una descrizione delle funzioni, da una competente verifica della qualità dei progetti da parte delle commissioni.

Innovare l’innovazione
Fino a questo punto, abbiamo esaminato gli aspetti del decreto che rimodulano l’esistente, con conseguenze anche radicali. Ma il provvedimento precede anche diverse misure destinate a favorire il ricambio e l’innovazione. Va subito precisato che, anche in questo caso, il termine “innovazione” viene enunciato solo di sfuggita: bisognerebbe precisare in che cosa consiste l’innovazione, e quali debbano essere gli obiettivi.
Ai teatri nazionali si richiede la “produzione di almeno 2 opere ogni anno di autori viventi, di cui almeno 1 italiano” e l’”allestimento o ospitalità di almeno 3 titoli di ricerca o innovazione; ai teatri di interesse pubblico si richiede la “produzione di minimo 1 opera ogni anno di autore vivente” e l’”allestimento/ospitalità di almeno 2 spettacoli di ricerca o innovazione”.
Le categorie utilizzate per definire il nuovo sono le solite di sempre: si alzano i numeri (come accade in genere nel decreto), senza tener conto che oggi la maggior parte degli stabili fa già molto di più.
Bisognerebbe specificare che caratteristiche debba avere l’opera di “autore italiano vivente”: per esempio, andrebbe bene una novità di un best-sellerista, che potrebbe tranquillamente pagarsi con gli incassi come già avviene per i comici vecchi e nuovi? E chi decide e come se uno spettacolo è di “ricerca” o di “innovazione”? Basta che sia prodotto da un membro della “sottocategoria innovazione”? L’indicazione è teoricamente chiara, ma ancora più importanti saranno le valutazioni della Commissione (e però impugnabili, se il dettato resta così generico).
Ci sono altri interessanti elementi di novità, oltre a questo e alla triennalità/progettualità. I progetti triennali devono infatti privilegiare interdisciplinarietà e multidisciplinarietà. A dire il vero di interdisciplinarietà nei decreti si parla senza effetti percepibili dal 1999: speriamo che sia la volta buona. Il decreto allarga le maglie dell’ospitalità per gli spettacoli di danza. Ma rientrerà nei parametri quantitativi anche la produzione di spettacoli di discipline diverse? E organizzazioni come festival e teatri comunali (e soprattutto i Teatri di tradizione) potranno presentare domanda di contributo “traversale” alle diverse aree del FUS (prosa, musica e danza)?
Per le “prime istanze” sono previste facilitazioni all’accesso a nuovi soggetti, con solo un anno di esperienza pregressa (tradizionalmente erano tre) ed è previsto un abbassamento dei minimi per le imprese di produzione. La norma non si rivolge necessariamente a giovani gruppi, potrebbe anche applicarsi a compagnie costruite intorno a star del cinema o della tv con un solo anno di attività alle spalle.
Ulteriori riduzioni dei minimi sono previste per le compagnie più giovani, ovvero la cui proprietà sia “detenuta almeno per il 51% da persone fisiche under 30”, “gli organi di amministrazione e controllo siano formati in prevalenza da soggetti under 30”, “il nucleo artistico e tecnico sia composto in prevalenza (almeno per il 70%) da soggetti under 30”.
Il MiBACT si riserva inoltre un ambito di intervento discrezionale, con una serie di “azioni trasversali” che daranno il segnale della linea di politica culturale suggerita dall’amministrazione (e che speriamo non ricadano nelle solite logiche clientelari).
Per quanto riguarda la promozione, si punta sul ricambio generazionale, oltre che finalmente sul teatro del disagio e all’inclusione sociale: considerando un massimo cinque interventi per settore (in ambiti che dovrebbero trarre forza dalla diffusione capillare delle esperienze), si spera che vengano privilegiati progetti pilota ed esperienze di rete.
Una seconda novità è il riconoscimento delle residenze artistiche (ma come già notato andrebbero riconosciute anche le residenze artistico-organizzative, sul modello lombardo o pugliese, e non solo quelle artistiche), “nel quadro di una programmazione concertata degli interventi tra Stato, Regioni ed Enti territoriali”: una scelta determinata dalla specificità del rapporto con il territorio delle residenze. Ma chi e come dovrà valutare l’efficacia di questi interventi?
Ritorna anche l’ETI; o meglio “i compiti e le funzioni di promozione nazionale e internazionale già esercitate dal soppresso ETI” (finanziata con il FUS, anche se va chiarito cosa si farà, e con quali controlli).
Nell’insieme, sono passi significativi, e addirittura necessari, per favorire il ricambio generazione e l’innovazione, ma mancano indicazioni sugli obiettivi dei singoli interventi e un disegno complessivo perché si possa avere un evidente impatto sul sistema.

