Graffiti in scena, il gesto della scrittura

Urban Spray Lexicon Project di Ateliersi con Fiorenza Menni

Pubblicato il 18/01/2014 / di / ateatro n.

Una formula riconosciuta, un pezzetto di verità, una scheggia di che cosa? (Michel de Certeau)

Sotto i sampietrini c’è la spiaggia (Marguerite Duras, slogan per il ’68)

23:59 (Scritta muraria)

ph Ateliersi

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Nel saggio dedicato alle Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber, Michel de Certeau apponeva in calce un graffito, rilevato nel bagno di un cinema di Parigi:

«Non scrivete nei cessi, cagate sulla scrittura».

Non è subito evidente cosa possa accomunare il diario del viaggio mistico e allucinatorio compilato da Schreber alla fine dell’Ottocento, uno dei protocolli patologici più famosi della letteratura clinica, e questa iscrizione in calce che sembra un attacco frontale e di un certo vigore alla scrittura attraverso un tipo di scrittura. Il breve saggio di Certeau va, poi, in tutt’altra direzione ma spiccano, prelevate, delle immagini potenti. La parola come scheggia di senso conficcata nella carne.

ph Ateliersi

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Il potere performativo del nome: fa ciò che dice. In tutti i modi l’in calce del bagno pubblico parigino rimane enigmatico nel testo di Certeau da sempre attento a quelle forme di narratività che vengono dal basso e che il filosofo gesuita definisce «delinquenti». Sono i percorsi – tratteggiati nell’Invenzione del quotidiano – che si inscrivono nel fitto reticolo urbano, le strategie linguistiche ed espressive dell’uomo qualunque, del passante, colui che attraversa la città e scrive una drammaturgia di passi. Chi percorre la città con questa ottica «dal basso» coglie le voci perdute, voci multiple messe a distanza dal prevalere dell’economico sul fatico (su ciò che produce e non su ciò che parla). Voci intrappolate o capitalizzate, ma garantite da forme narrative illegali che riescono ad annidarsi tra le maglie delle reti di sorveglianza.

ph Ateliersi

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L’istituzione fonda e mantiene i luoghi preposti al dire. Qui si parla, lì no. Qui si scrive, lì no. Si delineano veri e propri spazi di segregazione della parola che aumentano esponenzialmente laddove l’istituzione accentua il suo intervento disegnando i luoghi in cui ciò è lecito o non lo è. Una narratività resiste e la sua prima istanza è quella di iscriversi sul corpo producendo una «prossemica», il rapporto tra corpi e luoghi, tra corpi e corpi. Sono le tattiche – contro le strategie di potere – dell’eroe qualunque, quello celebrato da questi racconti impigliati nella città.

ph Ateliersi

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La scrittura, quella incisa sui muri, si va ad aggiungere a tutte quelle pratiche del quotidiano a cui dà voce l’eroe di tutti i giorni tratteggiato da Certeau. Una serie di marche caratterizzano il graffito e sono quelle che rimangono immutate nel tempo attraverso la sua storia. Innanzitutto il gesto con cui si incide e il luogo su cui incidere si equivalgono. La scrittura tradizionale, invece, scollata dal luogo, cerca solo in un secondo tempo il posto dove collocarsi. Qui, nel caso dei graffiti, la scrittura si produce nello stesso luogo da cui parla. Un’esposizione sicura o assicurata, anche se quasi sempre illegale. È illegale il supporto, perché è illegale il luogo. E viceversa. Il supporto è di solito una superficie urbana, un muro di un edificio, la parete di un bagno pubblico: una superficie in cui si può incidere o graffiare. La stenografia è veloce, la frase può non seguire una sintassi ortodossa. La parola può avere una forma sintetizzata o semplificata: le acrofonie o gli acronimi sono le forme più ricorrenti. A volte una parola può essere la sintesi di più parole. Sono tipici i solecismi, errori volontari e non. Il linguaggio coprolalico. Il tempo è quello dell’estemporaneità veloce. La frase non viene sottoposta a una processazione di pensiero, anche se di frequente si fa riferimento a precise ideologie. In quest’ultimo caso la scritta prende la foggia dello slogan o dell’incitamento alla lotta. Ma spesso si scrive nello stesso tempo in cui si pensa. Il tempo lungo della scritta muraria può prodursi solo in una seconda fase, quella della sua sopravvivenza; a meno che non si intervenga a cancellare o rimuovere e ripristinare il supporto di partenza, ci sono scritte che permangono in certi luoghi immutate, per anni, e spesso mantenendo la stessa potenza flagrante. In tutti i modi la vocazione di questa scrittura è quella di non rimanere seppellita nel luogo dove è stata incisa, e parlare. L’elemento persistente e spiazzante è che si tratta di un tipo di scrittura che libera la voce, una voce potente. E lo fa senza mediazione. Ti coglie. Non ti coglie. Ma comunque la devi oltrepassare, attraversare perché è parte dei luoghi. Una questione di architettura, di «prossemica», appunto. Non devi approvvigionartene, come del libro.

