C’è ancora qualcosa di buono in te?

Nel carcere di Maiano, durante il Festival dei due mondi, per Il migliore dei mondi possibili 1980-2025

Pubblicato il 22/07/2014 / di / ateatro n. 150

Anticamente i carcerati a Spoleto stavano nella Rocca albornoziana, famosa per i veleni di Lucrezia Borgia e l’ammirazione di Goethe. Quella che sovrasta piazza Duomo, continuando a far godere i nostri occhi, ma per loro, da dentro, non era la stessa cosa. La nuova casa di reclusione, appena fuori città, fu progettata dall’architetto Sergio Lenci nel 1970. Quel Lenci a cui quattro terroristi di Prima Linea spararono alla testa il 2 maggio 1980 in quanto “tecnico dell’anti-guerriglia urbana”, che aveva progettato il carcere romano di Rebibbia. Sopravvisse, cercò di capire, anche incontrando alcuni dei terroristi, ne scrisse in Colpo alla nuca.
Da qui parte lo spettacolo che ho visto durante il cinquantasettesimo Festival dei due mondi, il 4 luglio.
Oltrepassati i cancelli, su un muro vengono proiettate immagini mentre ascoltiamo brani delle lettere che si sono scambiati l’architetto Lenci e Giulia Borrelli, l’unica donna del commando. Hanno le voci di due attori spoletini: Pietro Biondi e Anna Leonardi. Biondi è un noto attore di teatro, doppiatore ad esempio di Donald Sutherland e Walter Matthau, amato dal pubblico televisivo per aver interpretato il giudice Caponnetto nella miniserie Paolo Borsellino e il questore di Montelusa nel Commissario Montalbano. Un paradosso stando qui. Anna Leonardi, di formazione attrice teatrale, ha dedicato per anni le sue migliori energie alla Radio, diventando familiare a milioni di italiani (conducendo 3131, Cara Rai, Il giro del sole, Passo film… o scrivendo e dirigendo sceneggiati, fino alle sessantatre puntate di C’era una volta un re… una rivoluzione, quella francese); lo stesso alla televisione quale autrice (ad esempio di Catherine Spaak) e regista. Insegna recitazione nella Scuola di teatro Teodelapio, a Spoleto. La Compagnia Sine nomine, creata e diretta dall’architetto Giorgio Flamini (già vivace assessore alla cultura), che si è costituita dentro il carcere con reclusi impegnati in varie attività e in collegamento con l’Istituto di Istruzione Superiore Sansi Leonardi Volta, mobilita infatti per i suoi spettacoli attori professionisti della città. Una scelta significativa.

Seconda proiezione: un attore si trucca e recita un monologo. Lo interpreta Mauro Bronchi, uno delle tre mitiche Sorelle Bandiera che portarono il gusto del music hall americano e del travesti sugli schermi televisivi italiani nel lontano 1976 (Neil Hansen, Mauro Bronchi e Tito Leduc, sostituito da Ronnie van den Bergh dopo la ricostituzione del trio per il recente successo australiano). Il volto in primo piano per un trucco maschile in una metà e femminile nell’altra, sciorina con efficacia e senza enfasi le parole scritte dal detenuto Mariano Magro:

E bravo scemo. Hai visto che cosa hai combinato? […] Lascerai che la tua vita ti scivoli via con gli anni o lotterai fino all’autodistruzione? C’è ancora qualcosa di buono in te?