Le Commissioni ministeriali e il calcolo del contributo del FUS 
Un ulteriore e decisivo elemento, già preannunciato, è il rilancio delle Commissioni ministeriali. Saranno composte da cinque membri, tre nominati dal MiBACT dopo una call pubblica, gli altri due dalla conferenza delle Regioni. Non vengono ancora specificati il profilo professionale richiesto, se il loro lavoro resterà gratuito e quali saranno gli strumenti di cui disporranno i commissari. Il calcolo del contributo diventa assai complesso, un piccolo capolavoro di equilibrismo burocratico, per conciliare l’oggettività dei numeri (il mercato) e la soggettività del giudizio di valore (il giudizio critico e la spinta progettuale). La valutazione sarà articolata in tre fasce. La prima (“Quantità”, massimo 30 punti) tiene conto di indicatori quantitativi (giornate lavorative e oneri contributivi, numero di produzioni, repliche, piazze, spettatori, incassi). La seconda (“Quantità indicizzabile”, tra 10 e 30 punti) valuta la qualità del progetto sulla base di indicatori quantitativi parametrati sulla base delle diverse realtà: tra di essi, impiego di giovani artisti, ampliamento del pubblico rispetto alla stagione precedente, coproduzioni nazionali e internazionali. La terza fascia (“Qualità”, tra i 15 e i 40 punti), quella affidata al giudizio dei commissari, valuta la qualità della direzione artistica, gli interventi di formazione del pubblico, i premi e riconoscimenti, la partecipazione a reti… Gli obiettivi strategici sono nelle intenzioni: qualificare l’offerta, sostenere la domanda, favorire la creatività emergente, turismo, riequilibrio territoriale, internazionalizzazione. I commissari dovranno anche valutare la qualità del soggetto che richiede il contributo (non solo ma anche la storicità), e in particolare: solidità gestionale, riconoscibilità, impatto mediatico/promozione, oltre alla capacità di operare in rete.
Il compito della commissione è reso ancora più difficile dal fatto che al provvedimento pare mancare il necessario respiro culturale. Come abbiamo visto, mancano indicazioni su quello che si deve intendere per “teatro pubblico” o “innovazione”. Anche per le compagnie “under 30”, l’anagrafe non basta: è necessario anche valutare la qualità (e l’innovazione) delle proposte.

L’impatto sul mercato
Ma che cosa succederà a partire dal fatidico 2014? Il Ministero ha certamente valutato l’impato del provvedimento con una serie di simulazioni, ma anche noi abbiamo provato a immaginare l’effetto domino dell’intreccio di queste misure, a partire da quello che prefigura in Ministero.