14.muro5.ph Ateliersi

La scritta è nella città. Ognuno vi incrocia il suo sguardo. Una voce si rinnova nel graffito perché si sente un timbro. A volte è un urlo graffiante ai limiti dello squarcio, uno spasimo di dolore o di amore; a volte il tono è della confessione, sussurrato, delicato e inerte. E questa voce incisa, tra ciò che è visibile e ciò che è udibile, abita lo stesso tempo del desiderio. Non è un caso che il graffito alloggi uno strano e anomalo bilico tra pubblico e privato. Si espone pubblicamente per dire una sensazione intima, apre la sfera del privato, precipitando nel pubblico. Se il politico non riesce a raggiungere il cittadino, questi si riappropria della parola e lo fa coi suoi mezzi e in luoghi non-dedicati. È la sua forza. Una rivelazione che non richiede né riposta né dialogo né replica. Nel ridisegnare le due sfere del pubblico e del privato, i temi più ricorrenti sono amore e politica. Lo stile è quello della dichiarazione, in tutti i casi, o della denuncia. Si denuncia uno stato sociale inadeguato allo stesso modo in cui si denuncia uno stato di godimento o di sofferenza amorosa. E lo si fa dichiarandolo. Non c’è luogo riservato a queste forme di espressione, nella città: è così che si scrive sul muro. Le scritte sono anonime, non sono firmate. È come se l’iper-esposizione cancellasse la necessità di un soggetto, o di un autore. E questo le fa divenire di tutti, di chiunque. Un coro.

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Urban Spray Lexicon Project – ideazione di Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi e prodotto da Ateliersi – raccoglie il gesto di chi incide sul muro e lo traspone scenicamente. Il percorso prende avvio da alcune circostanze e da alcuni luoghi. Un archivio fotografico, Bologna al muro, che raccoglie centinaia di scritte scovate sui muri della città principalmente del centro storico e della zona universitaria. Una giornata (settembre 2011) dedicata alle scritte murarie dell’archivio, curata da Etta Polico e Vega Partesotti, e organizzata da Facchinx2 – una fattoria creativa nata a Bologna dalla collaborazione tra Elastico e la libreria-casa editrice Serendipità -.

Fiorenza Menni_Bologna al muro_ph. Ateliersi

Fiorenza Menni_Bologna al muro_ph. Ateliersi

La richiesta, rivolta ad alcuni artisti di varia estrazione, è di intervenire nel tessuto urbano a partire dall’incisione muraria. Fiorenza Menni sceglie di istallare una tenda, accampata in un angolo di via Facchini, una sorta di stazione permanente da cui lavora a una di partitura di scritte prelevate da Il linguaggio murale di Cesare Garelli, un catalogo di graffiti prevalentemente del ’68 e del ’77. In questo luogo chiuso prende forma l’evento performativo Boia, una delle imprecazioni murarie più diffuse. L’uscita dalla tenda corrisponde ai momenti in cui Fiorenza Menni esibisce al pubblico ciò che ha ricavato dall’indagine, un poema di scritte murali accompagnato da sintetizzatori. Viene cercato anche un modo, prelevato dalla poesia, una sorta metrica del muro. Il visivo diventa sonoro.

Fiorenza Menni_Boia concerto breve_ph fotokune

Fiorenza Menni_Boia concerto breve_ph fotokune

Dal nucleo di scritte raccolte in due poemi – uno politico, l’altro amoroso – e dall’evento contingente generato da una committenza, l’anno dopo si sviluppa il passaggio alla composizione del progetto Urban Spray Lexicon Project. Il primo capitolo è Boia-concerto breve per imbrattamenti, voce e sintetizzatori (2012). Entra in scena una batterista, Silvia Garcia. Fiorenza Menni abbandona il luogo protetto e si espone al pubblico dietro un sintetizzatore sollecitato per mezzo di un basso. Il primo è un lungo poema politico, nel senso più ampio del termine, che si costruisce dalle scritte composte di una sola parola fino a quelle di frasi più complesse. Dopo il poema maggiore ne inizia un altro, più caldo, il poemetto d’amore IT OMA, palindromo di TI AMO, dedicato all’amore e alla sessualità, questa volta in un duetto tra la cantante e la batterista.

Silvia Garcia_Boia concerto breve_ph. fotokune

Silvia Garcia_Boia concerto breve_ph. fotokune

Il ritmo è elettrico. La scritta del muro passa dal sonoro, ma per ritornare nel visivo (queste sostanze sono state indagate con attenzione e la loro composizione si è avvalsa del contributo di un sound design, Alessandro Gulino, e di Federica Falancia che ha curato il paesaggio visivo). Infine tutto si chiosa in un racconto – raccolto da una testimonianza reale – su come nasce questo gesto che inscrive il proprio grido sul muro.