Mauro Bronchi. Foto di Antonello Zeppadoro

Mauro Bronchi. Foto di Antonello Zeppadoro

Ci addentriamo negli spazi del carcere (poi verremo divisi a seconda del sesso). A guidarci alla visione di tre video in successione è un detenuto, Gennaro Oliva: dalla ricostruzione in carcere di una raffineria di cocaina cui seguono un’estorsione e una rapina, si passa a una riflessione sulla camorra, sulla sua natura di granchio (chele buone da gustare e un ventre di escrementi) e sulle sue trasformazioni. Oltre lui ci accompagnano figure in divisa: giovani ballerine mischiate a veri sorveglianti (gentili come tutto il personale, che quasi si scusa per gli impedimenti, inevitabili in un carcere di massima sicurezza). Un funzionario a cavallo ci segue da lontano. Incontriamo finte celle all’aperto con dentro tre detenuti stretti l’uno all’altro e uomini a torso nudo seduti su uno sgabello. Illuminati dall’alto con torce, come in un interrogatorio, ripetono ossessivamente: “non sono stato io”. Corpi forti, lucidi, spesso decorati da tatuaggi, portatori di una energia compressa che rimbalza sui corpi degli spettatori, rilassati e quasi pallidi al confronto. Quelli dei detenuti in scena sono densi come l’aria che si respira: dove sembra essersi sedimentato il dolore di innumerevoli vite, di innumerevoli morti.

Interrogatorio. Foto di Irina Mattioli

Interrogatorio. Foto di Irina Mattioli

Un altro personaggio si fa avanti: un giovane uomo con scarpe rosse, col tacco. Saltella senza enfatizzare l’andatura che ne deriva e parla parla senza nessun intoppo… E’ il Diavolo che rivendica la necessità del male, la sua natura passionale. Finché arriviamo in uno spazio che sembra amplissimo, da una parte ci sono tre palchetti, in un angolo alcune brande. Al centro un lungo tavolo leggermente rialzato da un leggero basamento convesso, con panche in cui stanno seduti vari detenuti. Le mura da un lato e dall’altro alcuni palazzi. Tante finestre mute e cieche ci guardano dall’alto, le sbarre bianche nel buio della notte. Luci alte e una musica aulica, attraversata da grida animali, da suoni che rimandano al luogo in cui ci troviamo. Sul palco più in vista, un trono cui si aggiungerà nella replica successiva un’imponente bilancia: è il luogo della Giustizia, interpretata da Diletta Masetti, che propone brani delle Olimpiche di Pindaro in greco antico, impeccabilmente. Musica recitata. Su un altro palco il Diavolo, interpretato da Mirco Peruzzi. Mirko si è formato nella Scuola di teatro Teodelapio, come Diletta Masetti, che vi è giunta dopo avere frequentato per tutto il Liceo i laboratori di recitazione tenuti da Anna Leonardi. Ha appena concluso il suo secondo anno all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica Silvio d’Amico e ha vinto un premio SIAE.

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Il terzo palchetto, soprannominato della Pietà camorrista, ospita una vera e propria scena teatrale, senza l’ausilio di nessun oggetto, in un crescendo tragico. Assistiamo al fatto, l’uccisione di un giovane da parte dell’amico camorrista. Ascoltiamo L’innocente morte, un racconto realistico come quelli che si sentono tante volte in tv: un’ordinaria scena di violenza in un vicolo napoletano, con tanto di morto e di reazioni straziate o indifferenti, scritta da Ciro Mariano, recitata da Sergio Parmigiano. Una donna dopo aver attraversato un pezzo di ‘platea’ sale sul palchetto dove giace il cadavere del figlio ammazzato. Minuta, in un abituccio scuro, rannicchiata nel suo stesso corpo, le mani eloquenti, alza il suo lamento funebre, le sue grida disperate, sorretta infine da due detenuti. “Jatevenne, jatevenne!” E’ il cuore dello spettacolo, un grande pezzo di teatro, passato al vaglio difficile dei detenuti estranei a questa esperienza. La sera prima alle prove col microfono, dalle celle in alto è scoppiato improvviso, imprevisto, un caldissimo lungo applauso all’attrice.

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Il testo in napoletano è opera del detenuto Gennaro Oliva. Lo recita Anna Leonardi, che non si limita a dire ma libera l’intensità drammatica del testo, elimina ogni elemento di dispersione connesso con l’ambiente. La posizione in cui sono seduta è infelicissima, vedo a stento se mi alzo in piedi e allora mi dispongo ad ascoltare come fossi davanti a una radio. Ascolto quelle semplici quotidiane parole dell’attrice in un dialetto non suo, le emozioni si affollano: il Compianto della Madonna dell’umbro Jacopone, il dolore urlato delle sottoproletarie di Pasolini, quello più controllato di Filumena Marturano… Accanto a me, un’insegnante della Silvio d’Amico fa il nome di Regina Bianchi. Succede qualche volta a teatro che si provi una specie di malessere all’idea che sta accadendo qualcosa di irripetibile, che si vorrebbe vedere e fissare meglio. Fa parte della natura del teatro, del suo stesso fascino, ma può lasciare nella memoria il segno tenace di un vuoto, di un’impotenza. Si può colmare solo con gli echi di altri frammenti teatrali, ugualmente intensi, perché è un continuum la vita del teatro, nonostante le cadute e le crisi. Di nuovo dalle celle intorno, da cui è uscito finora solo qualche raro grido di tifo per i mondiali di calcio in corso, viene l’applauso.