Se vincono le cattive pratiche del teatro…
Nel gennaio 2015 la “crisi” (quella generale e quella della finanza locale) si avverte ancora.
Sono stati tagliati molti rami secchi, liberando risorse (ma provocando allarmi, polemiche e ripescaggi più o meno clientelari). Inizialmente i soggetti finanziati dal FUS erano stati quasi dimezzati (gli Stabili di innovazione di fatto cancellati), una vivace ondata di proteste ha portato al salvataggio di una cinquantina di realtà (non necessariamente le migliori). Le conseguenze sul mondo del lavoro – o meglio, sul mondo del lavoro “tutelato” – sono state pesanti: centinaia di persone (artisti, tecnici, personale amministrativo) sono ricadute nella precarietà che da sempre caratterizza il settore dello spettacolo. Alcuni tra i più arrabbiati hanno promosso nuove occupazioni, altri sono diventati leader del “popolo dei forconi”.
Quattro o cinque stabili (tra cui Milano e Roma) sono stati promossi a Teatri metropolitani, dopo che la rivolta contro la dicitura Teatri nazionali ha prodotto questo compromesso. Queste corazzate teatrali però non possono coprodurre per più del 10% della propria produzione (quanto incidono oggi le coproduzioni?). I contributi statali sono aumentati (con ogni probabilità e come è giusto, ma anche grazie ai molti soggetti eliminati), tuttavia non abbastanza. Occorre dunque concentrare risorse sulla produzione, considerato anche che ai Teatri nazionali si chiede di aumentare la stanzialità (obbligandoli a diventare sempre più stabili anche di fatto e non solo di nome, tuttavia ancorando i teatri più prestigiosi a un’ottica locale). Di quanto si deve ridimensionare il budget e l’incidenza dell’ospitalità nella programmazione? Quali sono le compagnie penalizzate dal limite alle coproduzioni?
I Teatri di interesse pubblico sono X (mettete voi il numero: non lo azzardiamo, per non spaventarvi, ma anche in questo settore fallimenti e chiusure sono stati all’ordine del giorno, “un male necessario per dar spazio ai giovani”, in realtà cinque o sei foglie di fico). I superstiti scambiano il più possibile, ma anche per loro la vita non è facile: le trenta rappresentazioni in più sono quasi tutte in sede (non importa se la platea è semivuota…). Non aumenta la loro pressione sul mercato, ma sottraggono risorse e spazi all’ospitalità. E, nell’ottica del co-finanziamento con il FUS, risucchiano risorse alle altre realtà locali, a partire dall’area della “stabilità leggera”: tanti teatri chiudono, gli altri navigano al di sotto della linea di galleggiamento, sperando in tempi migliori e diversificando l’attività a scapito della produzione di spettacoli e della programmazione della sala.
Le compagnie private “ammiraglie” sono facilmente rientrate nei nuovi parametri, affiancando compagnie di serie B che possono imporre in un “pacchetto”: puntano su qualche vecchio leone, ma si affidano sempre più a volti popolari, prelevati dal grande e dal piccolo schermo, o a qualche starlette televisiva (sta già accadendo, come succede a ondate nel sistema italiano). In loro difesa si sono schierati i difensori del libero mercato e gli oppositori dell’arte di Stato. I progetti di queste compagnie, più o meno plausibili (spesso improbabili), si vendono “a prescindere” grazie ai nomi in cartellone (non ci sono più gli impresari di una volta, e neppure i programmatori che sapevano distinguere). Insomma, quello che accade oggi, ma sono i rossi nomi a prendersi sempre di più il giro migliore. Agli altri, restano le briciole, in una rete distributiva dove gli spazi sono ridotti dalla maggiore stabilità.
I circuiti regionali (quelli che sono riusciti a raggiungere i requisiti richiesti, diciamo 8-10 su 13) devono programmare 500 recite in più, con risorse uguali (o minori). La strada più facile? Tranquillizzare gli amministratori locali e la loro brama di consenso con un paio di star, e per il resto fare più repliche possibile con cachet medi molto più bassi. La miseria potrà aguzzare l’ingegno anche sul piano promozionale (e forse qui sono favoriti i giovani).
Tra i 36 esercizi teatrali privati attualmente finanziati (oggi 26 soggetti ricevono meno di 40.000 € ciascuno), quanti supereranno le soglie d’accesso? (e le 20 repliche in più dei pochi rimasti non riequilibrano certo un mercato sempre più asfittico).
Che i teatri siano finanziati o meno, prosegue l’ecatombe degli ultimi mesi: sono innumerevoli gli spazi privati in tutta Italia che continuano a chiudere, e si diffondono le occupazioni di giovani artisti alla ricerca di spazi vitali.
Ma i giovani? Il FUS ha aperto qualche spiraglio agli under 30, ma la generazione tra i 31 e i 50 è stata tagliata fuori e lo sarà per sempre. Niente facilitazioni, e un mercato ristretto e intasato. Del resto, non è mica possibile accontentare tutti, soprattutto quando le risorse scarseggiano…