Ci sono scritte che posseggono una forte chiamata esistenziale, raggiungendo sensazioni, dolori, giubili, inadeguatezze, rabbie, desideri, accensioni improvvise di vita e di sensazione di vivere. Sono le scritte che intercettano, più di altre, una scheggia del mondo, se vuoi banale, ma lampante. Sono quelle che Ateliersi definisce «scritte ad altezza dello sguardo», luoghi di «appuntamento dell’umano». Da questa evidenza si produce Se la mia pelle vuoi – seconda tappa del progetto, debuttato al Gender Bender Festival 2013 – in cui si compie un ulteriore avanzamento in chiave drammaturgica. Nel senso che la voce della scritta si fa inciampare con altre forme del parlare quotidiano. Al poema erotico-politico, monologo strumentale e vocale – che costituisce la prima parte dello spettacolo – succede un dialogo tra un uomo e una donna, in un possibile interno che non vediamo (gli attori, Arianna Belloli e Alessandro Fantinato, provengono dal Laboratorio di formazione al PiM Off di Milano). La parola si incide in un tempo che coincide con quello dello spettatore spiazzato da una rivelazione che si produce per iper-realtà o per somiglianza, il riconoscimento di un dialogo che si comprende perché si frequenta. Può dare imbarazzo. Comunque ti tocca. Ma è una parola che sfuma immediatamente perché non incide nessuna verità se non quella del brusio, di uno dei tanti brusii che si sommano a comporre il concerto umano. L’unica scena o sfondo che l’occhio o la luce incrociano è il mucchio di libri che circondano i due umani dialoganti. Si rinnova il gesto di dare un simulacro di vita o di presenza a chi non ce l’ha. I libri, infatti, sono stati prelevati da un macero, un luogo in cui, negli ultimi anni, ne finiscono moltissimi, anche di quelli di una certa importanza. Quindi oggetti intercettati prima della loro scomparsa definitiva. Anche il macero dei libri è un luogo di confine. È confine qualunque linea al di là della quale oggetto o uomo non hanno alcuna dignità o permesso di soggiorno. Dietro, accanto, svoltato l’angolo, vicino a Se la mia pelle vuoi, la città c’è, è appena fuori di qui. A volte la sensazione nell’udire queste multiformi voci richiama una comunità. A volte un gruppo, altrimenti un branco (crew). In tutti i modi si partecipa di qualcosa quando, attraverso Fiorenza Menni, le scritte dal muro arrivano a noi. Infine la luce si accende. Andrea Mochi Sismondi legge ad alta voce la lettera di un poeta «d’assalto» (così si definisce) che sarebbe dovuto essere presente all’evento ma, impedito da un imprevisto, si scusa inviando a noi, pubblico, alcuni suoi versi che, frammentati, vengono distribuiti ai presenti in fogli di carta. Resta questo squarcio improvviso. Avevamo vagato per un po’ in un sentimento di aderenza. Il cambio repentino apre uno scenario ancora diverso. Il poeta è vero? È un nostro amico? Anche lui scrive sui muri?

Ateliersi_Se la mia pelle vuoi_ph Futura Tittaferrante

Ateliersi_Se la mia pelle vuoi_ph Futura Tittaferrante

Se la mia pelle vuoi realizza infine un ulteriore spazio fuori dalla scena in cui il processo di osservazione e studio viene in qualche modo svelato. Si tratta di una lecture, una conferenza, che si svolge negli stessi giorni dello spettacolo, pronunciata al pubblico da Andrea Alessandro La Bozzetta: Freedom has many forms. Note e notizie sul come e perché delle scritte sui muri. Le forme dei graffiti attraverso la storia (il termine appare alla fine dell’ottocento nel libro del gesuita Raphael Garucci sulle scritte murarie di Pompei) conducono il pubblico in un viaggio vertiginoso. La scritta muraria è parte della storia politica del nostro paese, viene usata per passare messaggi dalla politica istituzionale, si insinua nelle politiche di marketing della pubblicità, incrocia la street e la pop art, la musica, la poesia. Crea forme di protesta. Diffonde parole della filosofia, della politica, dell’amore più delicato e dell’erotismo più estremo. Andrea La Bozzetta mostra spezzoni di film, lucidi, legge. Accende la lotta.

29:59

29:59

23:59. Si tratta dell’ultima tappa del progetto – debutterà a Torino nell’estate di quest’anno – che promette un affondo specifico sulle tag, quelle scritte murarie che incidono attraverso una sigla il nome del writer, firma e immagine al tempo stesso. È un altro aspetto della scrittura urbana. È un’altra marca. La città pullula di nomi cifrati, enigmatici. Nuove forme di identità premono nell’inesauribilità del tessuto urbano. Manca un minuto perché un giorno finisca. In un minuto si possono fare tantissime cose. Ribaltare il mondo o almeno esprimere su una superficie il desiderio di farlo o una strategia per farlo. Allo stesso tempo manca in minuto perché ne sorga uno nuovo, di giorno. In questo tempo si istalla la scrittura drammaturgica del muro. In questo tempo opera Urban Spray Lexicon Project.




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