Difficile riprendere il filo. Stando lontano, seguo a fatica l’ultima parte. L’attenzione si sposta ora sul tavolo dove i detenuti discutono di malavita, di redenzione, di fine dei crimini e di chiusura delle carceri. Si accalorano, emergono le loro diverse attitudini: c’è il ribelle, c’è quello che rivendica da sindacalista, c’è il poeta che ha letto più libri di tutti nella ben fornita biblioteca del carcere e gli piace citare. Il linguaggio qui sembra diverso, più intellettuale, non ha la concisione dei pezzi precedenti, con i loro lampi di vita vissuta, che sfidano la retorica. Almeno così mi sembra, forse anche perché è marcato lo scarto rispetto al compianto della madre sul figlio morto, con quel dire frammentato, tutto emotivo. Invece anche questi testi sono stati scritti da due detenuti, Pasquale Marino e Mariano Magro. I due detenuti recitanti – il primo è lo stesso Marino, il secondo è Roberto Di Sibbio – sembrano del tutto a loro agio nella ‘parte’, sicuri di quello che dicono ai loro compagni seduti, con tempi teatrali miracolosamente giusti. Così si profila coralmente l’utopico 2025, in cui nessuno delinquerà più e il carcere di alta sicurezza, divenuto inutile, si trasformerà in un centro culturale. Su uno schermo si succedono telegiornali in tante lingue per annunciare che il migliore dei mondi possibili si è realizzato imprevedibilmente in Italia. Fra le annunciatrici una celebrità spoletina: Virginia Virilli, attrice e autrice di uno straordinario romanzo d’esordio, Le ossa del Gabibbo.

Pasquale Marino. Foto di Irina Mattioli

Pasquale Marino. Foto di Irina Mattioli

Roberto Di Sibbio. Foto di Antonello Zeppadoro

Roberto Di Sibbio. Foto di Antonello Zeppadoro

Giorgio Flamini ha costruito lo spettacolo come una processione a tappe che conduce a un grande slargo: uno spazio che si apre frammentandosi in vari centri di attenzione (ne ho contati cinque). Una bella idea, un percorso ricco, un lavoro cui si è dato anima e corpo. Ha coinvolto oltre ad attori, danzatori e vari professionisti, molti detenuti nella scrittura, nella recitazione, nella costruzione di scene, oggetti, costumi, musica e nella realizzazione dei video. Settantadue, impossibile citarli tutti. Un’operazione teatrale forse troppo ambiziosa dati i mezzi a disposizione, converrebbe lavorarci ancora. L’effervescenza creativa e il pensare alla grande sono infatti fuor di dubbio, ma occorrerebbe una maggiore attenzione (forse semplicemente più tempo e soldi) per la resa della complicata macchina messa in atto, per la sua piena fruibilità da parte del pubblico.

A fine spettacolo Fabrizio Cardarelli abbraccia uno per uno i detenuti al tavolo, gli attori, il regista: ha la fascia da sindaco per sottolineare l’ufficialità della sua presenza. Il suo gesto mi piace, è in sintonia con questa pausa di pace sociale ricevuta in dono. I detenuti hanno tanta voglia di parlare, sono un po’ intimiditi. La parola terribile aleggia nella notte, non detta: ergastolo, fine pena mai. Faccio il cammino a ritroso per uscire: sui muri sono proiettate foto segnaletiche dei detenuti. Ancora un montaggio realizzato da Paolo Murolo. Lentamente il carcere riprende la sua vita, perché anch’essa è vita.




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