Se vincono le Buone Pratiche del Teatro…
Il Ministero ha dato chiare ed efficaci indicazioni sulle diverse funzioni del teatro pubblico, sugli obiettivi di ricerca e innovazione, su trasversalità e multimedialità, e più in generale sulla politica culturale in campo teatrale, valorizzando anche la sua missione sociale. A partire da questa base, e dalle loro specifiche vocazioni, i teatri e le compagnie hanno presentato una serie di interessanti progetti triennali, che stanno generando curiosità ed entusiasmo.
Il governo crede davvero che il rilancio del paese passi per la cultura e ha rifinanziato anche il FUS. La Conferenza Stato-Regioni per lo Spettacolo lavora a pieno regime, con efficaci Piani di rilancio territoriale, a partire da una innovativa programmazione dei circuiti, che spesso operano in sinergia con reti auto-organizzate come Tilt o Latitudini.
Le Commissioni, composte da personalità competenti e indipendenti, stanno lavorando a pieno regime. I Commissari – moderatamente ma equamente remunerati – dopo mesi di strenuo lavoro e verifiche sul campo – hanno tagliato senza pietà rami secchi e drasticamente ridotto le rendite di posizione.
Sono stati lanciati numerosi bandi pubblici, sia per le posizioni apicali sia per decine di progetti, seguiti e valutati con grande attenzione anche e soprattutto negli esiti.
Gli Inamovibili sono stati rottamati. Oggi metà dei presidenti dei Teatri Nazionali e dei Teatri di interesse pubblico sono donne. Là dove il presidente è un uomo, il direttore è una donna. Alcune mummie del nostro teatro hanno tentato di partecipare ai bandi da direttore artistico indossando abiti femminili, ma sono pessime attrici e li hanno stati subito smascherati.
Diversi teatri e compagnie sono purtroppo falliti, i loro finanziamenti dirottati tutti su energie giovani che rivitalizzano le scene. I maggiori teatri fanno a gara per accaparrasi le compagnie emergenti, quelle che appassionano, provocano e coinvolgono il pubblico gli spettatori: offrono residenze artistiche dove far crescere e responsabilizzare i nuovi talenti e questo vivaio sta formando una nuova generazione di direttori artistici.
La Fondazione Valle Occupato-Bene Comune ha vinto il bando per la gestione dei Teatri di Cintura e dei Teatri Occupati d’Italia, creando e coordinando una rete di residenze per compagnie capaci di coinvolgere nuovo pubblico e selezionare nuovi talenti. Il Teatro Valle Disoccupato ospita gli spettacoli realizzati dalla Polisportiva Vecchi Tromboni, dove si sono riciclati i rottamati del nostro teatro e qualche ex politico. Lavorano gratis, anche perché godono di ricche pensioni. Fanno sempre il tutto esaurito, anche perché gli spettatori over 65 entrano gratis (ma il presidente Mario Monti e la direttrice artistica Elsa Fornero vorrebbero alzare l’età a 73 anni). Il Ministero ha lanciato e gestito diversi progetti pilota sul fronte dei giovani e del teatro sociale e di comunità, rivolti ad allargare il pubblico con modalità innovative: non tutti hanno funzionato benissimo, ma i più riusciti verranno ripresi con successo in diverse Regioni. Particolarmente efficaci i corsi sulla politica culturale destinati ad assessori e funzionari pubblici, che stanno dando nuovo impulso alla progettazione e alla programmazione.
Rai 5 ha avuto un insperato successo con la sua programmazione teatrale e ora investe in produzioni centrate sullo spettacolo dal vivo: spettacoli, interviste, documentari, inchieste… A Milano, Expo 2015 presenta a ciclo continuo, nel festival Teatrexport, i gruppi e le compagnie che nel decennio precedente hanno fatto più repliche all’estero: molti nomi sono misteriosamente ignoti al grande pubblico. La Capitale Europea della Cultura 2019 avrà in programma, nell’arco di due settimane, un festival nazionale con le dieci migliori produzioni della stagione, selezionate da Rete Critica e votate dalla giuria dei Premi Ubu: è la prima edizione di una rassegna itinerante che toccherà ogni anno una città diversa.

Dieci anni dopo
Ah, dimenticavamo! Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino di ateatro.it, dopo aver scritto nel dicembre 2013 un articolo in cui si profetizzava una straordinaria rinascita del teatro italiano, sono stati ricoverati in un reparto dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini (appositamente riaperto per ospitarli) e affidati alle amorevoli cure di Olinda. Ogni tanto li portano a vedere uno degli spettacoli della rassegna “Da vicino nessuno è normale” e gli raccontano che sì, che va tutto bene, che il teatro italiano è più vitale che mai, che non bisogna preoccuparsi, che l’Italia è risorta grazie all’investimento in cultura e istruzione.
“Visto che avevo ragione?”, chiede Oliviero con la solita arroganza.
“Ma no, che dici? Avevo ragione io!”, ribatte Mimma piccata.
“Avevate ragione tutti e due”, cercano di tranquillizzarli, ma senza successo.




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